Prima la salute poi il profitto. Prima il lavoro poi il capitale

Prima la salute poi il profitto. Prima il lavoro poi il capitale

di Paolo Ciofi

Si è tornati a parlare di loro, dopo un oscuramento durato anni, in queste giornate incerte e preoccupanti segnate dal Coronavirus. Degli operai, dei lavoratori e delle lavoratrici in carne e ossa, che erano scomparsi, come fantasmi di un altro mondo, dall’orizzonte sociale, culturale e politico dominato dal capitale. Dalla sua ossessione per i numeri e la quantità di profitti e rendite, dal parossismo individualista dell’arricchimento a tutti i costi e della lotta di tutti contro tutti.

 Una visione e un comportamento che hanno mostrato la loro iniquità e una insostenibile debolezza quando, di fronte alla necessità dell’isolamento in casa, gli operai in primo luogo e tutte le persone che devono lavorare per il proprio sostentamento e per tenere in vita l’intera società si sono trovate senza tutele e senza protezione. Si è configurata così una situazione del tutto anomala e addirittura paradossale: si annuncia la tutela della salute di tutte e di tutte attraverso il contenimento del virus, ma non si adottano misure per salvaguardare la salute di chi lavora per tutelare la vita e la salute di tutte e di tutti.

 Gli scioperi e le proteste si sono moltiplicati, insieme a dichiarazioni inqualificabili di qualche padrone trinariciuto. Alla fine, vincendo un’ottusa resistenza padronale, si è siglato il «Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro». Un documento complesso, articolato in 13 punti, che rispecchia gli attuali rapporti di forza tra il capitale e il lavoro. Secondo Cgil, Cisl, Uil l’accordo «consentirà alle imprese di tutti i settori, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali e la riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. Nell’accordo è stato previsto il coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze a livello aziendale o territoriale per garantire una piena ed effettiva tutela della loro salute».

 Tutelare la salute e il reddito di tutti, non licenziare nessuno: questo dovrebbe essere l’obiettivo. Metterlo in pratica, però, non sarà facile e richiederà una vigilanza e una mobilitazione continue. In questi anni il mondo del lavoro è stato fortemente indebolito. Sotto attacco sono finite le persone che con il loro lavoro hanno tenuto a galla il Paese: soprattutto gli operai, le lavoratrici e i lavoratori dipendenti (18 milioni su 23,5 milioni di occupati) hanno visto fortemente ridimensionata la loro autonomia e la loro libertà, subendo un’offensiva sistematica su tutti fronti. Fino alla cancellazione dello Statuto dei diritti, presentata dall’allora capo del governo come una innovativa scelta di sinistra.

 L’attacco al lavoro, la sua retrocessione da diritto a merce, ha coinciso con la decadenza del Paese – che ha perso il 30 per cento del potenziale industriale -, e con il logoramento dell’impianto democratico, nel quale non esiste un’autonoma e libera organizzazione politica delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro tempo. Siamo il Paese dove ogni anno muoiono sul lavoro più di 1.100 persone; dove la disoccupazione giovanile tocca nel Mezzogiorno il 50 per cento; dove il precariato nel lavoro e nella vita è diventato normalità, come ha reso a tutti evidente il caso della ricercatrice precaria Francesca Colavita, che ha isolato il virus all’ospedale Spallanzani.

 Il lavoro degrada e la ricchezza si concentra, fino al punto che oggi l’uno per cento è più ricco del 70 per cento degli italiani. Una situazione che appare insostenibile nel momento in cui il dramma del Coronavirus ha messo in chiaro che non basta garantire la sicurezza e la salute dei medici e di tutto il personale coraggiosamente impegnato con enormi sacrifici nella cura dei malati. Ciò è indispensabile, e tuttavia senza il lavoro di chi produce i beni necessari alla riproduzione della vita e alla tutela della salute (a cominciare dalle mascherine) nulla sarebbe possibile, e ci avvicineremmo alla fine del genere umano. In questa fase difficile della nostra storia appare di solare evidenza che senza il lavoro il mondo non sta in piedi. E dunque penalizzare il lavoro in nome del dio denaro e del trionfo del capitale è un controsenso, che ci condanna a una crisi organica e senza sbocchi.

 Un insegnamento da tutto ciò dovremmo trarre. C’è bisogno di una civiltà più avanzata, nella quale la priorità va data al lavoro rispetto al capitale, finalizzando il lavoro stesso non all’accrescimento del profitto privato, ma al benessere della comunità e dell’ambiente naturale in cui viviamo. È una necessità storica che la pandemia ha reso stringente. E che richiede non il lavoro subalterno e disgregato nell’isolamento del processo economico, ma la presenza delle lavoratrici e dei lavoratori come forza produttiva libera e autonoma non solo nell’economia, ma anche nella società e nello Stato. Sia nella dimensione nazionale come in quella europea e sovranazionale.

 La sfida è di enorme portata, ma questa è la posta in gioco nel tempo del lavoro digitale e della rivoluzione tecnico-scientifica in atto. E per metterla con i piedi per terra bisognerebbe cominciare a costruire, senza inutili esclusivismi e incoscienti personalismi, un’organizzazione politica delle lavoratrici e dei lavoratori con caratteristiche popolari e di massa. O qualcuno pensa davvero che sia possibile il progresso del mondo tornando al passato? Ai bei tempi del dominio del capitale, in assenza di una Repubblica democratica fondata sul lavoro?

www.paolociofi.it


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