La svolta gentile delle sardine tra Politica e Costituzione

La svolta gentile delle sardine tra Politica e Costituzione

di Paolo Ciofi*

 L’umore della piazza e lo stato della politica

Le sardine a piazza San Giovanni. C’è molto da riflettere – e anche molto fa da fare – dopo la grandiosa manifestazione di Roma, una delle più numerose e intense a memoria di chi, come me, dagli anni 70 in poi ha sempre partecipato in quella piazza alle manifestazioni per il lavoro, per la democrazia e la libertà. È stata una bella giornata non solo perché splendeva il sole. Soprattutto perché si avvertiva un sentimento di ritrovata solidarietà, la soddisfazione dello stare insieme tra tante persone e tra tanti volti diversi, sorridenti e consapevoli, di giovani, di donne, di anziani, di intere famiglie in cui non mancava l’ironia scanzonata dei romani. Tutti impegnati con i loro cartelli, con le loro parole e con motivazioni spesso diverse in una comune e giusta causa democratica: l’opposizione senza sconti alla destra-destra di Salvini che semina odio, esclusione, una vera e propria guerra tra poveri.

         Contro quella che gli inventori delle sardine chiamano «retorica populista», contro il razzismo e ogni atto di violenza squadrista digitale e materiale, la risposta è stata imponente: forse la più grande manifestazione di massa a Roma dopo quella del Circo Massimo nel 2002. È un dato di fatto del tutto nuovo da cui muovere, in controtendenza rispetto allo stato di cose in cui viviamo, che genera passività, malessere diffuso, impoverimento crescente. Dunque, in primo luogo, eliminiamo il non detto della comunicazione mainstream e portiamo la realtà pienamente alla luce: la bella e gremita piazza San Giovanni del 14 dicembre è la fotografia impietosa del fallimento delle classi dirigenti di governo (dalla destra berlusconiana al Pd-Pds fino a Salvini e Di Maio), e anche degli errori della sinistra comunque configurata. Separando la politica dal conflitto sociale, privatizzandola e riducendola nel migliore dei casi a gestione personale o di gruppo, e comunque a braccio armato del potere economico come bene mettono in luce le inchieste sui soldi della Lega e di Renzi, l’effetto è stato l’aumento insopportabile delle disuguaglianze, l’autoreferenzialità istituzionale e il declino inesorabile del Paese.

         Molti si domandano, con serietà ma anche con malizia, che fine faranno le sardine. Altri impartiscono loro severe (e talora settarie) lezioni. Tra i politici prevalgono apprezzamenti, complimenti, vezzeggiamenti. C’è stato anche chi ha gridato «L’Italia s’è desta!», dopo averla sedata e sbertucciata quand’era al governo. Non sembra però che si voglia rispondere alla vera domanda che dopo piazza San Giovanni è diventata stringente: saprà la politica, sapranno i partiti rinnovarsi e portarsi all’altezza della sfida che da quella piazza come da tante altre piazze d’Italia è emersa con forza? E che, senza rancore e senza violenza, chiede trasparenza e partecipazione, inclusione, priorità del bene pubblico rispetto all’interesse privato.

 

La scelta della Costituzione

Costituzione. Il 14 dicembre è risuonata alta questa parola, oggi deformata dalla richiesta della cosiddetta autonomia differenziata, e in generale troppo spesso dimenticata dal ceto politico nonostante il referendum del dicembre 2016 abbia bocciato sonoramente chi voleva storpiarla. Si va in piazza – dicono le sardine – in nome dei «valori antifascisti e costituzionali». Avere assunto come punto di riferimento la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro, e battersi per la sua attuazione, è il dato politico più rilevante, e più ignorato da tanti solerti commentatori, emerso da piazza San Giovanni. Una questione di fondo, che va ben al di là delle contingenze tattiche e anche della formazione dei governi, perché propone il tema della natura della democrazia e del ruolo dello Stato, e quindi della funzione della politica e della conformazione dei partiti.

         Sforziamoci di usare le parole giuste, e dunque parliamo non di democrazia in astratto, ma di democrazia costituzionale. Vale a dire di «una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», in cui «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Un progetto di nuova società nella quale – ricordiamolo – «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Per cui, se ci domandiamo cosa vuol dire dare attuazione alla Costituzione, la risposta è semplice: occorre farsi carico della condizione materiale, ambientale e spirituale in cui vivono le donne e gli uomini del nostro tempo. E quindi di dare corso alla libertà e all’uguaglianza sostanziale.

In modo da rimuovere – come recita la seconda parte dell’articolo tre letto ad alta voce insieme ad altri articoli a piazza San Giovanni – «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». In questa fase di continuo rivoluzionamento scientifico e tecnologico, e dunque del modo di lavorare e di vivere, il nodo che si presenta in tutta la sua complessità e cogenza è esattamente questo: il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, dell’economia e della società.

 

La vita reale, la libertà e l’uguaglianza sostanziale

Oggi, nelle condizioni determinate dalla globalizzazione del capitale, il lavoro si svolge sotto il segno della precarietà, della disoccupazione, dei bassi salari. Mentre le lavoratrici e i lavoratori, resi nell’insieme culturalmente subalterni e politicamente impotenti in un sistema politico monoclasse, sono stati privati di un’autonoma e libera organizzazione politica, e posti alla mercé del demagogo di turno. Questa è la realtà con la quale fare i conti, sebbene accuratamente mascherata dai più sofisticati analisti del particolare apparente e dalle baggianate di chi si dichiara né di sinistra né di destra.

Alcuni dati, riportati anche da la Repubblica del 4 dicembre, sono impressionanti. Negli ultimi 10 anni gli investimenti fissi sono diminuiti del 15 per cento mentre i profitti sono cresciuti dell’84 per cento.  D’altra parte, in 25 anni i salari medi dell’industria sono aumentati di 500 euro, mentre quelli del pubblico impiego, commercio e turismo sono diminuiti notevolmente. Un caso emblematico del rapporto capitale-lavoro è quello recentissimo della banca Unicredit: 5 miliardi di utili da incassare e 8 miliardi di dividendi di distribuire a fronte di 8 mila posti di lavoro da tagliare.

La subalternità del lavoro, al contrario di ciò che stabilisce la Costituzione, è testimoniata dall’ interminabile sequenza degli “esuberi” e dalle 160 vertenze aziendali che in Italia non trovano sbocco. Tra il 2008 e il 2015 vi è stata una riduzione della produzione industriale del 28 per cento e 134 mila imprese sono sparite tra il 2008 e il 2013. Dentro questo contesto l’espansione della povertà ha compiuto un vero e proprio salto quantitativo: da 8 milioni di persone nel 2008 a oltre 14 nel 2017, di cui 5 milioni in povertà assoluta secondo i dati Istat. La causa principale della povertà è, naturalmente, la disoccupazione e la precarietà del lavoro. Ricordiamoci che nell’ultimo decennio 816 mila italiani soprattutto giovani sono emigrati, 117 mila solo nel 2018.

Uno stato delle cose in contrasto radicale con i principi costituzionali, secondo cui «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (articolo 4), indicando così l’obiettivo della piena occupazione. Non solo: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35). Ciò che implica una svolta di 180 gradi nelle scelte della politica economica e sociale praticata in questi anni, e una visione della società alternativa a quella imposta dal pensiero unico dominante. Se la politica non si misura con le condizioni reali in cui vivono milioni di uomini e donne nell’ Italia di oggi, le destre saranno vincenti.

A mio parere l’errore più grave compiuto dalle sinistre dopo l’89 consiste nell’avere abbandonato il terreno di lotta per l’attuazione dei principi e dei diritti costituzionali. In particolare per ciò che riguarda i diritti sociali e i rapporti economici fissati nel titolo III della Carta. Laddove, in coerenza con i principi fondamentali, che non sono ordinati alla finalità del massimo profitto bensì al diritto al lavoro e quindi all’elevamento della persona umana, si fissano le condizioni economiche che rendono possibile l’esercizio concreto dei diritti. A cominciare dalla proprietà dei mezzi produzione e di comunicazione, che «è pubblica o privata». E della quale è necessario stabilire «i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42).

Una visione secondo cui il lavoro non è fatica, non è oppressione, non è sfruttamento degli esseri umani da parte di altri esseri umani per l’estrazione di profitti e rendite, bensì è un fattore costitutivo della personalità, nell’interazione permanente con l’ambiente naturale. Quindi, è una conquista di libertà nella conservazione e nella tutela della natura. Dovrebbe essere ormai chiaro che se una persona è disoccupata o precaria, e perciò non è padrona del proprio destino al punto da dover abbandonare la propria terra, questa persona è lacerata nella sua libertà. Come pure dovrebbe essere chiaro che la distruzione della natura prima di tutto offende la libertà degli sfruttati, per poi mettere in forse la vita stessa.

 

Le sardine e la rappresentanza del lavoro

Dall’esperienza di questi anni emergono due dati di cui prendere atto. In primo luogo, che il connubio tra economia di mercato e democrazia liberale, invece di esondare benessere a cascata per tutti come annunciato dai suoi cantori, ha prodotto invece una crisi organica del sistema. In secondo luogo, che la Costituzione, la quale fonda la Repubblica non su quel connubio ma sul lavoro, non si può attuare in assenza di un partito che faccia asse sulle lavoratrici e sui lavoratori del nostro tempo. Questo è il nodo che bisogna sciogliere quando si afferma che l’obiettivo per cui lottare è l’attuazione della Costituzione.

Da qui non si sfugge. Il partito politico nel nostro ordinamento è il tramite imprescindibile tra società e istituzioni. E senza partiti che svolgano tale funzione la democrazia costituzionale involve e degrada. L’articolo 49 è molto chiaro: solo associandosi liberamente in partiti si può «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Il problema dunque è più che mai aperto.

Come si può dare vita a un partito in grado di raccogliere le istanze oggi fatte proprie dalle sardine? E come possono le sardine concorrere a costruire un partito che proponga l’alternativa costituzionale coprendo il vuoto politico che minaccia la nostra democrazia? Come unificare, quindi, le lavoratrici e i lavoratori oggi divisi e in competizione tra loro? L’idea di considerare quelli che votano Lega non nemici da odiare ma sfruttati e oppressi con i quali cercare un terreno comune di lotta è l’idea giusta da praticare. Forse un confronto e una convergenza non effimeri tra il movimento delle sardine e il mondo del lavoro sul terreno della lotta per l’attuazione dei principi e dei diritti costituzionali può aprire davvero una pagina nuova.

* associazione Futura Umanità

Segnaliamo anche l’articolo della giornalista ed ex-parlamentare Gue-Ngl Barbara Spinelli: Sardine, cosa non va nel programma

 

 

 


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