Dall’autonomia all’autonomia

Dall’autonomia all’autonomia

Loredana Fraleone*

In una recente intervista sul Corriere della Sera, Luigi Berlinguer ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000, autore dei regolamenti dell’autonomia per il settore dell’istruzione e del primo tentativo di gerarchizzare la categoria degli insegnanti, attraverso un concorso, ha rivendicato la giustezza di quella scelta in nome di una meritocrazia che migliorerebbe la qualità della scuola italiana.

Abbiamo sempre contestato quella visione “statica” della professione docente, perché limitata alla fotografia dell’esistente, con aumenti salariali consistenti ai più “bravi” e quindi inefficace sulla qualità dell’insegnamento proprio di chi dovrebbe migliorare e ancor più perché avversa a quel lavoro cooperativo, che ha prodotto il meglio della scuola italiana, soprattutto dove si è potuto strutturare con l’organizzazione necessaria a renderlo efficace, come nella scuola a tempo pieno.

Il “concorsaccio”, come fu giustamente chiamato, fu rimandato al mittente da una straordinaria mobilitazione della gran parte della categoria docente, colpita nella dignità e nello spirito paritario ancora molto forte in quella fase.

Solo il PRC si oppose in Parlamento ai provvedimenti disastrosi del ministro Berlinguer, che ha aperto tutti i varchi possibili all’aziendalizzazione della scuola, alla sua progressiva perdita di risorse e alla continua crescita dei finanziamenti alle scuole private, dopo l’indecente legge di parità.

Nessun ripensamento, tanto meno autocritica, da parte di chi, ribadendo le scelte di allora, non si pone neanche il problema della necessità di una verifica dei mutamenti intervenuti nella scuola dall’apertura di quei varchi.

Luigi Berlinguer si accorge oggi della deriva autonomistica del regionalismo differenziato, dichiarandosi contrario, ma distinguendo l’autonomia delle scuole da quella delle regioni, senza coglierne il nesso profondo. I suoi tre regolamenti sull’autonomia, in applicazione della riforma Bassanini, non erano affatto funzionali, come ancora oggi dichiara, ad un adattamento alle differenze territoriali, sociali e culturali, di cui non vi era alcun bisogno, dal momento che esisteva già quell’adattamento messo in atto dalle scuole attraverso il cosiddetto PEI (progetto educativo d’istituto).

I regolamenti sull’autonomia intervenivano invece su quote di orario gestibili dalle scuole in modo “differenziato”, sulla possibilità di ricevere finanziamenti privati non alla portata di tutti e non disinteressati, sul dimensionamento scolastico, che ha prodotto la soppressione di una gran quantità di sedi, con la creazione di mega istituti gestiti da dirigenti manager sempre meno coinvolti in funzioni di coordinamento didattico.

Un malinteso significato dell’autonomia come maggiore vicinanza alle esigenze della popolazione di determinati territori, fu accolta da molti, anche a sinistra, come un cambiamento positivo, in cui venne confusa la “differenziazione” tra scuole dotate di una maggiore flessibilità economica, con una flessibilità nell’organizzazione del lavoro, reso invece sempre più rigido da un peso burocratico che oggi riduce al minimo l’attività formativa vera e propria da parte degli insegnanti.

La parola autonomia è nel senso comune associata al concetto di indipendenza, quindi di libertà, risulta perciò come una condizione da ricercare e raggiungere. In realtà rispetto alle istituzioni, da quelle scolastiche alle regioni, l’autonomia viene intesa come “autosufficienza”, cioè la capacità di vivere delle proprie risorse, per cui le scuole possono rispondere ai tagli con l’aumento del cosiddetto “contributo volontario” delle famiglie, i comuni con l’aumento delle tasse locali, la sanità con i ticket e così via.

E’ evidente come dietro questa autonomia sia del tutto assente qualsiasi principio di equità e solidarietà, che caratterizzano l’esistenza di uno stato, è evidente come un gettito fiscale gestito direttamente dalle regioni per sé stesse crei inevitabilmente opportunità diverse a seconda che si nasca in Calabria piuttosto che in Veneto. Il “fai da te” che si applichi a una singola scuola o a un’intera regione aumenta lo svantaggio sociale e rompe la Repubblica costituzionale. Il lungo percorso dell’autonomia avviato dal centrosinistra e portato fino all’estreme conseguenze dalla Lega, non è stato lastricato da buone intenzioni, ma da una subalternità ad un sistema capitalistico che in questa fase guarda solo ai più forti, che siano persone, che siano territori.

In questi giorni si è aperto finalmente un dibattito sull’autonomia regionale differenziata e in particolare sulla scuola, considerata il cemento principale della Repubblica, anche se sarebbero incalcolabili i danni che cadrebbero sui beni culturali, sull’ambiente, sulla sanità e quant’altro.

Il pericolo al momento è anche che alcune competenze, richieste da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, vengano lasciate, per il momento, allo Stato, per dimostrare una sorta di mediazione con le posizioni meno spinte, alzando una cortina fumogena su ciò che s’incasserebbe (moltissimo) se si pensa agli aspetti organizzativi e culturali che incardinerebbero il sistema scolastico alle regioni.

Il risultato più importante di chi si oppone a tutto questo è per il momento l’apertura di un dibattito pubblico, a fronte dell’occultamento del problema messo in atto dal centrosinistra prima e dal governo attuale poi, ma ancora manca un’informazione puntuale di massa, che solo comitati territoriali diffusi su tutto il paese possono produrre, insieme ad iniziative dimostrative e con la prospettiva di una grande manifestazione nazionale. Speriamo e operiamo per un rallentamento dei provvedimenti della devoluzione, siamo quasi ad agosto, ma questa è una priorità assoluta.

 

*Responsabile Scuola Università Ricerca PRC/SE


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