DA DOVE VENGONO I CORONAVIRUS?

DA DOVE VENGONO I CORONAVIRUS?

Contro le pandemie, l’ecologia

di SONIA SHAH *

Si è parlato di un pangolino, di un pipistrello… secondo una voce ormai smentita si sarebbe trattato di un serpente. La corsa a individuare l’animale selvatico all’origine di questo coronavirus, ufficialmente denominato Covid-19, che ha
intrappolato diverse centinaia di milioni di persone, messe in quarantena o trincerate dietro a cordoni sanitari in Cina e in altri paesi, è ancora aperta. Se svelare questo mistero resta fondamentale, tali speculazioni ci impediscono di vedere che la nostra crescente vulnerabilità alle pandemie ha una causa più profonda: la distruzione sempre più veloce degli habitat. Dal 1940, centinaia di microbi patogeni sono comparsi o riapparsi in aree in cui, in alcuni casi, non si erano mai visti prima. È il caso del virus dell’immunodeficienza umana (Hiv), dell’Ebola nell’Africa occidentale e della Zika sul continente americano. La maggior parte di essi (60%) è di origine animale. Alcuni provengono da animali domestici o da allevamento; più di due terzi da animali selvatici.
Questi ultimi in realtà non c’entrano nulla. A dispetto degli articoli che, con tanto di corredo fotografico, indicano la fauna selvatica come il punto di partenza di epidemie devastanti (1), è un errore credere che questi animali siano particolarmente infestati da agenti patogeni letali pronti a contagiarci.
In realtà, la maggior parte di questi microbi vive al loro interno senza far loro alcun male. Il problema è un altro:
con il dilagare della deforestazione, dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, abbiamo dato a questi microbi i mezzi per arrivare fino al corpo umano e adattarsi.
La distruzione degli habitat minaccia di estinzione molte specie (2), tra le quali piante medicinali e animali su cui la nostra farmacopea ha sempre fatto affidamento. Quelle che sopravvivono non possono fare altro che ammassarsi nelle piccole porzioni di  habitat lasciate libere dagli insediamenti umani. Il risultato è una maggiore probabilità di contatto stretto e ripetuto con l’uomo, cosa che permette a microbi benigni di passare nel nostro corpo e di trasformarsi in agenti patogeni mortali.
Ebola è un caso esemplare. Uno studio condotto nel 2017 ha rivelato che i focolai del virus, la cui origine è stata localizzata in varie specie di pipistrelli, sono più frequenti nelle zone dell’Africa centrale e occidentale che hanno recentemente subito processi di deforestazione. Quando si abbattono le loro foreste, i pipistrelli sono costretti ad appollaiarsi sugli alberi dei nostri giardini e delle nostre fattorie.
È facile immaginare il passaggio successivo: un essere umano ingerisce della saliva di pipistrello mordendo un frutto che ne è ricoperto oppure, cercando di catturare e uccidere questo visitatore indesiderato, si espone ai microbi che hanno trovato rifugio nei suoi tessuti. In questo modo, una moltitudine di virus di cui i pipistrelli sono portatori, ma che in loro sono del tutto innocui, riesce a penetrare nelle popolazioni umane – abbiamo preso ad esempio l’Ebola, ma lo stesso vale per il Nipah (diffuso in particolare in Malesia e in Bangladesh) o per il Marburg (diffuso soprattutto
nell’Africa orientale). Se questo fenomeno, definito «salto di specie», si verifica frequentemente, può consentire ai microbi degli animali di adattarsi al nostro organismo e di evolversi fino a diventare patogeni.
Un legame tra l’insorgenza di epidemie e la deforestazione è stato stabilito anche per le malattie trasmesse
dalle zanzare (3), anche se in questo caso il problema non riguarda tanto la perdita di habitat quanto la loro  trasformazione. Con gli alberi, scompaiono anche le radici e le foglie morte. 
Di conseguenza, l’acqua e i sedimenti scorrono più facilmente sul terreno, ormai raggiunto anche dai raggi del sole, formando delle pozzanghere che favoriscono la riproduzione delle zanzare portatrici della malaria. Secondo uno studio condotto in dodici paesi, le specie di zanzare che trasportano agenti patogeni umani sono due volte più numerose nelle aree disboscate che nelle foreste rimaste intatte.

Pericoli dell’allevamento intensivo

La distruzione di habitat agisce anche alterando il numero degli individui appartenenti a ciascuna specie, il che può
aumentare il rischio di diffusione di un agente patogeno. Un esempio è il virus del Nilo occidentale, trasportato dagli
uccelli migratori. In Nord America, negli ultimi cinquant’anni le popolazioni di uccelli sono diminuite di oltre il 25% a causa della perdita di habitat e di altre distruzioni (4). Ma non tutte le specie sono interessate da questo fenomeno allo stesso modo. I cosiddetti uccelli specialisti (di un habitat), come i picchi e i rallidi, sono stati colpiti più
duramente dei generalisti come i pettirossi e i corvi. Mentre i primi non sono grandi vettori del virus del Nilo
occidentale, i secondi sono vettori eccellenti. Di qui un’alta diffusione del virus tra gli uccelli domestici della
zona e una crescente probabilità che una zanzara punga un uccello infetto e poi un essere umano (5).
Lo stesso vale per le malattie trasmesse dalle zecche. Lo sviluppo urbano sta gradualmente rosicchiando le foreste del nord-est degli Stati uniti, scacciando animali come gli opossum, che contribuiscono a tenere sotto controllo le popolazioni di zecche, e consentendo allo stesso tempo a specie molto meno efficaci al tal scopo, come il topo dai piedi bianchi e il cervo, di prosperare. Risultato: le malattie trasmesse dalle zecche si diffondono più facilmente. Una di queste malattie è la malattia di Lyme, apparsa per la prima volta negli Stati uniti nel 1975. Negli ultimi vent’anni sono stati identificati sette nuovi agenti patogeni trasportati dalle zecche (6).
Il rischio di insorgenza di malattie non aumenta solo per la perdita degli habitat, ma anche per il modo in cui questi vengono rimpiazzati. Con lo scopo di soddisfare i loro appetiti carnivori, gli esseri umani hanno disboscato un’area equivalente a quella del continente africano (7) per nutrire e allevare animali destinati al macello.
Alcuni di questi vengono poi commercializzati illegalmente o venduti sul mercato degli animali vivi (wet markets). Lì, delle specie che probabilmente in natura non si sarebbero mai incrociate vengono tenute in gabbia fianco a fianco e i microbi possono tranquillamente spostarsi da una all’altra. Questo tipo di sviluppo, che nel 2002-2003 ha già generato il coronavirus responsabile dell’epidemia della Sindrome respiratoria acuta grave (Sars), potrebbe essere all’origine anche del coronavirus sconosciuto che oggi ci attanaglia.
Ben più numerosi sono poi gli animali che vengono fatti crescere nei nostri allevamenti industriali. Centinaia di migliaia di bestie ammassate in attesa di essere portate al macello: condizioni ideali perché i microbi si trasformino in agenti patogeni letali. Ad  esempio, i virus dell’influenza aviaria, di cui sono portatori gli uccelli acquatici, fanno stragi nelle fattorie piene di polli in cattività, dove mutano diventando ancora più virulenti – un processo talmente prevedibile da poter essere riprodotto in laboratorio. Uno dei loro ceppi, H5n1, è trasmissibile all’uomo e uccide più della metà degli individui infettati. Nel 2014, nel Nord America, per fermare la diffusione di un altro di questi ceppi si sono dovuti abbattere decine di milioni di polli (8).
Le montagne di deiezioni prodotte dal nostro bestiame offrono ai microbi di origine animale ulteriori opportunità di infettare le popolazioni umane.
Essendo infinitamente maggiori di quelle che i terreni agricoli possono assorbire sotto forma di fertilizzanti, spesso finiscono per essere stoccate in fosse non isolate – un paradiso per l’Escherichia coli. Più della metà degli animali tenuti all’ingrasso negli Stati uniti sono portatori di questo batterio, per loro innocuo (9). Nell’uomo, invece,  l’Escherichia coli causa diarrea sanguinolenta, febbre e può comportare insufficienze renali acute. E poiché non è raro che le deiezioni animali si riversino nella nostra acqua potabile e nei nostri alimenti, 90.000 statunitensi vengono infettati ogni anno.

Le ferrovie del Congo

Il fenomeno della mutazione di microbi animali in agenti patogeni umani, oggi sempre più frequente, non è una novità. Risale alla rivoluzione neolitica, quando l’uomo ha iniziato a distruggere gli habitat selvaggi per espandere le terre coltivate e ad addomesticare gli animali per farne delle bestie da soma. In cambio, gli animali ci hanno fatto dei regali velenosi: dobbiamo il morbillo e la tubercolosi alle mucche, la pertosse ai maiali e l’influenza alle anatre.
Questo processo è continuato durante l’espansione coloniale europea.
In Congo, le ferrovie e le città costruite dai coloni belgi hanno permesso a un lentivirus ospitato dai macachi della
regione di perfezionare il suo adattamento al corpo umano. In Bangladesh, gli inglesi hanno disboscato l’immensa
zona umida delle Sundarbans per sviluppare la coltivazione del riso, esponendo gli abitanti ai batteri presenti nelle acque salmastre. Le pandemie causate da queste intrusioni coloniali sono ancora di attualità. Il lentivirus del macaco si è trasformato nell’Hiv. Il batterio acquatico delle Sundarbans, oggi noto come colera, ha già causato sette pandemie, la più recente delle quali si è verificata ad Haiti.
Fortunatamente, non essendo vittime passive di questo processo, possiamo fare molto per ridurre il rischio di emergenza di simili microbi. Possiamo proteggere gli habitat selvatici per far sì che i microbi degli animali restino al loro interno senza trasmettersi all’uomo, come sta facendo il movimento One Health (10).
Possiamo monitorare da vicino gli ambienti in cui i microbi animali hanno maggiori probabilità di mutare in
agenti patogeni umani, cercando di eliminare quelli che mostrano segni di adattamento al nostro corpo prima che causino epidemie. Negli ultimi dieci anni, i ricercatori del programma Predict, finanziato dall’Agenzia degli Stati uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), hanno fatto proprio questo. Grazie al loro lavoro sono stati già identificati più di 900 nuovi virus legati all’estensione dell’impronta umana sul pianeta, compresi ceppi di coronavirus  precedentemente sconosciuti paragonabili alla Sars (11).
Oggi si sta profilando una nuova pandemia e non solo a causa del Covid-19. Negli Stati uniti, gli sforzi dell’amministrazione Trump per esentare l’insieme delle attività industriali da ogni regolamentazione porteranno inevitabilmente a un’ulteriore perdita di habitat, favorendo il passaggio di microbi dagli animali all’uomo. Allo stesso tempo, il governo degli Stati uniti sta riducendo le nostre possibilità di individuare il prossimo microbo
prima che si diffonda: nell’ottobre del 2019, ha infatti deciso di porre fine al programma Predict. All’inizio di febbraio del 2020, ha poi annunciato l’intenzione di ridurre del 53% il suo contributo al bilancio dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Come ha dichiarato l’epidemiologo Larry Brilliant, «i focolai di virus sono inevitabili, le epidemie no». Ma le epidemie ci saranno risparmiate solo se saremo tanto determinati a cambiare le nostre politiche quanto lo siamo stati a sconvolgere la natura e la vita animale.

* SONIA SHAH. Giornalista. Autrice di Pandemic: Tracking Contagions, from Cholera to Ebola and Beyond, Sarah Crichton Books, New York 2016 e di The Next Great Migration: The Beauty and Terror of Life on the Move, Bloomsbury Publishing, Londra, pubblicazione prevista per giugno 2020. Questo testo è già stato pubblicato su The Nation. La traduzione che pubblichiamo è tratta da Le Monde Diplomatique, supplemento mensile del quotidiano IL MANIFESTO del marzo 2020. 

(1) Kai Kupferschmidt, «This bat species may be the source of the Ebola epidemic that killed more than 11.000 people in West Africa», Science Magazine, Washington, DC – Cambridge, 24 gennaio 2019.
(2) Jonathan Watts, «Habitat loss threatens all our futures, world leaders warned», The Guardian, Londra, 17 novembre 2018.
(3) Katarina Zimmer, «Deforestation tied to changes in disease dynamics», The Scientist, New York, 29 gennaio 2019.
(4) Carl Zimmer, «Birds are vanishing from North America», The New York Times, 19 settembre 2019.
(5) BirdLife International, «Diversity of birds buffer against West Nile virus», ScinceDaily, 6
marzo 2009, www.sciencedaily.com
(6) «Lyme and other tickborne diseases increasing», Center for Disease Control and Prevention, 22 aprile 2019, www.cdc.gov
(7) George Monbiot, «There’s a population crisis all right. But probably not the one you think», The Guardian, 19 novembre 2015.
(8) «What you get when you mix chickens, China and climate change», The New York Times, 5 febbraio 2016. In Francia l’influenza aviaria ha colpito gli allevamenti durante l’inverno 2015-2016 e il ministro dell’agricoltura ritiene
che questo inverno esista un rischio per i volatili provenienti dalla Polonia.
(9) Cristina Venegas-Vargas et al., Factors associated with Shiga toxin-producing Escherichia coli shedding by dairy and beef cattle», Applied and Environmental Microbiology, vol. 82, n°16, Washington, DC, Agosto 2016.
(10) Predict Consortium, «One Health in acrion», EcoHEalth Aliiance, New York, ottobre 2016.
(11) «What we’ve found», One Health Institute, http://ohi.sf.ucdavis.edu
(Traduzione di Federico Lopiparo)


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