Aziendalizzazione e privatizzazione sono incompatibili col diritto alla salute. La sanità non è un’azienda e la salute non è una merce. Come invertire la rotta.

Aziendalizzazione e privatizzazione sono incompatibili col diritto alla salute. La sanità non è un’azienda e la salute non è una merce. Come invertire la rotta.

Riprendiamo da Lavoro e Salute un prezioso e articolato contributo di Loretta Mussi, che consideriamo estremamente prezioso per una analisi corretta di quanto è accaduto e di quanto sta accadendo nella sanità in Italia e in Europa

Loretta Mussi
1. PREMESSA
Nell’Europa che emergeva dalle ceneri della scoda guerra mondiale forte era la consapevolezza
da parte dei governi di dover restituire alla popolazione i diritti fondamentali di cui era stata
privata per uscire dalla miseria in cui era precipitata l’Europa, garantire a tutti casa, lavoro,
istruzione e sanità, concorrere alla ricostruzione delle economie distrutte, stabilizzare le nuove
democrazie.
A ciò spingeva anche la sfida proveniente dai modelli comunisti dell’Est che allora
rappresentavano una garanzia di uguaglianza.
Questa prospettiva entrò in difficoltà in seguito alla crisi petrolifera, alla fine del sistema di
Bretton Woods nel ‘71, all’espansione del debito, alla finanziarizzazione dell’economia e,
soprattutto, all’esaurimento del lungo periodo di crescita che aveva caratterizzato i primi
decenni del dopoguerra. Essendosi ridotti i dividendi di crescita da utilizzare per politiche
redistributive si aprì la strada alla riduzione delle tutele, delle spese sociali, e della spesa
pubblica. A guidare la controffensiva furono l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico) e alcuni gruppi internazionali ad orientamento liberista.
Mentre ii sistemi di welfare in Europa ed in particolare il SSN inglese (NHS) andavano incontro
ad un processo di destrutturazione, in Italia, con uno sfasamento temporale di qualche anno e al
termine di un lungo ciclo di lotte, veniva approvata la Legge di riforma sanitaria L. 833/78, che
ribaltava l’assetto sanitario fondato sul sistema delle mutue e si poneva a fondamento del
Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Il Nostro SSN veniva quindi istituito in assoluta
controtendenza rispetto a quanto succedeva nel resto d’Europa e del mondo dove proprio la
sanità diveniva oggetto di politiche di contenimento. Il SSN che si andava costituendo in Italia si
caratterizzava per il suo essere pubblico, universale, unitario e finanziato tramite la fiscalità
generale con accesso aperto a tutta la popolazione. Gli altri cardini che lo caratterizzavano erano
la unitarietà tra interventi preventivi, curativi, riabilitativi e sociali e la integrazione tra
interventi sanitari, sociali e ambientali.
L’attuazione della L.833/78 fu subito contrastata dalle idee liberiste che si stavano diffondendo
in Europa e che ben presto investirono anche l’Italia dando impulso ai processi di
privatizzazione. Ciononostante il nostro SSN ebbe modo di espandersi e radicarsi, soprattutto al
Centro-Nord, finché con il trattato di Maastricht le scelte liberiste non iniziarono a prevalere e a
condizionare fortemente i servizi pubblici.
Il primo attacco arrivò con la cosiddetta “riforma della riforma”, o meglio, “controriforma”. Il D.
lgs 502/1992 seguito dal D. Lgs 517/1993, essendo ministro De Lorenzo, che introdussero
l’aziendalizzazione e predisposero il terreno per i successivi processi di privatizzazione. Con
l’aziendalizzazione si trasformarono le USL in ASL, aziende pubbliche non più gestite dai Comuni
ma controllate dalla regione; anche gli ospedali potevano essere scorporati dalla gestione
diretta delle USL e costituirsi in Aziende ospedaliere autonome (AO), dando inizio alla
separazione tra compratori e produttori di prestazioni.
Le principali precondizioni introdotte attraverso l’aziendalizzazione per avviare le privatizzazione
furono: 1) Metodi e strumenti manageriali tipici delle aziende private applicati alle strutture
pubbliche; 2) Inizio della regionalizzazione, con la possibilità di definire alcune politiche sanitarie
a livello regionale, finché la modifica del titolo V nel 2001 ed il decentramento legislativo ed

amministrativo consentiranno una pressoché completa autonomia e lo sviluppo di scelte
privatistiche; 3) Sistema di pagamento tariffario per le singole prestazioni sanitarie, con i DRG.
La scelta aziendalista, ponendo obiettivi improntati a logiche di efficienza e produttività
condizionerà fortemente il diritto alla salute, che cesserà di essere assoluto e incondizionato,
sarà mediato dagli scopi economici
e sarà subordinato alle leggi del mercato. Con De Lorenzo muore anche l’equità nell’erogazione
delle prestazioni. La L. 833/1978 disponeva all’Art.3 che i livelli delle prestazioni sanitarie
dovessero essere garantiti a tutti i cittadini e all’Art. 4, che le prestazioni dovessero assicurare
condizioni e garanzie di salute uniformi su tutto il territorio nazionale. Cioè tutti i cittadini
dovevano fruire del diritto alla salute in modo omogeno e “uniforme” in qualsiasi area
geografica vivessero. Nel D. Lgs 502/1992 si dispose che l’individuazione dei livelli essenziali e
uniformi essere subordinata all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al SSN e al
rispetto delle compatibilità finanziarie. La clausola di uniformità, che rispondeva
all’interpretazione della Carta Costituzionale, sarà consapevolmente abbandonata dal governo
Berlusconi e seguenti.
Si introdussero inoltre per la prima volta la categoria dei fondi sanitari integrativi, individuando,
accanto alla sanità pubblica basata su universalità, eguaglianza e solidarietà (I Pilastro), la sanità
collettiva integrativa o intermediata (2 pilastro), tramite i fondi sanitari integrativi, la sanità
individuale, e polizze assicurative individuali.
Il DL 229/1999 cercherà di contenere la corsa ai fondi integrativi e preservare le caratteristiche
di solidarietà ed universalismo della sanità pubblica limitando in fondi integrativi solo alla
copertura dei servizi non rientranti nei LEA e concedendo solo ad essi le agevolazioni fiscali, ma
gli interventi legislativi successivi toglieranno ogni limitazione.
2. ACCELERAZIONE DEI PROCESSI DI PRIVATIZZAZIONE DOPO LA CRISI 2007-2008
Con la grande crisi del 2007-2008, in Italia, ma anche ne resto del mondo, i sistemi sanitari
vanno incontro ad una trasformazione accelerata verso il privato. Il settore della cura diventa
campo di investimento del capitale finanziario internazionale in smobilitazione da altri settori.
Contemporaneamente si ha un rallentamento della spesa sanitaria pubblica e anzi, si può dire
che la prima forma di “privatizzazione” è stata la riduzione del finanziamento pubblico e
l’aumento della spesa privata sia diretta sia intermediata. Il più vistoso definanziamento si avrà
tra il 2012 e il 2019 e sarà di almeno 37 miliardi.
Questa scelta non era obbligata. Mentre all’inizio degli anni 2000 la spesa sanitaria dei maggiori
paesi europei era su livelli simili, con la crisi l’Italia ha operato un taglio della spesa pubblica che
non ha avuto pari negli altri paesi europei in ossequio ad una visione economica ultra liberista e
a una politica di austerità miope e di corto periodo.
Noi spendiamo, infatti, come spesa pubblica pro capite, 2.545 dollari, mentre Germania e
Norvegia spendono rispettivamente 5.056 e 5.289 dollari. Tra l’altro l’Italia è il paese europeo
con la maggiore percentuale di persone oltre 65 anni e 85 anni, che hanno profili di spesa
sanitaria più elevati.
Nella privatizzazione si possono riconoscere modi e fasi diverse nel trasferimento dell’assistenza
sanitaria ad entità private
Si inizia con l'introduzione di meccanismi e logiche di mercato nei servizi logistici ed
amministrativi, e nel cuore dei servizi di assistenza sanitaria, "privatizzazione interna della
assistenza sanitaria". Rientrano tra questi meccanismi l’aziendalizzazione, pratiche di gestione

privata negli ospedali pubblici, commercializzazione di funzioni non assistenziali, codifica delle
prestazioni tramite i DRG, separazione tra finanziatori ed erogatori anche nel sistema pubblico,
introduzione di meccanismi concorrenziali tra le stesse strutture pubbliche e tra queste e le
strutture private. Non si lavora più attraverso la programmazione ma ci si affida ad automatismi
di mercato tra domanda e offerta sanitaria. L’aziendalizzazione e i meccanismi connessi di
gestione privatistica hanno preparato il passaggio alla privatizzazione del sistema.
Si passa poi al trasferimento dei servizi di assistenza pubblica al settore privato,
"privatizzazione esterna dell’assistenza sanitaria" con l’accreditamento di servizi privati,
trasformazione di enti pubblici in soggetti a scopo di lucro (es. Fondazioni), creazione di agenzie
autonome, esternalizzazione o vendita di ospedali pubblici a fondi privati, introduzione della
libera professione negli ospedali pubblici, esternalizzazione di funzioni di supporto, diagnosi e
cura.
Da alcuni anni si sta spingendo verso la finanziarizzazione della sanità, col graduale
trasferimento della spesa per la salute alla finanza privata, il cui fine è il guadagno degli
investitori finanziari. In quest’ottica, allo stato sarebbe lasciato il compito di trainare i settori di
minor interesse per il privato, creando così un sistema sanitario pubblico di seconda classe e
gravemente indebolito. In un tale sistema anche i diritti dei lavoratori sarebbero indeboliti in
quanto dispersi tra i diversi fornitori di salute. Ci sono holding e colossi internazionali che
controllano centinaia di ospedali e decine di migliaia di medici. Esempi di questo si stanno
moltiplicando anche in Italia, in maniera non sempre chiara, come il Gruppo San Donato. Lo
stesso sta accadendo con la trasformazione in aziende profit diintere catene assistenziali
sanitarie e sociosanitarie.
Il passo successivo sarà la gestione di prevenzione e cura con gli algoritmi predittivi.
La possibilità di sviluppare nuovi metodi per prevedere le condizioni di salute delle persone è lo
strumento tramite il quale capitale finanziario, sanità intermediata e imprese assicuratrici
intendono massimizzare i profitti nel settore delle prestazioni sanitarie. A tale scopo si utilizzano
algoritmi in grado di predire la probabilità di avere infarto o ictus; sistemi predittivi che
permettono di conoscere lo stato di salute attuale e futuro dell’assicurato; applicazioni per
l’accesso veloce a cure e servizi sanitari.
La programmazione da strumento pubblico epidemiologico per la realizzazione di servizi e
allocazione delle risorse sulla base dell’analisi della domanda, si sta trasformando in mano alla
intermediazione in strumento di classificazione del rischio individuale e di marketing ed i dati
sanitari individuali vengono utilizzati per il controllo statistico di intere popolazioni. Anche la
prevenzione, missione cardine della sanità pubblica, viene privatizzata dalle assicurazioni per
ridurre il rischio, diminuire gli indennizzi e semplificare gli iter amministrativi.
Gli algoritmi predittivi, oltre che utilizzare i dati anagrafici degli assistiti, cui Il privato ha
possibilità di accedere, possono basarsi anche su dati comportamentali, di consumo alimentare
e ludico acquisibili dai cellulari. I pagamenti non si faranno più in base alla singola prestazione o
ricovero, ma secondo una quota capitaria definita dal rischio.
3. PRIVATIZZAZIONE E FINANZIARIZZAZIONE IN ITALIA
Mentre il definanziamento depauperava il servizio pubblico nel silenzio di sindacati e partiti, la
sanità privata avanzava sostenuta da potenti gruppi, spesso presenti sul mercato europeo e
partecipati da banche e assicurazioni, anche straniere, e acquisiva/fondava ospedali, altre
strutture, IRCCS (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico), facoltà di medicina.
I filoni lungo cui si è diffusa la sanità privata sono quelli dell’accreditamento e della sanità
privata integrativa, favoriti dalla modifica, nel 2001, del nuovo Titolo. V della Costituzione.

a) Le strutture private convenzionate o accreditate.
Esse di pubblico hanno solo il finanziamento, il resto è tutto privato, e la gestione si fonda sul
profitto. Il connubio tra strutture erogatrici, banche e capitale che ha raggiunto fin qui il
massimo sviluppo nelle regioni del Nord, in primis la Lombardia seguita da Emilia Romagna,
Piemonte e poi Lazio si sta sempre più allargando anche attraverso il riassorbimento di strutture
in difficoltà.
Le strutture convenzionate per l’assistenza ospedaliera, che nel 2017 erano il 48,2 % hanno
quasi raggiunto il pubblico che oggi è il 51.8 %. In termini numerici assoluti la Regione che ne ha
il maggior numero è il Lazio con 124 strutture private, seguito dalla Lombardia con 72 strutture,
quindi Sicilia e Campania con 58. E’ comunque la Lombardia che, per Il peso complessivo reale
delle strutte private, resta al primo posto.
Nelle strutture di specialistica ambulatoriale, residenziali e semiresidenziali, per anziani,
riabilitazione e altro, il privato convenzionato è ormai prevalente sul pubblico.
La spesa sanitaria per le strutture private accreditate è circa il 33% del totale della spesa
pubblica (In Lombardia il 40% e nel Lazio oltre il 50%). Se si considera tuttavia, che nella Sanità
Pubblica sempre più servizi sono esternalizzati, il privato assorbe ormai quasi il 50% dei
finanziamenti.
Il giro di affari nella sanità privata (diretta e intermediata), solo nel 2107, è stato di quasi 42
miliardi, nella sanità convenzionata è stato di altri 40.
Dal 2012 al 2019, mentre si definanziava il SSN di oltre 37 miliardi, si tagliavano quasi 35.000
posti letto, con una riduzione a carico del pubblico di -16.2%, rispetto a -6.3% nel privato
accreditato.
Il personale a tempo indeterminato del SSN diminuiva di circa 42.800 unità: i medici calavano
del 9,5% nelle strutture pubbliche e aumentavano del 15% nel settore privato, anche pe la
fuga dal pubblico. Il calo dei medici di famiglia, principale riferimento dell’assistenza territoriale,
è stato del 4%. Il calo dei medici nel pubblico è dovuto al colpevole e mancato ricambio
fisiologico in oltre dieci anni di blocco del turn-over, alla pessima programmazione nazionale e ai
ridotti investimenti nella formazione specialistica, mai calcolata sulle effettive esigenze. Ancora
peggio è stato per infermieri e ostetriche (5,6 per 1.000 abitanti nel 2016 contro una media
europea di 8,4) e altri operatori sanitari. Con la riduzione del personale i nostri governanti
hanno ottenuto, in questi anni, un’ abbassamento della spesa di almeno 2 miliardi, con forti
differenze regionali, soprattutto al Sud, sottoposti a drastici e lineari piani di rientro.
Per dare un’idea dello sviluppo e delle caratteristiche che ha assunto il privato in pochi anni,
riportiamo la trasformazione della Sanità avvenuta in Regione Lombardia, che nel 1997, con
Formigoni, ha dato il via a un modello pensato e realizzato per favorire il più possibile l’entrata
del privato nel SSR. In questo modello si sono separate le funzioni che prima erano integrate,
essendo committente la Regione che compra servizi e prestazioni da soggetti erogatori, sia
pubblici che privati, essendo però i privati assai più facilitati ad entrare in questo mercato. Pe far
accettare il più possibile il processo di privatizzazione, questo sistema di compravendita è stato
ammantato con termini quali “sussidiarietà” e “pariteticità”, cioè “parità” nelle condizioni di
fornitura dei servizi. In realtà non vi è alcuna parità tra pubblico e privato.
La diversità delle finalità e del modus operandi tra pubblico e privato è risultato ben evidente
nella gestione della pandemia dove il privato non ha risposto nell’emergenza, è intervenuto
molto tardi e dopo aver negoziato le condizioni per il proprio intervento.
Ecco i principali gruppi privati in Lombardia.

Il Gruppo san Donato-GDSD (Famiglia Rotelli) è il più importante erogatore della sanità privata
in Lombardia) ed è anche il maggior gruppo della sanità privata in Italia. Ha una presenza
capillare in Lombardia ma si sta espandendo anche in Emilia Romagna. Di esso fanno parte ben
tre istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), ha una propria facoltà di medicina ed
è sede di più poli didattici dell’Università Statale di Milano. Si segnala che questo gruppo con
una valorizzazioni di 757,3 milioni di euro nel 2017 pesa più del valore dei ricoveri trattati dai 7
ospedali pubblici della ex ASL di Milano città che raggiungono insieme i 744,1 milioni di euro.
Sempre in termini di valorizzazione dei ricoveri rappresenta il 35% della componente privata nel
settore, ed il 14% di tutta la valorizzazione delle strutture pubbliche e private.
Il gruppo Humanitas (famiglia Rocca), presente in Lombardia e in altre 2 regioni, con una
propria facoltà di medicina e 1 IRCCS;
Il gruppo Maugeri, che, dopo le vicende giudiziarie legate a Formigoni, è stato acquisito dalla
Banca JPMorgan, con propria facoltà di medicina, dislocato in altre sei regioni italiane oltre che
in Lombardia;
La Fondazione Poliambulanza, ex gruppo Veronesi e il Gruppo Multimedica, che è partecipato
da Diocesi di Brescia, Gemelli di Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore e Opera Don
Calabria. Nel Consiglio di amministrazione dell’ex gruppo Veronesi siedono Banca Intesa,
Unipol, Allianz, Luxottica, oltre alla famiglia Veronesi: gestisce due IRCCS, l’Istituto Europeo
Oncologico (IEO) e l’Ospedale cardiologico Monzino. Il Gruppo Multimedica (famiglia Schwarz)
gestisce tre strutture di cui una sede di IRCCS.
Il Gruppo KOS (famiglia De Benedetti), con forte presenza nelle RSA (Residenze per anziani) e
che opera anche nel mercato inglese e indiano. In Italia è il primo operatore nel settore delle
RSA
Il Gruppo Garofalo (famiglia Garofalo), presente in Emilia Romagna e Lombardia. Gli Istituti
Clinici di Città Studi, ex Santa Rita e il Gruppo Servisan, prevalentemente operativo in Piemonte
e val d’Aosta, in Lombardia ha il Policlinico di Monza.
Il Lazio è la seconda regione (dopo la Lombardia) per il peso del settore privato nell’attività
ospedaliera e territoriale, che si è specializzato nei settori più remunerativi, a cominciare dalla
gestione delle RSA. “Il Lazio è l’unica regione in cui il peso del privato accreditato è equivalente
a quello pubblico (51% di ricoveri ospedalieri)”, secondo il rapporto Oasi 2019. Mentre la metà
dei ricoveri per “acuti” a livello nazionale è presidiata dal pubblico (76%), nel Lazio il 49% è
gestito da privati accreditati.
I privati si sono anche specializzati nelle attività più remunerative per i casi meno gravi, i
cosiddetti ricoveri post-acuti, con il 92% dei posti letto presso strutture private accreditate: essi
corrispondono al 43% dei ricoveri per lunga degenza e al 76% dei ricoveri per riabilitazione a
livello nazionale.
Se in Lombardia il privato si è sviluppato sullo smantellamento del pubblico a livello
territoriale, nel Lazio, secondo il rapporto Oasi 2019, i privati gestiscono l’attività territoriale
avendo “hanno trovato spazi di sviluppo imprenditoriale sempre più ampi a fronte di una rete di
offerta pubblica poco sviluppata”. Ciò ha portato nel giro di 20 anni il loro peso complessivo dal
39% al 57,3%.
Tra le strutture ospedaliere maggiori vi sono (anche se non in modo esclusivo):
Il Gruppo Garofalo (Famiglia Garofalo), cui appartiene anche la clinica Città di Roma, in continua
espansione e ben integrato nel servizio sanitario del Lazio, ma presente anche in altre regioni
Il Gruppo GVM Care&Research (famiglia Sansovino), presente a Roma con 5 strutture, e
diffuso in parecchi regioni italiane oltre che in vari paesi all’estero

Il gruppo Angelucci con la Tosinvest Sanità, che gestisce case di cura riabilitative e cliniche
private convenzionate in tutta Italia (26 strutture), ma in particolare nel Lazio e in Puglia,
controllata dalla omonima finanziaria Tosinvest (che controlla anche un pezzo non piccolo di
editoria), coinvolto in numerosi provvedimenti giudiziari
E, peculiare per Roma e per il Lazio, le strutture appartenenti alla Sanità religiosa
Tra di esse vi sono ospedali, cliniche, centri di riabilitazione, residenze sanitarie assistite,
comunità̀ terapeutiche psichiatriche, ambulatori e laboratori. Complessivamente ci sono dodici
ospedali cui si aggiungono altri 31 centri tra RSA, istituti per la riabilitazione e per la
lungodegenza.
Ciò comporta che la sanità religiosa nel Lazio sia forte di un'offerta pari al 42% dei posti letto
totali disponibili. Tra gli oltre 100 centri privati accreditati nel Lazio, i religiosi rappresentano
giusto la metà. Tra i dodici ospedali religiosi, dieci sono classificati: Fatebenefratelli, San Pietro,
Figlie di San Camillo, Cristo Re, San Carlo, Ordine di Malta, Israelitico, i due policlinici universitari
(Gemelli e Campus Biomedico), i due istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Bambino
Gesù̀ e Istituto dermopatico dell'Immacolata – IDI). Il più̀ grande è il policlinico Agostino Gemelli
con 1700 degenze. Essi e le altre strutture erano esenti dal pagamento dell’imposta sugli
immobili (eccezion fatta per le cliniche configurate come società̀ di capitali, SPA e SRL) perché́
considerati enti non commerciali e destinati esclusivamente allo svolgimento di attività̀
assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, nonché́ di
religione e di culto (art.7, comma 1, decreto legislativo 502 del 30 dicembre ’92). La norma è
cambiata, perché in realtà tutti svolgono, di fatto, attività commerciale, ma non sembra
rispettata.
Come si vede, benché di segno politico diverso, in entrambe le regioni il pubblico è discriminato
rispetto al privato. Tutte queste organizzazioni private, godendo di un posizionamento
strategico molto solido e in via di ulteriore consolidamento, potrebbero essere presto in grado
di sovrastare il servizio pubblico e condizionarne fortemente le scelte fino a proporsi come
gestori dello stesso pubblico, come già successo in Lombardia. Il risultato di tale
condizionamento lo abbiamo visto nei mesi scorsi. Alcuni dei gruppi che si sono ingranditi in
Lombardia, dove il privato ha trovato le maggiori opportunità di espansione, si sono poi diffusi in
altre regioni anche rilevando strutture in difficoltà.
In tali gruppi sono presenti capitali stranieri, banche, assicurazioni, italiane e straniere, con
investimenti all’estero, e, in alcuni casi, si avviano ad essere delle multinazionali. Nonostante le
dimensioni e il prestigio loro attributi non sono esenti da pratiche corruttive e malaffare, che
d’altronde sono connaturate alla crescita del capitale. Molto spesso non rispettano i requisiti di
accreditamento, anche perché i controlli sono pochi, come si è visto anche durante la pandemia,
in cui le RSA (al 90% private), sono diventate focolai di infezione. Attraverso il sistema dei DRG è
molto facile ottenere rimborsi gonfiati e finanziamenti non corrispondenti. Su questo sistema
introdotto con l’aziendalizzazione, s’innestino facilmente comportamenti opportunistici e truffe
tanto che sono numerose le inchieste giudiziarie.
Contrariamente al senso comune, non è vero che il privato sia più efficiente. Secondo i dati del
Ministero della Salute, una singola degenza media costa € 3.021 nel pubblico mentre nel privato
costa €2.870,48, ma tale dato non rappresenta la realtà, perché gli interventi più costosi come
trapianti, chirurgia oncologia, neurochirurgia, terapia Intensiva ed Emergenza-Urgenza, si
eseguono prevalentemente nelle strutture pubbliche. Nel privato si tende inoltre a moltiplicare
esami, visite e interventi, si calcola che il 40% delle prestazioni nel privato siano inutili o
inappropriate e si utilizza meno personale. Per non parlare dei danni arrecati alla finanza
pubblica da corruzione e ruberie.

b) La sanità integrativa e intermediata da terzi paganti, il cosiddetto secondo pilastro.
La spesa sanitaria privata è pari a € 41.789 milioni, di cui la maggior parte, € 35.989 milioni, è
direttamente a carico delle famiglie (ticket, farmaci, prestazioni specialistiche), mentre per €
5.800 milioni si tratta di spesa intermediata costituita da polizze collettive, individuali e fondi
sanitari. In termini percentuali, nel 2017, il 27% della spesa sanitaria era privata. L’analisi della
spesa intermediata è piuttosto complessa sia per la difficoltà a tracciare i flussi economici, sia
per l’assenza di rendicontazione pubblica. A questa si deve aggiungere la scarsa affidabilità di
fonti e dati e la possibile sovrapposizione di alcune cifre.
I soggetti che compongono la spesa intermediata si sostituiscono al SSN e si suddividono in tre
principali raggruppamenti: fondi sanitari, polizze assicurative individuali e collettive, Welfare
aziendale.
Teoricamente offrono tre tipologie di coperture. La spesa sostitutiva, che copre servizi e
prestazioni già incluse nei LEA, in linea teorica, potrebbe sostituirsi interamente all’offerta
pubblica, ma in realtà copre solo i servizi più vantaggiosi per l’erogatore (es. diagnostica e
specialistica ambulatoriale). La spesa aggiuntiva integra la copertura pubblica colmando il
differenziale di spesa tra le prestazioni garantite dal SSN e la quota a carico del cittadino (es.
ticket camere a pagamento). La spesa complementare copre prestazioni escluse dai LEA (es.
odontoiatria).
Con i Decreti Turco (2008) e Sacconi (2009) le differenze tra Fondi sanitari e polizze
assicurative si sono annullate perché, al fine di poter usufruire dei benefici fiscali, tutti i
soggetti iscritti all’Anagrafe sono tenuti ad erogare prestazioni integrative (assistenza
odontoiatrica, non autosufficienza) in misura non inferiore al 20% delle risorse destinate alla
copertura di tutte le prestazioni, mentre il resto può essere composto da prestazioni sostitutive.
Mentre quindi la terminologia continua a indicare la natura “integrativa” dei fondi sanitari,
legittimando la percezione pubblica che il loro obiettivo sia solo di integrare le coperture
garantite dal SSN, di fatto tutti i soggetti, fondi e assicurazioni, possono esercitare una funzione
sostitutiva sino all’80% delle coperture, continuando a mantenere i benefici fiscali, attraverso i
quali vengono sottratti soldi allo Stato.
I Fondi sanitari sono composti da centinaia di soggetti (fondi, casse, enti) molto eterogenei
quanto a coperture, premi, modalità di gestione delle attività, erogazione delle prestazioni ed
hanno progressivamente acquisito una funzione prevalentemente sostitutiva, piuttosto che
integrativa, pur mantenendo le agevolazioni fiscali. Le loro caratteristiche sono raccolte
nell’Anagrafe dei fondi sanitari integrativi presso il Ministero della Salute, non consultabile
pubblicamente dal sito web (!), per cui le informazioni disponibili sono di tipo secondario e
provenienti da fonti parziali e settoriali.
Solo nel novembre 2018, il Ministero della Salute per la prima volta ha pubblicato un report
ufficiale che per l’anno 2017 attesta 322 fondi sanitari, per un totale di 10.616.847 iscritti che
includono anche pensionati e loro familiari.
Le agevolazioni fiscali per i fondi sanitari permettono una deducibilità dei contributi sino a €
3.615,20 e la detrazione della quota parte delle spese sanitarie a proprio carico: cifre che il
beneficiario sottrae allo Stato per un’erogazione di prestazioni prevalentemente sostitutive.
Le polizze assicurative, sono polizze malattia, individuali o collettive e polizze di LTC (Long term
care), cioè assicurazioni vita, che, in caso di non autosufficienza, garantiscono una rendita. Esse
sono prevalentemente di natura sostitutiva, cioè intervengono per prestazioni già incluse nel
SSN (ricoveri ospedalieri e altro). Talvolta, a fronte di un incremento del premio, si estendono
alle prestazioni odontoiatriche.

Il rimborso può essere parziale o totale, secondo il premio pagato. Possono anche garantire una
assistenza diretta veicolando l’assicurato in strutture sanitarie convenzionate.
Il Welfare aziendale si è andato costituendo con la Legge di Stabilità 2016 e quindi con le Leggi
di Bilancio 2017 e 2018 che, grazie a rilevanti incentivi fiscali, hanno promosso gli investimenti
delle imprese per sostenere il “benessere dei lavoratori e delle loro famiglie”. Si realizza
attraverso la conversione dei premi aziendali di risultato in servizi di welfare, rafforzando gli
incentivi già presenti nella componente variabile della retribuzione. A questi si applica la totale
esenzione da imposizione fiscale e contributiva.
Nell’ambito del Welfare la sanità integrativa è l’area che ha maggiormente catalizzato
l’interesse di imprese e sindacati, favorita dalle agevolazioni fiscali e dallo spostamento degli
aumenti salariali da voci soggette a tassazione a voci esenti, con conseguente sottrazione di
risorse all’Irpef. Questa tipologia di tutela tende ad espandersi con un impatto sempre più
rilevante sui conti pubblici.
Le tipologie di servizi e prestazioni sanitarie offerte, vanno a duplicare quanto già incluso nei
LEA, con il benestare delle organizzazioni sindacali che pertanto, da difensori delle tutele
pubbliche si sono trasformati in sostenitori dei fautori della privatizzazione.
Di fatto i fondi sanitari offrono solo vantaggi marginali ai lavoratori dipendenti con il rimborso
di alcune spese, peraltro ampiamente ripagate dalla rinuncia all’aumento salariale e a una quota
di pensione e TFR. Inoltre i lavoratori finiscono per pagare due volte, perché continuano a
sostenere attraverso la fiscalità generale il servizio pubblico.
Chi invece beneficia sicuramente dei fondi sanitari sono le imprese, che risparmiano sul costo
del lavoro, l’intermediazione finanziaria e assicurativa che aumenta i propri profitti e i privati
erogatori, che possono contare sull’incremento della domanda di prestazioni.
Peraltro, il 40-50% della somma versata al fondo non si traduce in servizi perché assorbito dalla
gestione amministrativa e da altre voci legate all’assicurazione.
Negli ultimi 30 anni vi è stata una crescente convergenza d’interessi per fondi sanitari,
assicurazioni e forme di welfare aziendale, sostenendo che l’unico modo per garantire la
sostenibilità del SSN fosse l’espansione del cosiddetto secondo pilastro.
In realtà la sanità integrativa rappresenta una grossa criticità per il SSN, perché sta diventando
sostitutiva e permette alla intermediazione finanziaria e assicurativa di utilizzare le detrazioni
fiscali per incrementare i propri profitti, sottrarre soldi allo Stato ed accrescere iniquità e
disuguaglianze.
Da quando i fondi sanitari integrativi sono stati introdotti dal D. Lgs 502/1992 vi è stato tutto un
susseguirsi di provvedimenti che ne hanno facilitato il diffondersi finché con il decreto crescita,
DL 34/2019, si è garantita loro la possibilità di godere di agevolazioni fiscali.
Il secondo pilastro rischia di affondare il SSN: Indebolisce la difesa del diritto alla tutela della
salute, perché chi non è soddisfatto del pubblico e dispone di un’opzione privata che gli offre
tutto non ha motivo per rivendicare un diritto anche a nome degli altri; genera iniquità e
diseguaglianze, in quanto le agevolazioni fiscali sono una spesa fiscale sostenuta da tutti i
contribuenti, mentre gli iscritti ai fondi sanitari, sono persone con un cero agio o che
appartengono a categorie con maggiori capacità negoziali, che oltre a fruire di maggiori
prestazioni, scaricano parte dei costi sui meno fortunati. La combinazione con liste di attesa e
ticket spinge alla rinuncia all’uso del servizio pubblico e può rappresentare un fattore di
disgregazione del SSN, segnalandone la diminuita affidabilità
E’ paradossale che, si sia definanziato il SSN, destinando risorse pubbliche alle agevolazioni
fiscali dei fondi sanitari, invece che aumentare le risorse per la sanità pubblica.
Sanità privata convenzionata e sanità integrativa, avendo come scopo il profitto, sottraggono
risorse al Servizio Pubblico e introducono capitali privati che poi pesano sulle scelte da fare per

la salute. In entrambe è sempre più forte la presenza di capitale finanziario anche internazionale
e questo renderà molto difficile la nostra lotta per ritornare ad un sistema pubblico.
4. COME SI È POTUTI ARRIVARE A QUESTO?
Negli anni ’90 con i trattati di Maastricht e di Lisbona l’Europa imboccò la strada del liberismo
spinto: è da quel momento che i valori della solidarietà della nostra Costituzione, furono lasciati
cadere, nella convinzione illusoria, da parte delle socialdemocrazie, di poter governare il
capitalismo.
A questi si è uniformata la legislazione italiana che ha introdotto nella sanità valori liberisti e la
privatizzazione mentre la regionalizzazione ne ha permesso la sperimentazione. Qualora
passasse l’Autonomia Differenziata avremmo 20 sistemi sanitari ancora più diversi, aumento
della sanità privata ed integrativa, aumento delle disuguaglianze in tutte le regioni, ma
soprattutto tra Nord e Sud.
Il modello di “mercato” più avanzato è rappresentato dalla Lombardia, che da anni si è posto
come esempio anche per altre regioni e per lo stesso SSN. Ma perché il privato, certamente
spinto dalle normative europee e dalle controriforme degli anni ’90 è andato così avanti, fino a
prevalere? Perché nel nostro paese si è accettato che la salute non fosse più un diritto ma una
merce per fare profitti?
Innanzitutto, non vi sono uguali condizioni di trattamento e gestione del privato e del pubblico
da parte delle Regioni .
Il pubblico non ha autonomia gestionale, tecnica ed organizzativa, a differenza del privato, e
per sua stessa natura dipende dalle scelta politiche dalle regioni cui deve sottoporre i propri
bilanci e le proprie decisioni strategiche oltre a non avere risorse proprie.
Il pubblico deve garantire una gamma di prestazioni e funzioni molto estese (trapianti,
chirurgia oncologia, neurochirurgia, terapie Intensive ed Emergenza-Urgenza), mentre il privato
sceglie di investire nei servizi più remunerativi.
Nell’accreditamento del privato spesso non si rispettano i requisiti minimi strutturali,
tecnologici e organizzativi mentre attraverso il sistema dei DRG è molto facile gonfiare la
richiesta dei rimborsi e truffare il pubblico pagante.
In proposito si segnala che la mobilità sanitaria dei cittadini del Sud verso il Nord, comporta una
sottrazione al Sud di 4,6 miliardi di euro l’anno, che vanno in prevalenza alle strutture private
perché la maggior parte dei sistemi di accreditamento regionali impone un tetto alle prestazioni
che si possono erogare ai residenti, ma non a quelle per i non residenti. Di conseguenza I privati
sono fortemente motivati ad attrarre pazienti dalle altre regioni aumentando i propri guadagni.
Il privato fa contratti collettivi di lavoro meno onerosi in funzione del profitto ed assume il
personale in regime di precarietà riducendo le garanzie che ancora esistono nel pubblico.
Non si fa programmazione, giacché i gruppi privati si fondano principalmente sull’offerta e non
intendono sottostare ai vincoli di una domanda determinata su base territoriale, che limiterebbe
l’espansione del loro mercato. Scelgono quindi i servizi che possono essere interessanti come
fonte di reddito, trascurando quelli in cui non vi è convenienza economica anche se il bisogno di
questi ultimi è elevato.
I cittadini non hanno scelto spontaneamente Il privato, ma vi sono stati indotti perché molte
prestazioni vi si sono spostate causa allungamento delle liste di attesa, ticket e super ticket
(quest’ultimo abolito dal 1 settembre 2020) e per il definanziamento e depauperamento di
mezzi e personale.

Per anni vi è stata una martellante campagna sui media e da parte dell’intermediazione
finanziaria e assicurativa, che hanno denunciato l’aumento della spesa sanitaria privata diretta,
le difficoltà di accesso rapido al pubblico, esagerando il numero di italiani, 12 milioni, che
dovevano rinunciare alle cure (vedi RBM Salute-Censis). Tutti si sono mossi: partiti,
organizzazione di medici e rappresentanti di vari interessi, grandi gruppi privati, case
farmaceutiche, finanziarie, assicurazioni, università, organizzazioni religiose, terzo settore. Si è
sostenuto che fosse necessario potenziare il secondo pilastro per salvare il SSN, quando invece
bisognava solo ristabilirne il necessario finanziamento.
Vi è stato quindi un grande lavoro di persuasione che ha spezzato ogni fiducia in tutto ciò̀ che
proveniva dal pubblico. Gli stessi operatori pubblici, molti dei quali si erano fortemente
impegnati nell’applicazione della L.833/78, si sono adeguati, ad es. in Lombardia, al nuovo
modello introdotto da Formigoni, cercando di salvare il salvabile, ma in realtà lo hanno subito.
Si è rinunciato ai servizi sanitari di base, all’omogeneità dell’assistenza nei vari territori, alla
gratuità delle prestazione. Si è accettato lo smantellamento dei Servizi di Prevenzione e di Tutela
del Lavoro. Si è arrivati ad accettare il principio della libertà di scelta, che in realtà non esiste,
perché non è il paziente che sceglie, ma l’istituto privato e tutto quello che gli sta attorno.
Il processo di privatizzazione è stato artatamente dissimulato.
Non è stato comunicato correttamente il fenomeno della privatizzazione, perché nei flussi
informativi e nelle elaborazioni pubbliche non sempre sono state evidenziate “natura privata” e
“natura pubblica” delle strutture di erogazione dei servizi finché le informazioni importanti sono
sparite dai resoconti.
Inoltre non si è voluto dare una conoscenza completa di quanto stava succedendo, perché si è
costruita l’informazione in modo non trasparente e semplificato. Di conseguenza non si è colta
la dimensione quantitativa della privatizzazione e lo sbilanciamento avvenuto verso il privato.
Vi è stata una perseverante minimizzazione del fenomeno, si è sostenuto che il processo di
privatizzazione era in corso, ma non era di dimensioni tale da poter cambiare il sistema.
Anche le ricerche, effettuate da centri/scuole delle facoltà di economia e di management in
Lombardia, non hanno compiutamente descritto il fenomeno perché spesso impegnati in
attività di consulenza e quindi in evidente confitto d’interesse. Di conseguenza a chi voleva
davvero approfondire e ai cittadini non venivano forniti elementi per cogliere e descrivere la
realtà.
Ciò è accaduto perché decisori politici e portatori di interessi vari non volevano che emergesse
il forte sbilanciamento del SSL verso il privato.
Un’opinione pubblica informata, infatti, avrebbe potuto impedire o per lo meno ostacolare ciò
che si stava costruendo. Invece si insisteva sulla bassa significatività delle trasformazioni in
corso, e che anzi, si stavano introducendo maggiore efficienza. Si fece così credere che non vi
fossero rilevanti differenze negli orientamenti e comportamenti di servizio dei soggetti privati
rispetto ai soggetti di parte pubblica.
In realtà Si temeva che l’opinione pubblica, una volta informata sul grado di sbilanciamento
effettivo del sistema a favore del privato potesse reagire ai ripetuti fatti di cronaca riguardanti
strutture private per nulla efficienti e che sperperavano denaro pubblico (fallimento del gruppo
privato Maugeri, forti debiti accumulati nei confronti della Regione da parte della Fondazione
Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma etc.) o che erano penalmente perseguibili,
(ospedale Galeazzi con la morte di pazienti nella camera iperbarica; Clinica Santa Rita, dove si
facevano interventi chirurgici inutili). Questi sono i casi più noti, ma l’elenco sarebbe molto
lungo.

5. DA DOVE RICOMINCIARE?
Ci siamo soffermati sul servizio sanitario lombardo, perché è lì che in modo più marcato
l’equilibrio si sta spostando verso il privato arrivando a condizionare altri servizi regionali e lo
stesso SSN nel suo complesso. La pandemia ha reso evidente in modo drammatico ciò che si
teneva sotto traccia.
A fronte di questa pesante situazione, non sembrano vedersi segni di ravvedimento né da parte
delle regioni né del governo centrale. Le proposte che stanno filtrando per l’uso in Sanità del
Recovery Found – si parla di circa 70 miliardi – non accennano proprio all’enorme nodo del
privato e, almeno per ora, si prospetta una distribuzione di finanziamenti non organica e al fuori
di una seria programmazione.
Eppure l’Italia ha un’opportunità unica e senza precedenti per cambiare e superare arretratezze
e disuguaglianze consolidate sul piano economico e territoriale, prima di tutto quella tra Nord e
Sud.
Il rischio è che si adottino misure eterogenee prive di disegno strategico, piegate agli interessi
miopi e particolari dalle pressioni lobbistiche, con miliardi pubblici sparsi in tutte le direzioni.
Invece servirebbero programmi per riforme strutturali nella sanità, nei servizi essenziali e nei
punti strategici del paese.
Anche la scarsa collaborazione tra governo e regioni, pesa negativamente sull’efficienza
complessiva e determina grandi sprechi.
Le Regioni e le città si candidano a gestire i finanziamenti del Recovery Found ma con uno spirito
competitivo e rivendicativo, con i cosiddetti «governatori» regionali, che guardano con fastidio
al ruolo del governo e del parlamento nel definire i programmi. Si pratica cioè una politica che
tenta di imporre nei fatti un’autonomia differenziata che porterà divisioni e disparità sociali e
territoriali del tutto in contrasto col dettato costituzionale, come se fossimo già venti statarelli,
dimenticando lo spirito di solidarietà tra i diversi livelli istituzionali auspicato dalla nostra
Costituzione.
Appare evidente che i grandi decisori, con le forze parlamentari al seguito, continuano a
guardare al privato o a un misto pubblico-privato, nonostante l’esito disastroso e nefasto dei
processi di privatizzazione, come dimostrano la tragedia del ponte Morandi e la débâcle del
sistema sanitario nell’impatto con la pandemia da COVID-19 proprio nelle regioni dove più si è
privatizzata la sanità
Dobbiamo tirar fuori la forza dell’indignazione etica e politica che ci prende davanti alle miserie
e ai trasformismi della classe dirigente e politica e fare di tutto perché le faglie, gli spazi che si
sono aperti non si richiudano in fretta e proponiamo come punti principali su cui impegnarsi i
seguenti.
a) La salute deve tornare ad essere un diritto fondamentale
L’emergenza pandemica ha reso evidente che solo un servizio pubblico, unitario, organizzato e
preparato, può realizzare e tutelare il diritto alla salute, sancito dall’Art. 32 della Costituzione e
dalla L. 833/1978. Anche attraverso questa tutela si eliminano povertà e disuguaglianze.
• Potenziare il Servizio Sanitario Nazionale, meglio rifondarlo, restituendo subito al Fondo
Sanitario Nazionale i 40 miliardi scippati, ed incrementarlo assegnando i finanziamenti solo a
strutture pubbliche, in base ai bisogni reali e non alla spesa storica, che penalizza il Sud. Va
ribadito che il SSN deve essere unico, pubblico e finanziato attraverso la fiscalità generale.

• Eliminare la scelta aziendalista che sta alla base dell’organizzazione sanitaria, ha
trasformati la salute in merce e ha trasformato USL e ospedali in aziende (ASL e AO)
condizionando fortemente l’assolutezza del diritto alla salute e subordinandola a logiche di
produttività e di mercarto.
• Contrastare e superare il privato, che oggi sopravanza il pubblico e che si occupa di salute
esclusivamente a scopo di lucro come dimostrato anche dal ruolo tardivo e secondario
assunto durante la pandemia. Cominciando dalla revisione dell’accreditamento delle
strutture private convenzionati, riconducendo al pubblico i servizi esternalizzati e bloccando
gli strumenti di privatizzazione occulta (fondi sanitari integrativi, welfare aziendale,
assicurazioni etc)
• Rifondare la Prevenzione primaria, individuando e contrastando i fattori d’inquinamento e
uso distorto dei territori e delle matrici ambientali che colpiscono la salute e la vita di tutti
gli esseri viventi, della Terra e il clima. Avviare la conversione ecologica di produzioni e
organizzazione del lavoro, delle città e dei trasporti etc. Ciò richiede il coordinamento dei
Ministeri della Salute e dell’Ambiente e dei settori connessi ed entra in conflitto con gli
interessi del mercato e del capitale: per questo i Dipartimenti di Prevenzione sono
scomparsi o sono stati ridotti ad attività secondarie.
• Rimettere in campo la prevenzione collettiva nei luoghi di vita, di lavoro, nelle scuole e
nelle comunità, ricostruire i Servizi di Igiene Pubblica per la ricerca attiva delle cause di
malattia e la rete epidemiologica nazionale, dotandoli di personale preparato e in numero
idoneo. Le patologie infettive e le epidemie, infatti, lungi dall’essere state debellate, stanno
tornando proprio a causa dei danni arrecati alla terra su cui viviamo.
• Riorganizzare le cure primarie e la formazione dei medici di famiglia, perseguirne Il
rinnovamento culturale e colmare le lacune esistenti ed emerse in questi mesi.
• Liberare anche la sanità animale dai condizionamenti del mercato e del profitto,
potenziando e rinnovando cultura, formazione ed organizzazione della sanità animale e dei
servizi veterinari, riducendo i grandi allevamenti intensivi, dove gli animali sono mantenuti
in condizioni di sovraffollamento innaturali e trattati con antibiotici e sostanze chimiche.
Questo è inaccettabile perché gli animali soffrono e patiscono come noi e perché, in
condizioni innaturali e di stress ambientale, virus e batteri possono fare il “salto di specie”
invadendo altre specie e l’uomo, i cui sistemi immunitari faticano a raggiungere un
equilibrio con essi. Riducendo gli allevamenti intensivi si preservano dalla distruzione ampie
parti del pianeta e delle popolazioni che vi abitano.
• Rafforzare e stabilizzare gli organici del personale, eliminare il precariato, avviare un piano
di assunzioni che colmi il vuoto degli organici determinatosi in dieci anni di blocco di turn-
over. Ampliare l’accesso alle Facoltà di Medicina e Chirurgia e alle scuole di specializzazione,
per le professioni sanitarie, tecniche ed infermieristiche, definendo le competenze e
l’integrazione fra le varie figure.
• Realizzare un’industria pubblica del farmaco, dei reattivi di laboratorio e dei dispositivi
biomedicali e di sicurezza, superare speculazioni e ricatti delle multinazionali
farmaceutiche, coinvolgere in un quadro europeo le strutture del SSN e quelle militari, già
deputate alla produzione di farmaci.

• Ricostituire la partecipazione di Comuni, Comunità locali, associazioni e cittadini.
La tragedia del coronavirus ha svelato la perdita di una cultura di sanità pubblica diffusa
anche tra la popolazione. La salute, come altre condizioni del nostro vivere, non è solo affare
da ‘esperti’ ma richiede anche la messa in comune delle conoscenze delle persone. Vanno
quindi garantite nei territori forme di partecipazione che affianchino le istituzioni nel
promuovere la salute, così come originariamente previsto nella L.833/78
b) Perseguire la conversione dell’industria bellica e delle armi.
Con lo scoppio dell’epidemia da Covid-19, abbiamo scoperto che una sola azienda in Italia
produce ventilatori polmonari: la Siare Engineering di Bologna. Ma ben 334 aziende producono
armamenti e sistemi militari, caccia avanzati, mitragliatori, portaerei, cannoni e altro, cui sono
da aggiungere ben 231 aziende produttrici di “armi comuni e munizioni”. La maggior parte ha la
sede produttiva in Lombardia, soprattutto in provincia di Brescia. Siamo preparati e
autosufficienti per fare la guerra, ma non per le apparecchiature elettromedicali. Oggi la
Lombardia è la prima regione italiana per produzione di sistemi militari e di armi comuni, ma è
una delle regioni maggiormente dipendenti dall’estero per apparecchiature mediche.
Si comprende ora drammaticamente l’importanza di avere un’industria nazionale che risponda
alle effettive egenze della salute dei cittadini e non solamente alla domanda di mercato e agli
interessi del profitto.
c) Respingere l’Autonomia differenziata
La regionalizzazione introdotta dal nuovo Titolo V si è dimostrata del tutto inadeguata a
garantire un SSN equo, universale ed uniforme su tutto il territorio nazionale, ha prodotto gravi
disuguaglianze in tutte le Regioni ed in particolare tra Nord e Sud, ha facilitato le privatizzazioni,
ha depotenziato quando non smantellato i servizi per l’assistenza territoriale e di prevenzione.
La pandemia da coronavirus rappresenta la dimostrazione viva che un servizio sanitario diviso e
diverso per ciascuna Regione è esposto alla sconfitta. Quanto successo è un campanello
d’allarme per tutte le altre materie di cui le regioni chiedono il trasferimento completo. Siamo
alla vigilia di una crisi economica e sociale che sarà di vaste proporzioni. Questo non è il tempo
di dividere ulteriormente il paese con effetti che saranno deflagranti sulle classi più disagiate e al
Sud. E’ necessario riunire il paese per superare le disuguaglianze enormi che si sono stratificate
in questi decenni di liberismo sfrenato. Il SSN a pezzi, va ricostituito.
Il Ministero della Salute va ricondotto al suo ruolo originario di programmazione nazionale, va
rinforzato l’Istituto Superiore di Sanità, vanno stabiliti per tutto il territorio nazionale livelli
uniformi (non essenziali) di assistenza e livelli omogenei di gestione ed organizzazione. Sulla
base dei principi, livelli e criteri definiti in modo uniforme per tutti i territori, alle Regioni
spetterà l’articolazione dei servizi regionali, affiancate dai Comuni e dalle Comunità Territoriali.
Ci aspetta una crisi economica gravissima perché il nostro SSN non è stato in grado di
fronteggiare la pandemia, essendo stato smantellato proprio nelle regioni più forti, sotto la
pressione di settori economici e finanziari per i quali la salute è subordinata al profitto.
E’ evidente che le perdite miliardarie causate dal virus e dall’inadeguatezza di un sistema
sanitario, ormai privatizzato per il 50%, sono superiori, e di molto, agli investimenti necessari per
il mantenimento e consolidamento del SSN così da poter superare con meno perdite e danni

economici la pandemia. La crisi del sistema sanitario ha contribuito a disvelare la debolezza e
arretratezza del sistema industriale, dei servizi, della scuola, dei trasporti.
Per uscirne sono necessari investimenti fori e ben orientati, me non vediamo questa volontà,
nemmeno per il SSN. Eppure, basterebbe convertire una piccola parte della spesa militare
italiana che supera ormai i 26 miliardi di euro su base annua, equivalenti a una media di 72
milioni di euro al giorno e che, in base agli impegni presi nella Nato, dovrà continuare a crescere
fino a raggiungere una media di circa 100 milioni di euro al giorno.
Oppure si potrebbero tassare i patrimoni del 10% più ricco della popolazione italiana che
detiene la maggior parte della ricchezza nazionale: basterebbe un’imposizione ininfluente per
tali ricchezze.
Oppure ancora l’Agenzia delle Entrate dovrebbe finalmente indagare sulla grande evasione
raccogliendo le informazioni necessarie dove sono e si trovano.
Infine cessare con le distribuzioni a pioggia, sotto la spinta di interessi particolari e lobby,
spesso per meri interessi elettorali.
Se si assumessero provvedimenti di questo tipo non ci sarebbe necessità, forse, né di MES né di
Recovery Found.
All’impegno per la realizzazione degli obiettivi posti si deve accompagnare un’azione di verità e
chiarezza sui processi di privatizzazione nella sanità e sugli enormi interessi in campo che poco si
conoscono perché l’informazione è stata volutamente dissimulata, nascosta, deviata. La
mobilitazione richiede informazione e conoscenza si diffondano.

 


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