A proposito del libro di Paolo Ferrero, operaio alla Fiat.
Pubblicato il 22 dic 2019
di Maria Grazia Meriggi
Il libro di Paolo Ferrero sul ’69[1] chiude un anno di convegni, seminari, volumi di ricerca storica anche accademica sullo stesso argomento, ma si propone esplicitamente come un testo militante, di sollecitazione politica. Il che non significa – al contrario – che non tenga conto di molte acquisizioni storiografiche e non fornisca validi elementi di conoscenza per un pubblico di potenziali lettori giovani, molto lontani da quegli eventi. Polemizza esplicitamente e con efficacia contro una lettura che più che dagli storici è stata data dalla stampa e dai media in generale: il ’68 come una ribellione culturale e di costume di studenti della piccola e media borghesia, momento festoso di modernizzazione dei costumi, nel senso delle “fratture post-mterialistiche”, il ’69 come momento novecentesco e “arcaico” di rivendicazione economica e sociale tradizionale, insidiata dalle anticipazioni della violenza degli anni ’70.
Di questa immagine caricaturale e ideologica il libro fa giustizia mettendo costantemente in luce il carattere composito socialmente dei protagonisti del ’68 studentesco come del ’69 operaio, dove entrano in campo – qui anticipiamo il discorso che seguirà – operai e operaie giovani, con una scolarità più elevata dei loro padri ma di prima immigrazione dal Sud, privi di una cultura del mestiere e di una acclimatazione agli ambienti e all’intensità dello sfruttamento del lavoro industriale. Nel “biennio rosso” alla liberazione dei corpi dal perbenismo soffocante delle famiglie praticata nel ’68 rispondeva la libertà e l’integrità dei corpi dalle costrizioni intollerabili dei ritmi e della nocività praticate nel ’69, con scambi continui fra studenti e lavoratori, resi possibili dal “lavoro alle porte” in cui si impegnarono tutti i gruppi politici in quegli anni.
Il libro vi fa cenno e fa capire – ma qui vorrei sottolinearlo anche di più – che una delle peculiarità delle lotte operaie di quegli anni fu che partivano ed erano rese possibili da una conoscenza capillare dell’organizzazione del lavoro e dei suoi effetti sulla vita quotidiana dei lavoratori. Una conoscenza non più ridotta ad ausiliaria delle ideologie sulla “classe generale” ma fondamento e scopo delle mobilitazioni più radicali.
L’estrema sintesi del volume lo costringe a non analizzare la situazione precedente, pur dando gli spunti per comprenderla. Il Pci negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta è un partito con grande radicamento territoriale e con una significativa vicinanza fra i numeri degli elettori e degli iscritti, nel decennio ‘55-‘65. La percentuale elettorale del Pci è intorno al 21%, gli iscritti dopo il picco del ’53 con l’impressionante cifra di 2.300.000 non scendono mai al di sotto del 1.800.000. Ma la ben nota discriminazione subita dai suoi aderenti, sia nelle aziende che nelle piazze e le migliaia di arresti mirati in occasione di conflitti di lavoro avevano costretto il partito ad estendersi nel territorio in quanto era stato espulso dalla fabbrica. La linea “nazionale” voluta e praticata dall’ininterrotta segreteria di Togliatti fino all’agosto 1964, che rappresentava una scelta di lungo periodo, faceva anche “di necessità virtù”. Il gruppo dirigente nazionale[2] della Cgil insediatosi nel ‘45 aveva reclutato molti giovani di prevalente estrazione resistenziale, senza un’esperienza contrattuale precisa. Spesso i migliori quadri dirigenti di origine operaia diventavano dirigenti di partito e comunque quell’origine si era trasformata profondamente nell’emigrazione e nel lavoro politico clandestino. Ma soprattutto gli organismi di cui disponeva il movimento sindacale non gli permettevano di intervenire direttamente con la contrattazione sulle singole situazioni di fabbrica. Le Commissioni Interne potevano solo controllare l’applicazione dei contratti stipulati sul piano nazionale: e gli eletti di quello che allora era il solo sindacato conflittuale, la Cgil, erano pesantemente ostacolati anche in questa funzione. La creatività messa comunque in atto dai militanti si concludeva spesso col licenziamento o l’isolamento.
Questa situazione di costante minaccia – concretizzata anche nella presenza di un sindacato aziendale, il SIDA – era particolarmente intensa alla Fiat. Il ’69 a Torino, dunque, e alla Fiat in particolare, è esemplare di un processo generale ed è al centro della narrazione e delle testimonianze soprattutto per questo e non solo perché Paolo Ferrero è stato operaio e militante proprio alla Fiat di Villar Perosa, nel cuore di un capitalismo di famiglia che oggi è solo un lontano ricordo.
Va anche precisato che se guardiamo alle rivendicazioni di quegli anni dal punto di vista di una storia lunga, l’orgoglio e la difesa del mestiere, nell’impresa manifatturiera e poi nelle specializzazioni della grande fabbrica erano stati a lungo strumento di conflitto di classe, difesa dalla concorrenza dei non qualificati non organizzati. Il passaggio da sindacato di mestiere a sindacato d’industria è infatti un lungo processo che non si può ricondurre alla contrapposizione fra collaborazionismo e antagonismo. Ma negli anni ‘50/’60 in fabbriche sempre più tecnologicamente avanzate le paghe differenziate per categorie, i premi, i cottimi erano strumenti di divisione e affermazione di gerarchia. Che corrisponde per questo aspetto a una lunga storia: l’uso di persone di formazione militare e non operaia come capi nelle fabbriche risale addirittura a fine Ottocento! Il volume ricostruisce con passione l’emergere della richiesta di aumenti uguali per tutti, caratteristica anche culturale di quegli anni. Prima nelle discussioni fra i lavoratori, nei cortei interni – la cui funzione e le cui dinamiche sono chiarite senza elementi di folklore ma non senza quelli di liberazione da una disciplina e da un timore ormai insopportabili – poi nelle assemblee Se mi è permessa una digressione personale, la prima cosa che mi scandalizzò del “neostalinismo” di alcune organizzazioni del movimento milanese fu che lo stalinismo prevedeva differenze e premi salariali per gli stakanovisti, la negazione di tutto ciò che avevo imparato dalla condivisione nelle lotte di quegli anni!
Ma il volume dà spazio anche alle lotte di categorie e di territori diversi. Categorie: il ’69 è un momento di risveglio e partecipazione di impiegati e soprattutto tecnici e progettisti: esemplari casi della Philips e dell’Eni di san Donato. In queste lotte vediamo all’opera la “contaminazione” delle rivendicazioni operaie ma anche la consapevolezza del ruolo produttivo, “operaio” in senso marxiano e non gerarchico del lavoro non manuale. Non sono semplici manifestazioni di solidarietà con gli operai ma lotte di lavoratori insieme ad altri lavoratori. E naturalmente ci sono le lotte delle grandi fabbriche di Milano, del suo hinterland, del Veneto, dalla Marzotto al Petrolchimico, e quelle bracciantili e operaie del Sud di Avola e Battipaglia. Con le differenze locali che convergono in una messa in discussione che nasceva – ricorda Ferrero – da una contraddizione stridente: un paese ormai avviato a un pieno sviluppo industriale, almeno al Nord, e un mondo del lavoro cui questo paese offriva bassi salari, ritmi seza respiro, rischi continui di incidenti, carenza o assenza di servizi, un welfare divisivo e carente, temi che convergono nella “battaglia di corso Traiano” (3 luglio 1969).
Due temi erano al centro della discussione collettiva in quegli anni: le forme di rappresentanza e l’uso della forza o della violenza nei conflitti. Il volume tratta molto ampiamente ed efficacemente il primo, accenna al secondo che d’altra parte emerse con drammaticità solo alcuni anni dopo.
Sia fra i testimoni e protagonisti sia fra gli storici di quegli anni c’è un consenso generale sul fatto che i partiti di massa non sono riusciti a farsi permeare dalle spinte innovative del biennio ’68-’69 limitandosi, nel caso del Pci, a capitalizzarne i risultati elettorali. Invece i sindacati – innanzitutto la Cgil ma anche la Cisl della stagione della “scelta di classe” fino a metà anni ’80 – sono stati investiti felicemente dalla tumultuosa messa in discussione delle strategie di rigida centralizzazion rivendicativa e dalle forme di rappresentanza inadeguate perseguite fino alla fine degli anni ’60. Rimando alla lettura del voume e mi limito – dato che il tema richiederebbe moltissimo spazio – a ricordare che si confrontano e intrecciano allora tre posizioni. Il “siamo tutti delegati” espressione di assemblee di operai/studenti che si esprimerà innanzitutto in Lotta Continua (Potere Operaio richiederebbe un discorso a parte) e di settori di fabbrica (un esempio per tutti: le Carrozzerie di Mirafiori, e in generale i reparti delle catene di montaggio, rappresentati nel film “La classe operaia va in Paradiso”); il movimento dei Comitati Unitari di Base che associava pratiche rivendicative autonome che non rifiutavano però la contrattazione e uno sforzo di formazione collettiva, politica e culturale, dei partecipanti; l’accogliemento del nuovo istituto del delegato di reparto, dei consigli di fabbrica e delle nuove libertà (e, certo, anche delle nuove norme) dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 300, 20 maggio 1970). Il volume ricostruisce questa discussion, ricorda come le divisioni fossero meno nette e meno ideologiche fra le avanguardie interne rispetto ai militanti dei gruppi. Del resto proprio da questa esperienza è nata la FLM, la sola organizzazione sindacale unitaria nata dalle pretiche condivise dei lavoratori e non da una pur nobile iniziativa dal basso come era stata la Cgil unitaria del 1944. Paolo Ferrero indica un’ipotesi su cui varrà la pena di tornare. I CdF spesso investiti anche da temi e problemi riguardanti i territori (pendolarismo, scuola, casa, salute) hanno rappresentato per più di un decennio una istanza più che sindacale, un’articolazione di base e decisa dal basso di una sovranità capace di dialogare e di imporre i propri temi alle forme di rappresentanza istituzionale, ai parlamenti e ai governi. Senza eccedere nelle analogie che non terrebbero conto del contesto di crisi generale che investe l’Europa durante e dopo la Grande guerra, il movimento dei consigli che nella rivoluzione russa venne contrapposto a possibili governi democraticamente eletti avrebbe potuto, sviluppando le posizioni di Rosa Luxemburg, rappresentare un’articolazione democratica dal basso di un potere condiviso: ipotesi liquidata da tragedie e repressioni a Oriente come a Occidente. In Italia questo problema di una legittimazione socialmente più ampia del potere si ripresentò allora, in questa interpretazione, e rappresenta un patrimonio politico su cui riflettere per dare contenuti alla nostra critica del presente.
Quanto alla pratica della violenza fino alla lotta armata che il volume denuncia come sovrapposizione politicista al movimento, al pari del compromesso storico, si comincia solo da poco a porre come problema storico un fatto che distingue l’Italia da altri paesi europei. I grandi movimenti rivendicativi della fine degli anni ’60 hanno riguardato tutto il mondo industriale (e il volume ha anche il merito di ricordare le lotte operaie in Polonia e il movimento consigliare in Cecoslovacchia come momenti di questa grande ondata) ma solo in Italia la lotta armata è stata una pratica certo minoritaria ma presente soprattutto nelle fabbriche, a differenza della Rote Armee Fraktion o di Action directe per citare gli esempi più rilevanti. Ma sono fenomeni per lo meno amplificati nel contesto delle sconfitte che questo movimento comincia a subire dopo il ’73 e giustamente il volume vi fa solo cenno.
Tanti altri aspetti sarebbero da citare: il ricorso alle testimonianze, la ricostruzione del lungo lavoro organizzativo che ha reso possibile l’emergere della spontaneità, la valorizzazione del lavoro di base di militanti dello Psiup torinese (ricordiamo, per tutti, il nome di Pino Ferraris) spesso trascurato in una valutazione superficiale delle vicende di quel partito.
Le conclusioni meritano anch’esse una citazione perché rappresentano il momento che potrebbe suscitare una discussione più serrata. Ferrero ricorda quanto la condizione dei lavoratori di oggi sia simile a quella precedente l’autunno caldo: bassi salari, ostacoli e intimidazione posti alla sindacalizzazione, nocività e pressoché quotidiani incidenti anche mortali sul lavoro. E’ di questi giorni – dicembre 2019 – la causa promossa dalla Cgil alla multinazionale di cibo a domicilio Deliveroo per l’uso di un algoritmo che discrimina i riders assenti dal lavoro per infortuni, malattie o adesione a organizzazioni sindacali… Ferrero rievoca però anche un’altra analogia, che cita direttamente le testimonianze dei protagonisti: allora il lavoratore era solo, nella grande fabbrica, isolato dai compagni per la paura, la concorrenza, la subalternità. Il volume suggerisce quindi che anche oggi un lavoro capillare di tessitura di esperienza di lotta potrebbe contribuire a superare quella solitudine e quella paura. Si potrebbe obbiettare che i processi che abbiamo visto in atto negli ultimi due decenni – smantellamento delle grandi imprese, cessioni di rami d’impresa ed esternalizzazioni, delocalizzazioni – erano anche destinate a distruggere i luoghi fisici in cui si era accumulata la massa critica di antagonismo che aveva permesso tante conquiste. Ma – nel ricordo, ad esempio, della straordinaria esperienza italiana di organizzazione di lavoratori precari, non qualificati e ricattabili, i braccianti della Federterra contro cui si scatenò l’odio di classe del fascismo – vale comunque la pena di mettere questo suggerimento all’ordine del giorno.
Maria G. Meriggi, dicembre 2019
[1] 1969: quando gli operai hanno rovesciato il mondo. Sull’attualità dell’autunno caldo, Roma, DeriveApprodi 2019.
[2] Si veda, a titolo di esempio, il volume che raccoglie articoli e testimonianze del segretario confederale e socialista Piero Boni a cura di Simone Neri Serneri, Memorie di una generazione.Piero Boni dalle brigate Matteotti alla Cgil (1943-1977), Bari, Lacaita 2001.
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