Per un autunno di lotte – Intervista a Tomaso Montanari

Per un autunno di lotte – Intervista a Tomaso Montanari

Città del consumo e città della repressione coincidono, in un paradigma di governo che racconta di voler ripristinare lo stato di cose presenti, nascondendo il peggioramento significativo della realtà che ci attende, se non saremo in grado di lottare per realizzare la rivoluzione promessa che sta scritta nella nostra Costituzione. Sono alcuni dei contenuti emersi nel dialogo con Tomaso Montanari che vi proponiamo.

(Dmitrij Palagi)

Lo slogan dell’emittente radio RTL 102.5 è bentornata normalità: in realtà siamo ancora lontani dal superamento della pandemia, ma sono stati rimossi i mesi più drammatici del 2020. In particolare il sistema politico e le istituzioni non si sono interrogati su quelle immagini in cui vedevamo gli spazi urbani vuoti e deserti, in particolare nelle cosiddette città d’arte (su tutte Firenze e Venezia): invece di pensare a un nuovo modo di vivere il territorio e le città, siamo invitati a partecipare a un’operazione di restaurazione.

Questi mesi non sono quindi serviti a niente, in termini di consapevolezza?

«Il ritorno alla normalità è una minaccia: era una mortalità, una normalità malata e ingiusta, una normalità di morte. Peraltro è anche una balla: credo Papa Francesco abbia detto una cosa vera, quando ha affermato di come da questa pandemia si può uscire peggiori e migliori, ma le cose cambiano comunque. Quello che ci viene prospettato è un ritorno a una normalità aggravata, velocizzata e peggiorata, deteriorata sul piano dello sfruttamento, dell’alienazione e della mercificazione. Recuperare la normalità di prima, comunque perdente, non regge: le dinamiche peggiori della nostra società sono state accelerate dalla pandemia. Basta guardare il Governo Draghi, con cui siamo usciti dalla crisi istituzionale: si tratta di un esecutivo che tiene insieme destra liberista e destra autoritaria di ispirazione neofascista, con all’unica opposizione altri fascisti. Il quadro è molto peggiorato rispetto a prima in tutti gli ambiti: sociale, del lavoro, culturale. Credo che manchi una capacità di progettare: manca la politica. Stiamo assistendo, in molti campi, a lotte di potere: guarda quello che succede nel Movimento 5 Stelle, con una lotta fra capi, maschi, di mezza età, senza confronto di progetto e di visione dell’Italia, o anche solo dei rapporti con il governo. Si tratta di una cifra del nostro momento, di cui il simbolo massimo è il PNRR, con cui dovremmo limitare i danni di una prossima pandemia, se si ripresentasse. In Italia abbiamo deciso di spendere 25 miliardi per le grandi opere e solo 15 per la salute: basterebbe questo dato per far capire che tutto va come prima (cemento, grandi opere, con militarizzazione del territorio e repressione del dissenso). Abbiamo bisogno di investire nella cura della nostra società, intesa come cura fisica, sociale (giustizia) e intellettuale. Il nodo è proprio questo: l’assenza di un progetto di cura e liberazione».

Su come vivere la città sei stato quasi sfidato dal Comune di Firenze: chi ha il potere e governa continua a pensare gli spazi pubblici solo come luoghi di consumo, per poi usare arroganza verso chi avanza delle critiche. Il Partito Democratico, durante un dibattito consiliare in Palazzo Vecchio, ha detto che a problemi pubblici si devono trovare soluzioni private, quando mancano risposte pubbliche. In questo caso si torna al senso stesso della politica, quando è incapace di affrontare la dimensione del pubblico.

«Quanto è accaduto in piazza Santo Spirito a Firenze è un certificato di morte della politica fiorentina: in tempi normali – a proposito di normalità – la Giunta si sarebbe dovuta dimettere. Si sono spese decine di migliaia di euro pubblici per una soluzione folle, del tutto inefficace, con la cordonatura del “palazzo”, agendo nel peggior modo sul piano meramente simbolico, trasmettendo un messaggio di militarizzazione e privatizzazione dello spazio. Siamo di fronte alla regressione a un’idea di città chiusa, che nega i simboli del diritto a vivere la città. Con la decisione presa hanno inoltre provocato chi frequentava la piazza, alzando la temperatura e arrivando a una situazione in cui non c’è scappato il morto perché la Prefetta ha la testa sulle spalle e si è rifiutata di scatenare una repressione in piazza. La responsabilità della distruzione del cordone stesso è della Giunta stessa che lo ha voluto: anzi vorrei aggiungere che se davvero procederanno per via giudiziaria contro coloro che hanno tolto di mezzo quell’oscenità, credo che ci dovrà essere un impegno dal basso nel sostegno alla difesa processuale e nel sostegno alle buone ragioni di chi si è limitato a raccogliere una provocazione, lanciata da chi invece dovrebbe avere la responsabilità del governo della città. Dopo di che, cosa è successo? L’Amministrazione si è ritrovata senza idee, finito il simbolo della repressione. Io ho fatto delle proposte, senza ricevere risposta: una parte di queste sono state riprese, senza naturalmente nessun riconoscimento o ringraziamento, ma esclusivamente per quanto riguarda gli eventi, che da soli non servono a niente. Serviva un consiglio di quartiere aperto, chiedendo alle associazioni e a chi vive la zona di prendersi in carico lo spazio, in una sorta di autogestione. Questo vorrebbe dire non intrattenere il popolo bue con le partite di bridge dei ricchi e svaporati vecchietti, ma restituire alla comunità e a chi vive l’Oltrarno una parte della città. Nella mia proposta c’era anche un elemento che anche voi [Antonella Bundu e Dmitrij Palagi] avete proposto in Palazzo Vecchio [con il voto contrario di tutte le altre forze politiche]: lavorare sui limiti orari delle attività commerciali e sull’occupazione straordinaria di suolo pubblico per le attività di somministrazione e ristorazione. Chi chiede la cancellata si oppone a ogni limitazione non a caso. La città del consumo sfrenato e la città della repressione coincidono: autoritarismo e liberismo sfrenato sono la stessa cosa ormai. Siamo di fronte a un’amministrazione senza progetto e senza idee, irresponsabile per quello che ha fatto, che a Santo Spirito ha dichiarato la sua bancarotta. Quello che manca è la forza di costruire un progetto alternativo, almeno per ora».

A proposito di repressione del dissenso, penso sia il caso di ricordare la via giudiziaria con cui sei stato minacciato, sempre dalla Giunta di Firenze, per aver rilasciato delle dichiarazioni sul governo cittadino e la trasformazione urbana. Di fronte a una critica si è rifiutato il confronto, provando a intimorire con argomentazioni legali.

«Sono rimasto senza parole di fronte a questo atto, che rivela una grande debolezza della Giunta, anche perché poi in privato c’è stata una ricerca per trovare una via d’uscita diversa. Alla fine ho deciso, dopo aver rifiutato di presentare delle scuse, di firmare un’intesa “senza riconoscimento delle rispettive ragioni”, una formula tecnica che a me andava benissimo: non riconosco le loro ragioni e non mi aspetto che loro riconoscano le mie. Ho detto che sono dispiaciuto che le mie parole abbiano fatto dispiacere il Sindaco: avrei voluto aggiungere “e sempre allegri bisogna stare, ché il nostro piangere fa male al re”. Ho pensato fosse meglio uscire dal terreno giudiziario, anche perché non sai mai esattamente come finisce in questi casi: era questione di impegnare molti soldi e molto tempo, anche nel caso di assoluzione, quindi ho pensato più utile dare priorità al mio impegno a tutto campo, difendendo un’idea di città, piuttosto che difendere me. Rimane tutta intera la vergogna di quell’atto. Io personalmente, per quel che conta, non stringerò più la mano e non saluterò più nessuna delle persone che ha firmato quella richiesta danni, perché non ho voglia di intrattenerci alcun tipo di rapporto. Credo che la tradizione di Firenze (di La Pira, di Don Milani, di Balducci, di Fabiani) non meritasse di finire in modo così grottesco, con il Sindaco in fascia tricolore che inaugura la Costa Firenze. Siamo stati di fronte all’incapacità di accettare un dibattito delle idee, per quanto dure, e di venire a replicare a quanto detto, cioè se sia vero o no che gli amministratori della città sono al servizio degli interessi privati. Ho scritto sul Fatto Quotidiano che per certi versi avrei preferito che prendessero delle mazzette, almeno mi sarei spiegato il perché di una Firenze martoriata nel suo interesse pubblico: invece la spiegazione è l’assenza di un progetto politico e la profonda convinzione, in una deriva culturale davvero estrema, che la somma degli interessi privati faccia l’interesse pubblico. La somma degli interessi privati è invece la sottrazione continua dell’interesse pubblico: è questo il punto fondamentale. Nel caso della trasformazione di Costa San Giorgio [ex caserma] a Firenze in un resort a cinque stelle, di cui parlavo a Report, facevo riferimento a un intervento che non gioverà in nulla alla città: creerà lavoro precario e una sacca di privilegio, di lusso proibito. Chi governa parla di una città esclusiva, compiacendosi, dimenticandosi che l’italiano è pieno di nascondigli: si può dire anche una città escludente, utilizzando la stessa parola».

Parlavi del lavoro precario. La Covid-19 ha mostrato quanto il mondo della cultura e dello spettacolo siano attraversati dalle contemporanee forme di sfruttamento. Chi lavora in questi settori ha una doppia colpa: fa una cosa per cui prova passione e viene pagato poco, ricevendo pochissime tutele. Nella società in cui viviamo questo diventa una responsabilità di chi subisce queste condizioni, nonostante le importanti mobilitazioni di questo ultimo anno, che anche tu hai sostenuto e attraversato, che è bene non si arrestino, per non arrendersi al grido di “bentornata normalità”.

«Se ci pensi quello che sta accadendo è evidente da decenni nella scuola: abbiamo affidato la cosa più preziosa della nostra Repubblica a persone che condannavamo alla precarietà estrema, a lavoratrici e lavoratori che fino a settembre non sapevano dove avrebbero insegnato, con stipendi sempre più incapaci di mantenerli decentemente, senza adeguato riconoscimento sociale. La scuola dovrebbe essere un luogo in cui formare cittadine e cittadini liberi di coltivare il dissenso: non dovremmo formare pezzi di ricambio per l’ordine esistente, ma persone capaci di desiderare e di avere gli strumenti per costruire un mondo diverso. Lo stabilisce la nostra Costituzione, che è un progetto rivoluzionario, come diceva Calamandrei (che parlava di una “rivoluzione promessa”). Quello che è stato fatto nella scuola avviene nella cultura e nello spettacolo, settori dove i grandi musei e i grandi eventi sono fondati su uno schiavismo esteso: si deve parlare di schiavi e schiave del patrimonio, di schiavi e schiave della cultura. Vengono in menti i versi di Brecht di Tebe dalle sette porte, chi la costruì?, in cui si parla delle centinaia e migliaia di morti con cui sono state costruite le piramidi, con la schiavitù voluta dai faraoni. Abbiamo un Ministro che ha recuperato il vecchio nome fascista della Cultura, tornando indietro rispetto alla definizione “dei Beni Culturali”: almeno ha evitato la parola “popolare”, anche perché di popolare c’è davvero molto poco. Lo stesso pare essersi dimenticato che chi si forma per lavorare nella cultura o fa altro (andando a lavorare all’estero o consegnando le cene a domicilio), oppure accetta di vivere da schiava e schiavo. Per questo occorre una radicale critica anche al mondo del volontariato: il “modello FAI”, fondato sul volontariato non occasionale, ma quello di laureati e dottorati in storia dell’arte che svolgono gratuitamente un lavoro per cui si dovrebbe essere pagati, nega l’assunto su cui è fondata la nostra Costituzione. Si tratta di un problema enorme, che la pandemia ha semplicemente scoperto, come su tante altre vicende che già esistevano prima della Covid-19. Faccio un altro esempio: i musei civici di Firenze sono rimasti a lungo chiusi, anche quando potevano essere riaperti, perché mancava il turismo. Sono realtà che chi governa immagina rivolte esclusivamente al turismo, non alla cittadinanza. Il punto è quello di cui parlavamo all’inizio: o lottiamo o l’uscita dalla crisi sarà peggiore di come siamo entrati. Non si tratta di tenere le cose come stanno, non solo perché andavano malissimo, ma perché gli aspetti negativi peggioreranno e chi è in condizioni di schiavitù lo sarà ancora di più. Da questo punto di vista credo che debba essere un autunno di lotte».


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