Cinquanta anni dopo la legge sul divorzio. Ripensando al ruolo prezioso del Parlamento

Cinquanta anni dopo la legge sul divorzio. Ripensando al ruolo prezioso del Parlamento

Stefano Galieni

La legge 898 del primo dicembre 1970, denominata proposta di legge per i “Casi di scioglimento del matrimonio” segnò cinquanta anni fa certamente un passo in avanti epocale in Italia per quanto riguarda l’esercizio di fondamentali diritti civili. Si introduceva, seppur con tempi lunghi e vincoli, l’istituto del divorzio, considerato dall’allora dominante Democrazia Cristiana e dai partiti della destra più reazionaria, (MSI e PdIUM) in particolare, come anticamera della distruzione di un principio cardine dello Stato come la famiglia. Fu uno dei primi risultati di una battaglia iniziata già nel Regno d’Italia nel 1878 e portata allora avanti da pochi per cominciare a mettere in discussione il potere patriarcale. La legge Fortuna-Baslini (due proposte che si fuseero in un progetto del progetto di legge), fu approvata definitivamente al Senato il 3 dicembre 1970, dopo 19 ore di dibattito durissimo e rappresentò una tappa importante. Coloro che con la protezione di “Santa madre chiesa” e non solo, provarono a fermare l’avanzamento prodotto raccogliendo le firme per un referendum abrogativo che si tenne poi 4 anni dopo (il 12 maggio 1974), nonostante il peso del partito di maggioranza relativa, oltre che di monarchici e fascisti, anche il voto popolare sancì che indietro non si poteva tornare.

Ce ne furono tante altre di battaglie di questo tipo in cui la spinta di un Paese che cambiava si confrontò e si incontrò con le istituzioni: leggi come la 180 sui manicomi, 194, sull’interruzione di gravidanza, l’istituzione di uno “stato di famiglia” che equiparò, almeno sulla carta, i coniugi, l’eliminazione di una discriminazione abietta come il “delitto d’onore”, l’elenco è lungo. E furono, sempre partendo dagli anni Sessanta, le riforme che portarono allo Statuto dei lavoratori, a dare impulso al ruolo dei sindacati nella vita sociale. Ma questo ci impone di ragionare, 50 anni dopo da quel magnifico e indimenticabile primo dicembre, su due questiono che riguardano l’idea stessa di democrazia. La prima questione riguarda il ruolo fondamentale che giocò il parlamento. Il governo, per quanto bloccato da una impostazione tesa alla conservazione contro la protesta, dovette cedere il passo alle aule parlamentari in cui il dibattito non solo si dimostrò centrale ma impose anche interrogativi che uscirono fuori dalle aule, si imposero sui giornali, nel confronto pubblico, attraversarono realmente la società italiana e permisero a molte e a molti di farsi una opinione che travalicarono le proprie appartenenze politiche e religiose. Una politica che entrava nelle case e che creò consapevolezza, idea di se, coscienza, in alcuni casi, anche coscienza di classe.

Un parlamento utile anche in quanto costituito in base ad una legge proporzionale pura, fondato su partiti che avevano radicamento sociale e che dovevano conquistarsi, giorno dopo giorno il consenso e che poi dovevano provare a mediare le esigenze diverse.

Fosse stata in vigore oggi una legge elettorale fondata su sistemi, anche se camuffati, di stampo maggioritario, in cui quei luoghi di elaborazione politica, culturale e sociale che, secondo l’art 49 della Costituzione erano) i partiti fossero stati già annientati, è giusto credere che ancora oggi insieme al Vaticano e alle Filippine, saremmo l’unico stato a non permettere il divorzio, insieme a tanti altri, ad avere leggi ancora più discriminatorie nei confronti soprattutto delle donne. Un ragionamento di questo tipo, complesso da accettare in tempi di antipolitica, ci condurrebbe a pensare che le tante disposizioni oscene approvate in materia di lavoro, diritti, privatizzazione, asservimento al liberismo sfrenato, sottomissione alle logiche del profitto, avrebbero incontrato maggiori difficoltà ad affermarsi, dentro e fuori dalle aule parlamentari. Avrebbero allontanato dalla mitologia della personalizzazione del potere, tentato di impedire l’imporsi di un conflitto dei penultimi contro gli ultimi. Dovremmo forse ripartire da quel primo dicembre 1970 per ripensare seriamente l’ordine delle priorità. “Efficienza” di un organismo esecutivo che priva di ogni spazio di democrazia reale o benessere della collettività?

All’epoca della legge sul divorzio e poi della successiva battaglia referendaria, comunisti, socialisti, repubblicani e liberali, trovarono un terreno comune e concreto per cui battersi insieme pur restando diversissimi per mille ragioni, pur non ponendosi il problema di effimere alleanze elettorali. Anche questo ci può ancora insegnare qualcosa?


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