Perchè serve cambiare il business as usual e sostenere il Plant Based Treaty
Pubblicato il 31 ago 2021
Il gas metano, prodotto dall’industria zootecnica, dal gas di scisto e dall’estrazione del petrolio, sta giocando un ruolo sempre più importante nel surriscaldamento del pianeta.
Fermare le emissioni di anidride carbonica non è sufficiente per fermare la crisi climatica, è necessario fermare soprattutto le emissioni di gas metano per rimanere entro i 1,5 gradi di surriscaldamento globale.
Un trattato internazionale per una transizione verso un sistema di produzione alimentare a base vegetale è un passo necessario e per questo, mercoledì 1 settembre verrà lanciata in oltre 80 città di tutto il Mondo la campagna #PlantBasedTreaty, progettata per mettere i sistemi di produzione alimentare in prima linea nella lotta contro la crisi climatico-ecologica e ribadire l’insostenibilità sociale, ambientale ed etica dell’attuale sistema economico ed alimentare. Un sistema che causa crisi alimentari e ambientali, che distrugge foreste, ecosistemi e culture locali e che disumanizza il rapporto tra uomo ed animale, trattando quest’ultimo solo come merce, solo come carne da macello.
Dopo aver chiarito i costi in termini ambientali, sociali ed economici di un modello alimentare a base animale, abbiamo deciso di impegnarci attivamente attraverso la cooperazione con le diverse associazioni che si occupano e preoccupano di curare il pianeta dalle scelleratezze del sistema capitalista.
Plant Based Treaty mira a fermare il diffuso degrado degli ecosistemi causato dall’industria animale e a promuovere una trasformazione del sistema di produzione alimentare in un sistema etico, sostenibile, giusto e totalmente a base vegetale per una giustizia animale, climatica ed alimentare.
L’industria alimentare e in particolare quella della carne è responsabile delle logiche consumiste che hanno portando, tra tutte, alla deforestazione della Foresta Amazzonica in favore delle inquietanti distese di mattatoi ed allevamenti superintensivi in Sudamerica.
L’Amazzonia – il tratto più grande e più ricco di biodiversità, di tutte le foreste pluviali tropicali del mondo – è sotto minaccia da molto tempo. Assorbe circa il 15% dell’anidride carbonica nell’atmosfera ed è essenziale per la stabilità del clima globale, oltre che per il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi. L’Amazzonia attraversa nove paesi dell’America Latina, ma la stragrande maggioranza di essa, il 60%, si trova in Brasile.
Dal 1978 oltre 750.000 chilometri quadrati della foresta pluviale amazzonica sono
stati distrutti, principalmente a causa dell’espansione dell’industria del bestiame, seguita dalle miniere e dall’agricoltura su larga scala. Questa tendenza negativa cominciò ad invertirsi durante la presidenza di Lula, quando il tasso di deforestazione venne ridotto della metà, il miglioramento più consistente registrato nell’area, ottenuto grazie ad un monitoraggio più vigoroso e ad una rigorosa applicazione delle norme.
Nel 2012 la Presidentessa Dilma Rousseff, succeduta a Lula, si è scontrata frontalmente, con la potente lobby agroalimentare del Brasile, sulla revisione del codice forestale, la legge che disciplina la percentuale minima e il tipo di bosco che gli agricoltori, le aziende del legname e altri, devono lasciare intatta nelle loro proprietà.
Nonostante non controllasse la maggioranza al Congresso, la Rousseff è riuscita a porre il veto su alcune parti del disegno di legge che tentavano di allentare la protezione della foresta.
Il colpo di stato di destra, contro la presidenza di Dilma Rousseff, ha sancito il processo crisi in Amazzonia, culminato con l’ascesa al potere del Presidente di estrema destra del Brasile, Jair Bolsonaro, nel 2018.
L’industria alimentare studiando i nostri comportamenti a tavola ha deciso – al posto nostro – il cibo di cui nutrirci, senza considerare le conseguenze sopracitate.
Attualmente circa il 37% delle emissioni di gas serra sono legate alla produzione di cibo e, secondo Greenpeace, la produzione zootecnia europea ne produce 704 milioni di tonnellate (molte più delle auto). Inoltre, come è stato ampiamente dimostrato e comunicato da organizzazioni internazionali come l’OMS, ad un’alimentazione ricca di prodotti di origine animali, soprattutto se altamente processati, sono legate patologie gravi come la neoplasia colonrettale, tanto da essere inserita dalla stessa OMS nella lista delle sostanze che causano il cancro insieme al fumo, il benzene, l’arsenico e l’alcol. A quest’ultimo aspetto, oltre alle gravi conseguenze causate alla salute delle persone, sono legati alti costi di ospedalizzazione per le persone che si ammalano a causa di un eccessivo consumo di prodotti animali.
Pertanto è necessario intervenire nella produzione di alimenti di origine animale, in quanto ad oggi insostenibile da un punto di vista ambientale, sociale, oltre che etico. In particolar modo si fa riferimento a quei sistemi di allevamento intensivi o super-intensivi che, oltre a contribuire costantemente agli squilibri causati dai cambiamenti climatici, non tengono conto della vita, del benessere e della dignità degli animali.
É inoltre indispensabile indirizzare i finanziamenti verso un piano di transizione agricola in grado di favorire l’implementazione di sistemi colturali e zootecnici che operino rispettando l’ambiente e gli animali, anche per prevenire future epidemie/pandemie. Saranno quindi favorite attività agricole ad economia circolare, o comunque attività che operano riducendo drasticamente l’impatto negativo su atmosfera, suolo, acqua, lavoratori e lavoratrici.
Gli interventi nel settore agricolo dovranno prioritariamente interrompere la condizione di schiavitù in cui migliaia di persone, soprattutto immigrate, vivono nei campi agricoli italiani. Al fine di attuare una “revisione sostenibile” dell’intera filiera agroalimentare è inoltre importante promuovere la riconversione delle attuali filiere agroalimentari in sistemi economicamente più equi, in modo da ridistribuire la ricchezza tra la produzione primaria e la ricchissima GDO.
L’agroalimentare italiano, conosciuto in tutto il mondo, va accompagnato sulla strada dell’agroecologia, rispettando quanto previsto dalla strategia europea “Farm to fork” 2030.
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