Avola: una lotta e una strage del ’68.

Avola: una lotta e una strage del ’68.

12 anni fa, nel quarantennale della strage di Avola, il nostro compagno Salvatore Bonadonna scrisse un ottimo e importante articolo pubblicato su Liberazione in cui, per la prima volta tornava su quei tragici eventi del 2 dicembre 1968

Ringraziando l’autore lo ripubblichiamo oggi sul nostro sito.

Aggiungiamo anche il video della manifestazione che si tenne il 3 dicembre dal titolo “Avola il giorno dopo”

 

                             a Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, braccianti

 

Quella mattina il freddo era pungente. Più delle altre quindici mattinate precedenti a Chiusa di Carlo, la località meglio intesa dagli avolesi come “ Sant’Antuninu” dall’edicola al santo dedicata e posta al bivio per la marina di Avola. La sera prima, dopo l’assemblea, ero tornato a casa, a Siracusa, perché era Domenica e perché l’indomani sarebbero venuti i trasportatori a caricare i pochi mobili e i libri per il mio trasferimento a Porto Marghera, deciso qualche mese prima, perché Vittorio Foa me lo aveva proposto e mi aveva convinto. Era l’ultima vertenza che avrei seguito a Siracusa e con il gruppo dirigente dei braccianti, e di Avola in particolare, avevo un rapporto molto forte. Avevo partecipato alla elaborazione della piattaforma e allo sviluppo quotidiano della vertenza. Non potevo mancare il giorno dello sciopero generale.

Arrivai che ancora era buio. Peppe Vaccarella, il segretario della Camera del Lavoro, una vita da bracciante, era già li con la sua coppola calcata sulla pelata. Andiamo, come al solito, a prendere il caffè nel bar del riquadro della Piazza riservato ai braccianti. Si, perché in un altro riquadro ci stanno i commercianti, nell’altro i contadini coltivatori diretti, nell’altro ancora gli agrari e gli altri proprietari e i professionisti, con i loro circoli e i loro bar. Peppe, uomo calmo, coraggioso e deciso, è inquieto: l’incontro sindacale di ieri, strappato al Prefetto qualche giorno prima, si era risolto in una beffa degli agrari che avevano mandato un funzionario per ribadire che non c’era nulla da trattare, poi l’intervento della polizia persino nella giornata di Domenica, con l’inseguimento dei braccianti nella Piazza e nelle strade, ha esasperato gli animi. La tensione la sente direttamente con il suo carattere di bracciante avolese e l’ha raccolta nei capannelli in piazza, dopo l’assemblea che ha proclamato lo sciopero generale. Infatti, l’assemblea della sera aveva espresso l’orgoglio per avere respinto, nella mattinata, l’attacco dei celerini e aveva segnalato la determinazione a intensificare la lotta per chiudere la vertenza. I braccianti ci avevano detto delle pressioni e dei ricatti dei “caporali” mandati dagli agrari anche con promesse di premi in danaro per chi avesse rotto il blocco e l’unità. Si rivolgevano con blandizie ai più giovani e con ricatti ai più anziani padri di famiglia.

Ormai è l’alba dello sciopero generale.

Da quindici giorni lo sciopero va avanti ad oltranza dopo settimane di lotta “articolata” e i tentativi di aprire la trattativa sono stati vani. Il fronte agrario siracusano è determinato e si sente sostenuto oltre che dalla Confagricoltura nazionale diretta dal conte Gaetani, anche dal Prefetto, notoriamente legato agli agrari, dal Ministro dell’Interno Franco Restivo, siciliano e uomo degli agrari.

In effetti, la vertenza dei braccianti di Avola è decisiva per i contenuti di potere che intende perseguire; una vertenza “pilota”. È stata preparata con mesi di studio della Federbraccianti per analizzare la trasformazione dell’azienda capitalista moderna che non era più solo quella dei proprietari terrieri, magari i vecchi baroni, ma quella di nuovi imprenditori che prendevano in affitto le terre dei vecchi agrari assenteisti. E vogliono manodopera flessibile e a basso costo anche se pronti a dare il superminimo se debbono accelerare la raccolta. Hanno a che fare con veri e propri operai agricoli e vogliono mano libera.

La piattaforma rivendicativa, preparata e discussa in decine di assemblee in tutte le leghe bracciantili della zona Sud, da Siracusa a Noto e Pachino, è impegnativa e risente del clima delle lotte studentesche ed operaie che in quel ’68 avevano segnato l’Europa e l’America. I giovani politicizzati, e non sono pochi, portano anche nelle famiglie dei braccianti l’eco del Maggio francese: nei Licei ci sono le prime assemblee e le occupazioni e dall’Università di Catania giungono i volantini che invitano all’unità degli studenti e degli operai. Peraltro, nel Luglio, gli operai della SINCAT Montedison di Priolo avevano scioperato, per la prima volta dopo una pesante sconfitta subita nel ’63, con gli stessi obiettivi conquistati al Petrolchimico di Marghera: 10.000 lire di aumento uguale per tutti sul premio di produzione. Si era rotto il muro della paura e della subordinazione: avevamo lavorato e studiato l’organizzazione del lavoro per oltre un anno, in gran segreto, con un gruppo di giovani operai e tecnici che sarebbero diventati i protagonisti della lotta e i dirigenti del sindacato.

E i braccianti di Avola erano sensibili a questi segnali. Per di più, si sentivano discriminati da un vecchio Accordo sindacale che divideva la Provincia in due zone. Nella zona Nord, quella dell’agrumeto, attorno a Lentini, classificata “A”, un salario giornaliero di 3.480 lire per sette ore e mezza di lavoro; nella zona Sud, quella dell’ortofrutta, attorno ad Avola, classificata “B”, il salario è di 3.110 lire per otto ore di lavoro.

Si rivendicava, dunque, il superamento di tale differenza e un aumento della paga del 10%, circa 350 lire giornaliere. Del resto, CGIL, CISL e UIL chiedevano di superare le “gabbie salariali” tra le zone del paese e rivendicavano la parità retributiva tra uomini e donne: a uguale lavoro uguale salario!

Ma la rivendicazione più di ogni altra sentita dai braccianti come conquista di dignità e di libertà era eliminare il caporalato, era la istituzione della Commissione Sindacale per il Controllo del Collocamento della manodopera in modo da rompere il ricatto sul mercato del lavoro di piazza gestito dal “caporale”. Dalla gestione del collocamento poteva derivare, infatti, per i braccianti, la chiamata secondo un ordine di graduatoria senza discriminazioni e, cosa importantissima, la registrazione delle giornate di lavoro ai fini previdenziali e della indennità di disoccupazione e, allora, dell’assistenza sanitaria.

È evidente, dunque, il motivo della resistenza oltranzista degli agrari che vedevano messo in discussione il proprio potere. E i collocatori, per parte loro, erano molto sensibili alle pressioni e alle generosità degli agrari interessati alla registrazione minima  indispensabile delle giornate di lavoro in quanto a questa era legato il pagamento dei Contributi Agricoli Unificati.

Per questo lo scontro fu durissimo e il risultato fu pagato ad un prezzo altissimo: una strage con due morti e decine di feriti.

Da quando lo sciopero, per decisione delle assemblee, era stato proclamato ad oltranza, secondo una visione propria dei braccianti avolesi, che erano definiti un po’ anarchici, la forma di lotta prevedeva i picchetti sulle strade in uscita dalla città e sulle strade che dai paesi di montagna vengono alla piana e attraverso le quali i pulman organizzati dagli agrari portavano le donne di Buccheri o di Ferla a raccogliere ortaggi nelle serre e nei campi con salari da fame e condizioni di sfruttamento indicibili. Li venivano bloccati i tentativi dei crumiri che si erano accordati con i “caporali”; li si faceva opera di convincimento, si davano le informazioni, si spiegava la piattaforma. Erano luoghi delicati nei quali si gestiva il grado di consenso e si tentava di costruire le alleanze popolari a sostegno della lotta. Passavano operai delle fabbriche e gli edili, impiegati pubblici e insegnanti e gli studenti delle scuole superiori; passavano amici, ma anche gli avversari, talvolta anche violenti e mandati dai padroni.

Il blocco dei braccianti è diverso dal picchetto davanti alla fabbrica o ad un ufficio.

Dal blocco, nella mattinata, partivano squadre di giovani compagni, generalmente in moto, per andare a controllare che nelle aziende non fossero entrati a lavorare i crumiri. Occorreva conoscere tutti i luoghi e tutte le trazzere anche secondarie, le diverse colture pronte per la raccolta nelle diverse aziende, la collocazione delle serre e le vie d’accesso per evitare di essere bloccati dalla Polizia e dai Carabinieri che cercavano di seguire, quasi sempre con scarso esito, per la verità, le squadre dei braccianti in motocicletta. Quando era il caso d’intervenire dentro le aziende, per convincere i crumiri ad unirsi alla lotta, l’auto della Camera del Lavoro, con gli altoparlanti, doveva guidare la squadra di braccianti e il dirigente doveva mostrare sul campo coraggio e capacità. Talvolta dentro le serre dove avevano persino passato la notte, si nascondevano gruppi di raccoglitrici impaurite per l’arrivo degli scioperanti e terrorizzate per le possibili rivalse dei caporali. Qualche volta le donne, invece, ci facevano sapere dove andarle a cercare per denunciare la propria condizione.

Nei giorni scorsi era capitato che agrari particolarmente arroganti e caporali particolarmente servili minacciassero con i fucili le squadre di scioperanti; fu l’intelligenza ed il coraggio di tre giovani braccianti a sottrarmi, in una circostanza, ad un sicuro pestaggio da parte di caporali e massari di un’azienda: due crearono un’abile diversivo e il terzo mi portò via con la sua moto.

Venerdì 29 il conflitto si era indurito e la situazione era diventata sempre più tesa; le notizie di arrivi notturni di squadre di crumiri avevano irrigidito il blocco sulla strada di Avola. Si temeva la vanificazione della lotta se i crumiri avessero provveduto alla raccolta degli ortaggi anche in una sola azienda. Una piccola falla avrebbe potuto produrre il crollo della lotta e la sfiducia del movimento. Un centinaio di braccianti decide di fare un blocco stradale sedendosi a terra. Inizia un lungo braccio di ferro con le autorità, il Prefetto in primo luogo. Non c’erano i telefonini allora e le comunicazioni avvenivano tramite il Comune nella persona del sindaco socialista Giuseppe Denaro che era anche deputato regionale. Talvolta, anche attraverso la radio della pattuglia della polizia; quel giorno non era il clima adatto.

Una delegazione formata dal Sindaco, dal deputato Nino Piscitello segretario della Federazione Comunista, dal Pretore di Avola che aveva tentato una mediazione per togliere il blocco, e dal  segretario della Federbraccianti, il giovane Orazio Agosta, viene mandata dal Prefetto a chiedere una convocazione urgente delle parti. Quando tornano ci dicono che la convocazione è in corso e i braccianti, anche se poco convinti, liberano la strada. Qualche ora dopo, ottenuto lo sgombero, il Prefetto rinvia l’incontro all’indomani. E l’indomani gli agrari non si presentano. Dice, beffardamente, il Prefetto “perché impediti dai blocchi stradali” che rendono difficile la circolazione nella Provincia. E quindi nuovo rinvio, prima a Martedì 3 Dicembre e poi, dato il crescere della tensione, alla giornata di Domenica quando un funzionario della Associazione Agricoltori, senza poteri e senza mandati, ci dice che per loro non c’è nulla da trattare della nostra piattaforma. Gli interventi di Denaro e di Salvatore Corallo del PSIUP, deputati regionali, sulla Giunta non sortiscono alcun effetto. Quelli sul Governo Leone, dimissionario, ancor meno. Noi, con i mezzi disponibili, chiamando dai bar coi telefoni a gettone, ci tenevamo in contatto con Carlo Cicerchia, con Giacinto Militello, con Feliciano Rossetto dirigenti regionali e nazionali della CGIL e della Federbraccianti che, a loro volta, cercavano contatti con il Governo per sbloccare la vertenza. Un pensiero affettuoso a Carlo e a Feliciano, compagni autorevoli e prestigiosi scomparsi prematuramente e a Giacinto che ci ha lasciato da qualche mese.

Era, dunque, inevitabile che l’assemblea di Domenica sera proclamasse lo sciopero generale e il blocco di tutte le attività.

Commentavamo e ragionavamo di queste cose con Peppe mentre osservavamo l’arrivo dei braccianti, il formarsi dei capannelli e notavamo che solo il bar del lato “nostro” era aperto, per spirito di servizio. Con soddisfazione abbiamo notato che i commercianti avevano accolto l’invito allo sciopero e i coltivatori diretti – verso i quali avevamo cercato, con fatica, i modi per differenziare la pressione della lotta – avevano anch’essi deciso, quel giorno, di non andare nei campi. Quando arriviamo a Sant’Antuninu il blocco è in corso e c’è un vero e proprio raduno di parecchie migliaia di braccianti. Attorno ad alcuni fuochi, seduti sulle pietre, braccianti mangiano pane con le olive nere o col formaggio o con le sarde salate. Nei capannelli si commenta e Peppe, con l’altoparlante, torna a parlare dei motivi della lotta e invita alla calma e alla autodisciplina.

La pattuglia di polizia e carabinieri, che ormai staziona dall’inizio dei blocchi, dice che bisogna sgombrare la strada; il funzionario presente fa intendere che questa mattina arriveranno i rinforzi da Catania, il reparto Celere. Sono preoccupato perché quel reparto, l’anno prima, a Lentini, il 13 Dicembre, aveva sferrato un attacco immotivato e proditorio mentre noi del sindacato, con il Sindaco Otello Marilli, un partigiano emiliano approdato e rimasto in Sicilia che ci faceva da mediatore, ci apprestavamo ad incontrare i funzionari di polizia. Ne seguirono ore di vera e propria battaglia, sassi da una parte e cariche e spari dall’altra, con alcuni braccianti feriti da arma da fuoco, per fortuna in modo non grave. Quel reparto, finalmente, era stato costretto a ritirarsi e a cessare le violenze; sfilò tra due ali di braccianti e di popolo. Visti gli interventi del giorno prima, in città, occorre stare attenti, ci dicevamo con Peppe e gli altri compagni sindacalisti e parlamentari.

Abbiamo la conferma delle nostre preoccupazioni quando arriva il Sindaco Denaro che, salutando con calore e ansia persino me, dopo quasi una anno di polemiche per la mia uscita dal PSI, ci dice che il Prefetto D’Urso l’ha chiamato quasi ad intimargli che “il blocco della strada deve sparire”. Passa la mattinata con questo clima di tensione crescente, con i compagni di Priolo che ci avvisano che i gipponi della Celere sono sulla superstrada e stanno per arrivare. Il funzionario di polizia conferma quello che il Sindaco aveva riferito del Prefetto: il blocco va tolto “costi quel che costi”.

Eravamo preoccupati ma eravamo anche più di cinquemila; difficilmente la celere tenterà una carica in queste condizioni, ci dicevamo.

E, in effetti, la Celere non caricò questa volta.

Quando i gipponi della polizia arrivano ad un centinaio di metri dal blocco, gli agenti scendono armati di mitra, moschetti e zaini pieni di bombe lacrimogene e si schierano come per una battaglia; prima fila in ginocchio con i lacrimogeni innestati ai moschetti, seconda fila in piedi con altri fucili e mitra. Non sono armati di sfollagente. Il vice questore Camperisi – divenuto famoso nella circostanza – è pronto a comandare l’attacco.

Il Sindaco fa un estremo tentativo per convincere il Prefetto ad evitare un attacco che avrebbe potuto portare gravi conseguenze sulla popolazione inerme, anche di donne e bambini, che si era aggiunta al raduno. Quando torna dalla telefonata ci dice che il prefetto, per tutta risposta, gli aveva intimato di dare man forte alla polizia per togliere il blocco.

È evidente che l’ordine viene dall’alto e non lascia margini. Il vicequestore, sequestrando di fatto una betoniera che era stata fermata ai margini della strada, ordina ai suoi uomini di porla trasversalmente alla strada, davanti al reparto schierato. Quando lo schieramento è pronto, indossa la fascia tricolore e fa suonare i tre squilli di tromba che, normalmente, preludono all’ordine di sgombero. Questa volta sono, invece, il segnale dell’attacco.

Parte, da dietro la betoniera, una salva impressionante di bombe lacrimogene; i braccianti rispondono con lanci di pietre disperdendosi al riparo dei muri a secco che costeggiano la strada e dividono i campi per scampare ai fumi dei lacrimogeni. E lanciano pietre sulla strada per evitare che la polizia possa caricare direttamente dalle camionette, come aveva cominciato a fare, creando il panico in mezzo a migliaia di persone. Cerchiamo di metterci al riparo; è inutile persino pensare ad un tentativo di parlamentare con la polizia. I funzionari e i comandanti sembrano invasati, vogliono colpire alla cieca, terrorizzare.

Presto ci rendiamo conto, e con noi i braccianti, che, contrariamente alle aspettative dei poliziotti, il vento porta i fumi dei lacrimogeni proprio addosso a loro; ma un candelotto è esploso praticamente addosso ad un bracciante. I suoi compagni cercano di allontanarlo. Investi dal gas dei lacrimogeni, i poliziotti lasciano la loro postazione dietro la betoniera e vengono addosso ai braccianti sparando all’impazzata. Le pietre disperate non possono nulla contro le raffiche di mitra.

Il vicequestore chiama rinforzi che arrivano alle nostre spalle; siamo presi tra due fuochi. Noi inermi, con i lanci di sassi dei braccianti più giovani e la polizia armata che, con un ordine preciso, ormai inizia a sparare raffiche di mitra e colpi di moschetto ad altezza d’uomo. Sparano tutti; sparano direttamente i funzionari con le loro pistole e, per spronare gli uomini, uno di loro prende un moschetto dalle mani di un agente e spara diritto su un gruppo che cerca riparo dietro un muretto.

Mentre i braccianti in fuga si disperdono nei campi e cercano riparo dietro i muri a secco e qualche albero di ulivo, la polizia organizza un inseguimento forsennato continuando a sparare; una sorta di feroce caccia all’uomo.

Cominciamo a sentire attorno le grida di dolore dei feriti, i pianti, i lamenti, le imprecazioni, urla selvagge dei poliziotti; e gli spari e le raffiche. Gridiamo a squarciagola “basta, ci sono feriti, forse ci sono morti”. Proviamo a sventolare qualche fazzoletto.

Quando dopo quasi mezzora di quest’inferno, che sembrava non dovesse finire mai, sentiamo smettere i colpi e i comandanti richiamare gli agenti, intuiamo che la situazione è drammatica, più di quanto potevamo vedere dal nostro rifugio dietro un muro a secco.  Ci organizziamo per raggiungere e soccorrere i feriti sparsi come in un campo di battaglia. Le ferite sono tutte da armi da fuoco; i feriti perdono molto sangue. Alcuni sono in condizioni molto gravi. Ci sono macchine in fiamme e altre crivellate di proiettili; anche le moto dei braccianti addossate ai muretti hanno i serbatoi forati dalle raffiche. Orazio Agosta aveva visto cadere Sebastiano Agostino, un bracciante colpito al petto, poco distante da lui. Si organizza, in ogni modo, con le poche auto disponibili e funzionanti, di portare i feriti in ospedale. I reparti di polizia, evidentemente paghi della loro impresa e per sfuggire all’indignazione generale anche di quanti accorrono dalla città, crescente alla vista della strage, si organizzano per tornare in caserma portandosi dietro decine di fermati.

I feriti sono in un raggio di oltre trecento metri dal blocco stradale e Giuseppe Scibilia, 47 anni, bracciante di Avola, è morto colpito al petto a ridosso di un albero, a trecento metri dalla strada.

 

Il mio racconto in diretta dal luogo della strage finisce qui perché, intanto, si sono fatte le quattro del pomeriggio; il camion del trasloco, a Siracusa, davanti casa, aspetta per caricare anche la cinquecento che, finalmente, avevo comprato a Luglio. La mia compagna e mio figlio aspettavano me per andare a prendere  l’aereo che ci avrebbe portato a Roma e, da li, in treno, proseguire per Venezia.

Ci abbracciamo con Peppe Vaccarella, con le lacrime agli occhi; ci salutiamo con Orazio e anche Peppino Denaro volle abbracciarmi come a ricostruire, in quel dramma, il legame tra compagni che avevano fatto scelte diverse. Chiamai al telefono Gino Guerra, segretario della CGIL, e lui convenne che dovessi accompagnare la famiglia a Venezia; sarei tornato per la manifestazione di protesta e i funerali.

Giunto a Roma richiamai Gino che mi fa il quadro della situazione e mi mette al corrente che, in tutta Italia sono in atto manifestazioni di protesta e si preparano scioperi per l’indomani. Mi dice anche che gli agrari sono stati costretti alla trattativa da subito e con la partecipazione dei dirigenti nazionali e i segretari confederali di CGIL CISL UIL.

Il racconto che mi fa è tremendo: Angelo Sigona, di 25 anni, è morto all’ospedale di Siracusa dopo essere stato raccolto dietro ad un muretto colpito come per una fucilazione. Finiscono in ospedale Paolo Caldarella, ferito alla mano che aveva alzato in segno di tregua, Giorgio Garofalo con l’intestino perforato, Giuseppe Buscemi, Rosario Migneco, Orazio Di Natale, colpiti, come Caldarella, da colpi di pistola, quindi direttamente dai funzionari.

Con queste notizie prendo il treno della notte per Venezia, vagone cuccette, e nello scompartimento c’è Marcelino Camacho, capo delle Comisionas Obreras spagnole, allora ancora clandestine, con un compagno dell’Ufficio Internazionale della CGIL. Era stato a Siracusa una settimana prima, aveva avuto incontri di solidarietà in tutto il Mezzogiorno e ora, da Venezia, avrebbe iniziato un giro di incontri al Nord. Una notte di racconti e commenti con Marcelino che aveva ceduto il suo posto più comodo alla mia compagna per meglio accudire il piccolo. La passammo nel corridoio a parlare e a fumare quella notte; non amava parlare del carcere subito, preferiva che gli raccontassi la vertenza di Avola e mi sono fatto dire delle Comisionas e di come queste stavano svuotando il sindacato ufficiale franchista.

E arriva l’alba del giorno dopo alla stazione di Mestre presidiata dagli operai in sciopero di protesta che chiedevano il disarmo della polizia. E capita di essere riconosciuto da due fratelli, “trasferisti” dei montaggi industriali, che mi avevano conosciuto a Siracusa e credono che sia in fuga perché ricercato dalla polizia. Quando spiego come stanno le cose, si offrono di organizzare l’assistenza alla mia compagna e a mio figlio per accompagnarli alla nuova casa dove il camion del trasloco scaricherà le masserizie. Loro mi portano alla SIRMA di Marghera dove il padre è il capo storico della Commissione Interna, ma anche l’autorevole partigiano comunista. Arriviamo alla fabbrica attraversando uno spettacolo impressionante di blocchi stradali con i copertoni in fiamme e operai, carichi di rabbia e di pietà, con le lacrime agli occhi. Entriamo in fabbrica, in mezzo a duemila fonditori d’alluminio schierati, silenziosi, su due file. Presentato dal compagno Bosello che racconta come lui aveva conosciuto i braccianti di Siracusa e di Avola quando i suoi figli lavoravano a Priolo, mi viene chiesto di portare la testimonianza della giornata della strage. So dire solo che la prima fila di celerini era in ginocchio e la seconda in piedi con i fucili spianati quando si è scatenato l’inferno. Un nodo alla gola e, finalmente, un pianto a dirotto ha sciolto il corto circuito tra il posto di blocco del massacro del giorno prima e quello di copertoni in fiamme appena attraversato entrando nel mio nuovo incarico.

 

È la prima volta che scrivo di Avola. A quarant’anni di distanza mi pare giusto testimoniare per rendere omaggio a due braccianti caduti che non hanno avuto neppure giustizia; ricordare una conquista, purtroppo perduta rapidamente, e raccontare la condizione e la lotta dei braccianti di Avola ai nuovi braccianti immigrati che vivono una condizione persino peggiore. Quella lotta è parte costitutiva del movimento che ha fatto fare un salto di civiltà al Paese e al mondo del lavoro: ha portato allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, alla riforma della scuola e dell’Università che ha acceso tante speranze. Quei morti e quei feriti non hanno avuto giustizia; ma il neo Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista di allora, era ai loro funerali e Angelo e Giuseppe sono gli ultimi lavoratori uccisi dalla polizia in un conflitto di lavoro. La tesi che quel massacro fu prodotto da alcuni agenti che avevano perso l’orientamento e la testa, come raccontò il Governo in Parlamento, ovviamente, non ha retto. Chili di bossoli esibiti alla Camera sono stati argomento convincente anche se non accettato. La parificazione salariale e anche il superamento della “gabbie salariali”, bene o male, ha retto fino ad ora anche se è messa in discussione. Il controllo del Collocamento da parte delle Commissioni dei Lavoratori non ha retto; piuttosto che garantire un avviamento al lavoro sulla base delle priorità oggettive e non sulla scelta discrezionale del padrone, hanno preferito abolire il Collocamento Pubblico e istituito quello delle agenzie private. Il caporalato, sconfitto ad Avola, ha avuto la sua rivincita attraverso la istituzionalizzazione, si estende e si internazionalizza come il mercato del lavoro.

Tornare a leggere quello che è successo allora e studiare quello che succede adesso forse è la strada giusta per ricordare quelli che hanno lottato e pagato con la vita; ma per non fermarci a celebrare la memoria.

Salvatore Bonadonna


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