Un tempo di idee combattenti: la militanza politica a Weimar
Pubblicato il 26 nov 2020
di Maria Grazia Meriggi
Recensione di Maria Grazia Meriggi a La Repubblica di Weimar. Lotta di uomini e ideali, Diarkos 2020 di David Bernardini
Sono abituata a intervenire, anche fuori dai luoghi strettamente accademici, solo su argomenti rispetto ai quali ho conoscenze dirette su fonti di prima mano: dagli anni Trenta del XIX secolo all’entre-deux-guerres. Come molti lettori sanno sono soprattutto specialista di Francia, Belgio e in parte Inghilterra… Ma mi sento legittimata a scrivere e a consigliare la lettura di questo bel libro – David Bernardini, La Repubblica di Weimar. Lotta di uomini e ideali, Diarkos 2020 – perché nessuno/a studioso/a di storia sociale o politica dei mondi e dei movimenti dei lavoratori e dei proletari può non tenere conto delle ricerche che interessano gli anni che vanno, in Germania, dal voto dei crediti di guerra alla presa del potere di Hitler.
Nella Seconda Internazionale non c’era un partito determinante come nel Komintern, ma certo la Spd aveva un ruolo centrale: perché era il partito di una classe operaia “prodotta” dal capitalismo protagonista della seconda rivoluzione industriale, per il peso organizzativo ed elettorale, per il rapporto stretto anche se tempestoso per alcuni dirigenti con uno dei due sindacati, insieme a quello dell’United Kingdom, davvero di massa e con fondi di resistenza di tale ricchezza da poter sostenere scioperi lunghi e impegnativi ma anche da poter disporre di un forte potere contrattuale.
Il socialismo tedesco impose alla discussione internazionale il tema della lettura possibile dell’opera di Marx, a confronto con le trasformazioni economiche della seconda metà del XIX secolo, con un’intensa polarizzazione fra i “revisionisti” e le letture più fedeli al marxismo, almeno a quello conosciuto allora. La principale esponente della sinistra del partito, Rosa Luxemburg, protagonista di primo piano della polemica con Bernstein, comunque rimasta nei limiti del reciproco rispetto, aveva però ruolo importante nella formazione economica dei militanti: non era né emarginata né secondaria nella vita politica e teorica del partito. Era docente della sua scuola di formazione dall’ottobre 1907 e rappresentante della Spd presso il Bureau socialiste international.
La guerra e le scelte provocate dalla guerra – e non semplicemente dall’allineamento o dalla critica delle crisi rivoluzionarie russe – hanno portato non a un semplice scontro politico anche molto duro fra le antiche componenti dello stesso partito, come in Italia, in Francia, in Belgio, ma a una contrapposizione tragica come quella che portò all’assassinio di Rosa e Karl Liebknecht in uno scontro in cui fu centrale la responsabilità del ministro della Difesa Gustav Noske, che fino al 1917 militava nello stesso partito. Questa tragica drammatizzazione dello scontro alle origini della Repubblica, che corrisponde anche a un calendario diversissimo che i protagonisti pensavano di dover rispettare – la Repubblica come punto di arrivo di una rivoluzione democratica o come una tappa verso futuri sviluppi non sempre chiari e condivisi – basta a spiegare che la sconfitta della Rivoluzione tedesca, l’unica tentata nel cuore della modernità – non contro, ma nella, secondo il Capitale – è un problema centrale per l’interpretazione di tutto il Novecento.
Nella lunga storia internazionale dei mondi del lavoro si osserva se non una costante, un problema che riemerge periodicamente. Trasformazioni nella composizione delle classi provocano nuove e diverse forme di organizzazione, trasformazioni che si constatano innanzitutto nelle forme di rappresentanza sindacale. Il nuovo unionismo degli anni 1880 in Inghilterra, le peculiarità così specifiche del sindacalismo bracciantile, il legame in Francia fra il “syndicalisme” e i lavoratori qualificati la cui presenza non era meno centrale negli anni Dieci del Novecento che durante la Commune. Sono solo alcune delle specificità organizzative che sono influenzate ma probabilmente non determinate da continuità, rotture e scelte ideali. Il problema che ne emerge è quello non delle alleanze con i ceti medi o gli intellettuali, ma della ricomposizione dei diversi settori e frammenti di classe: qualificati detentori del mestiere e della respectability e lavoratori comuni oscillanti fra occupazione e disoccupazione, ai confini della precarietà.
Secondo le ricostruzioni di Sergio Bologna in un volume più volte citato da Bernardini (Nazismo e classe operaia 1933-1993, nel 2018 riedito da Shake), come in quelle di Karl-Heinz Roth (L’altro movimento operaio, Feltrinelli 1976), nella Germania di Weimar, la non comunicazione politica e organizzativa fra questi diversi segmenti fu tale che soprattutto dopo l’inverno 1929 questa differenziazione si cristallizza in scelte organizzative. I lavoratori stabili e i non molti impiegati sindacalizzati si identificano nella Spd, i non qualificati e i disoccupati nella Kpd o nei gruppi anarchici e sindacalisti alla sua sinistra.
Il volume di David Bernardini affronta i problemi posti da queste fratture, e avanza qualche interpretazione. Soprattutto nelle note passa in rassegna la vastissima bibliografia, soprattutto in lingua tedesca e inglese, da Arthur Rosemberg ad alcune graphic novels… indicando anche cantieri di ricerca ancora aperti. Manca infatti per il mondo di lingua tedesca – almeno a mia conoscenza – una ricerca collettiva prosopografica comparabile a quella coordinata inizialmente da Jean Maitron per la Francia. Una ricostruzione capillare dei percorsi biografici di quei militanti che entrano una sola volta sotto il riflettore della grande storia ci permetterebbe di capire quanti operai socialdemocratici hanno condiviso la delega della repressione all’esercito, o hanno partecipato a partire dagli scioperi del 1916 al movimento consigliare, che lettura ne davano, che base sociale ebbero gli esperimenti di governi locali socialdemocratici aperti o sostenuti dai comunisti, che possibilità avessero alcune convergenze pur significative come la plescibitaria approvazione dell’esproprio senza indennizzo dei beni principeschi del 1926…
In Italia e in Francia perlomeno nel biennio 1918-1920 si assiste a una messa in discussione generale delle classi dirigenti e dello Stato come unica fonte della legittimità del potere di cui sono protagonisti anche lavoratori e proletari che poi resteranno nei sindacati e nei partiti della “vecchia casa”. Il brulichio di queste esperienze è spesso rimosso dalle vaste interpretazioni politologiche e richiede un grandissimo lavoro sulle fonti.
Il volume di Bernardini ricostruisce le tappe tormentate della storia repubblicana di Weimar mettendo al centro due aspetti che non è facile trovare insieme in una sola narrazione.
Il primo è quello di un confronto fisico che costringe tutte le componenti della società e della sinistra tedesca a dotarsi di organizzazioni, di difesa ma anche di attacco, contro la violenza organizzata dei molti gruppi nazionalisti, dai gruppi di ex combattenti “disoccupati” del fronte orientale alla Organizzazione Consul, alle Sa da cui emerge il dominio del Nsdap che è un processo da spiegare e non un destino irresistibile.
Il volume non riduce questi scontri con lo Stato e col fascismo a pura e distruttiva violenza ma ne ricostruisce le poste in gioco politiche, culturali e subculturali, fino all’autodifesa di gruppi giovanili in grado di contendere gli spazi ai nazisti nelle strade e nei cortili dei caseggiati proletari, quando le code davanti agli uffici comunali di assistenza erano luoghi di propaganda politica quanto se non più dei luoghi di lavoro, nelle osterie berlinesi il cui ruolo nella socialità operaia è bene individuato. L’autore riassume anche efficacemente i problemi che la crisi economica tragica e generalizzata degli anni Trenta pose a una Repubblica che iniziava a organizzare un welfare più capillare e generoso di quello imperiale ma che avrebbe avuto bisogno per dispiegarsi di una lunga fase di sviluppo economico e di compromessi politici.
Il secondo tema – che ha evidenti nessi coi problemi del presente – è quello della formazione di un’area politica riassumibile nella formula di “nazionalbolscevismo” ma molto differenziata al suo interno, che si intreccia con un fenomeno caratteristico delle crisi sistemiche.
Il rapporto fra conflitti, culture sociali e rappresentanza elettorale è sottoposto a vicende complesse ma nelle situazioni socialmente stabili di solito il rapporto fra le aree di consenso elettorale si mantiene relativamente fisso. In questi anni a Weimar i partiti subiscono rapide ascese e cadute, con l’ingresso in politica di una generazione che visse le sue prime esperienze politiche fuori dal mondo produttivo, nella disoccupazione e nella disperazione. Il passaggio da sinistra a destra anche se relativamente contenuto diventa allora possibile ma anche quello meno noto da destra a sinistra, dalla cosiddetta sinistra nazista alla Kpd: è il caso significativo di Bruno von Salomon la cui identità politica risultava così difficile da interpretare da parte della polizia francese quando arrivò esule a Parigi prima di raggiungere la brigata Thälmann in Spagna.
Rispetto alla difficoltà di definire con chiarezza idee e personalità del nazionalbolscevismo Bernardini ne individua l’ambiguità e alcuni aspetti distintivi: un retorico “anticapitalismo” dal profilo etnico-razziale, la fraternità dei combattenti come corrispettivo della solidarietà di classe, l’imperativo della integrità territoriale e quindi dell’alleanza con l’altra esclusa del sistema della Società delle Nazioni, l’Urss. Posizioni minoritarie e di confine sostanzialmente prive di una specifica base sociale ma rappresentative comunque di faglie di crisi. La critica al mercato, più che al capitalismo nei rapporti di classe, condivisa oltre l’area della sinistra, la diffusione ben oltre gli ambienti della destra estrema della fraternità fra i combattenti sconfitti.
Il volume individua anche i momenti anticipatori dell’antisemitismo prima che diventasse imposto dall’alto benché il movimento operaio di lingua tedesca ne fosse molto meno contaminato di quelli francese e belga (non c’erano né Proudhon né Malon né Picard tedeschi…). Analizza sinteticamente ma efficacemente le diverse letture delle nuove istituzioni consigliari, da quella traducibile nell’istituto della cogestione fino a quella di una rifondazione radicale del potere. E ricostruisce le contraddizioni della Kpd, che sono talmente complesse da meritare un’attenzione specifica. Il radicalismo della prima fase e l’attiva partecipazione ai tentativi di rottura fino al 1923 hanno una spiegazione innanzitutto sociale. D’altra parte la bolscevizzazione investe il partito e la sua dirigenza e contribuisce alla sottovalutazione del pericolo nazista e infatti nel 1933 sono proprio i gruppi critici di sinistra a denunciare l’incapacità di un’iniziativa unitaria “dal basso” che pure era una esigenza presente nella società.
In sintesi, uno degli interrogativi principali della riflessione su Weimar e la sua crisi è: l’ascesa del nazismo in un Paese in cui le diverse sinistre restano forti fino al 1933 e i nazisti non riescono a farsi accettare come rappresentanti degli operai nelle elezioni delle rappresentanze di fabbrica è dovuta innanzitutto alle divisioni politiche delle forze antinaziste? O a una frattura sociale irriducibile fra quelli che Karl-Heinz Roth ha sempre definito due distinti movimenti operai? Il volume di Bernardini offre materiali e conoscenze utili per mettere meglio a fuoco questo interrogativo e mi sembra una ragione per raccomandarne la lettura.
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