Il lascito rivoluzionario di Àgnes Heller

Il lascito rivoluzionario di Àgnes Heller

Rino Malinconico

Parleranno di Àgnes Heller, ora che non è più tra noi, come di un punto fermo della filosofia del Novecento. Ma pochi la ricorderanno per ciò che effettivamente è stata: un riferimento fondamentale della critica al capitalismo e della innovazione dell’ideale del comunismo maturati nella temperie del Sessantotto e nell’insieme degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. D’altronde, il Sessantotto fu un anno straordinario anche nell’Europa orientale, come dimostrarono non solo la primavera cecoslovacca ma anche le agitazioni studentesche di Varsavia, Berlino est, Sarajevo e Zagabria. L’Ungheria visse quell’anno e i successivi meno intensamente, come una eco lontana. E però proprio in quel paese, da oltre un decennio immerso nel lutto e nel silenzio, prese forma l’elaborazione più organica del marxismo nuovo proposto da quelle irripetibili circostanze storiche. Il nome cui resta legata tale elaborazione è proprio quello di Àgnes Heller, che è stata l’esponente più noto della cosiddetta Scuola di Budapest, un insieme di intellettuali (oltre la Heller, Gyorgy e Maria Marcus, Ferenc Fehér, Mihály Vajda, András Hegedűs, Sándor Radnóti, György Bence, János Kiss, Maria Ludassy) che scrissero ed agirono a partire dal 1961, assumendo, benché criticamente, l’ontologia dialettica di  Lukács come principale riferimento teorico.[1]

Quando il gruppo si costituì, la Heller aveva già conosciuto la durezza del regime e subìto l’espulsione (nel 1959) dal partito comunista e dall’università per aver sostenuto le “idee false e revisioniste” di Lukács. Riabilitata parzialmente nel 1963, poté lavorare diversi anni come ricercatrice all’Accademia delle scienze; ma dopo il 1968, in seguito alla protesta collettiva per l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, fu definitivamente emarginata dalla vita politica e culturale. Nel 1972 si chiudeva anche il suo rapporto con l’Accademia.

In quell’anno 1972, le figure più conosciute della “Scuola di Budapest” vennero formalmente accusate di rappresentare una tendenza teorica e politica favorevole al pluralismo ideologico e culturale, e perciò ostile alla funzione di direzione del partito comunista. Heller e gli altri erano colpevoli soprattutto di aver negato la “realtà socialista” dell’Ungheria e degli altri paesi usciti dalla rivoluzione d’ottobre. L’imputazione, in sostanza, era di professare una concezione relativistica del marxismo e della scienza, per cui sarebbero stati possibili vari tipi di marxismo e non avrebbe avuto validità la concezione del sapere come puro “rispecchiamento” del mondo oggettivo.

Erano accuse abbastanza fondate poiché, per quel gruppo di teorici, anche la questione della “verità” andava ricompresa, marxianamente (e lukácsianamente), nell’azione creatrice della prassi umana: risolta, cioè, all’interno di un percorso storico concreto. Il loro sforzo fu di ri-affermare la determinatezza dell’essere sociale in contrapposizione alla logica delle cosiddette “leggi generali”, la qual cosa li portò a scontrarsi non solo col comunismo ufficiale di derivazione staliniana (che presupponeva, appunto, delle “leggi generali” sopra lo svolgimento determinato dell’essere sociale storico), ma anche contro lo strutturalismo e le letture sociologiche dello stesso marxismo.

Di fatto, uno dei libri più importanti della Heller, e cioè La teoria dei bisogni in Marx, ripigliò molto dell’impostazione di Storia e coscienza di classe.[2] E però con una differenza rilevante: Lukács riannodava attraverso l’organizzazione, e concretamente attraverso il partito, la distanza obiettiva tra la coscienza tradunionista del lavoro (che si genera spontaneamente nel singolo proletario, come “coscienza empirica” del proprio specifico interesse particolare) e la coscienza realmente rivoluzionaria della estraneazione sociale (che matura solo nel proletariato come classe, come “coscienza enorme”, per dirla con Marx, della propria possibile funzione storica); di contro, la Heller sosteneva che una tale impostazione reintroduceva nel socialismo il vecchio dualismo di bourgeois e citoyen, e suggeriva di superarla accentuando la dimensione attivistica della prassi. Anzi, il passaggio dalla necessità alla libertà, dall’agire conservativo degli interessi immediati all’agire radicale dei bisogni comunisti, andrebbe concepito essenzialmente come “valore utopico”, come un “dover essere” che unicamente nella prassi riuscirebbe a venire alla luce, ovviamente nei limiti del possibile storico. Il comunismo viene così a configurarsi, nella versione della Heller, costitutivamente aperto. Proprio alla maniera di Marx: come il movimento (continuo) che abolisce lo stato di cose presenti. Non come un’ideale astratto da attuare.

In breve, negli anni ’60 e ’70 la ricerca specifica della Heller fu tutta indirizzata alla costruzione di un’antropologia marxista. Il punto di partenza lo trovò nell’uomo “ricco di bisogni” di cui aveva parlato Marx nei Grundrisse, ovvero la ricchezza di bisogni obiettivamente possibile nel comunismo (sulla base dello sviluppo medesimo del capitalismo) contrapposta alla paradossale e assoluta povertà dei bisogni nell’uomo dell’economia politica, nell’essere umano della società borghese. E non è necessario spendere molte parole per evidenziare la strettissima assonanza tra questo programma di ricerca teorica e la pratica rivoluzionaria dei movimenti studenteschi tedeschi, francesi, italiani e americani. È la stessa Heller a confermarlo:

 

Pur non avendovi potuto assistere direttamente – conobbi tuttavia personalmente a Budapest Rudi Dutschke e altri membri dell’SDS (l’associazione studentesca di Berlino) in occasione della loro visita a Luckács – nel 1968 condivisi in pieno i movimenti studenteschi americano e francese, la rivolta giovanile e lo sciopero generale in Francia. Era proprio il movimento che aspettavo, per dirla in termini un po’ egocentrici: fu la conferma dei miei ideali e aspirazioni teoriche. Allora avevo terminato il libro sulla vita quotidiana, ed ero giunta alla conclusione che presupposto di un’autentica società socialista avrebbe dovuto essere la trasformazione delle forme di vita, la creazione di nuove comunità. E proprio allora ci fu un movimento di estensione mondiale che incarnava le stesse aspirazioni. Quei giovani si accingevano a realizzare nuove forme di vita. Erano l’utopia “materializzata”. Lo slogan della rivolta francese: “siamo realisti, tentiamo l’impossibile”, mi commosse fino alle lacrime. Finalmente si trattava dell’espressione non più di una dialettica negativa, bensì positiva. I movimenti di rivolta non si limitarono ad articolare la negazione totale del mondo dell’oppressione, della gerarchia, dell’egoismo e dell’individualismo, bensì costituirono l’ideale del nuovo: un futuro degno dell’uomo. Non ero certo d’accordo con tutto ciò che avveniva in questo o in quel movimento giovanile, ciò nonostante nell’insieme lo ritenevo un inconfutabile segno dell’emergere di un nuovo concetto e di una nuova prassi della rivoluzione, che non si doveva più identificare con l’accezione politico-giacobina nel senso stretto della parola, ma doveva intendersi piuttosto come rivoluzione della società civile, delle forme di vita. Ancora oggi sono di questo parere.[3]

 

La rivoluzione delle forme di vita è un concetto abbastanza inedito nella teoria marxista, benché prima della Heller ne avesse diffusamente parlato quel grande, eclettico rivoluzionario e pensatore (nel senso migliore del termine) che è stato Henri Lefebvre. Nel suo noto libro del 1947, poi più volte accresciuto, Lefebvre proponeva una critica fenomenologica della vita quotidiana, incentrata sulla funzione alienante dell’abitudine e sulla desertificazione spirituale della banalità, e chiamava i rivoluzionari marxisti a cimentarsi prioritariamente con tale questione: “Qual è il fine? È la trasformazione della vita sin nel dettaglio, sin nella quotidianità. Il mondo è l’avvenire dell’uomo perché l’uomo è il creatore di questo «mondo». Ed il problema non è soltanto di… formare un nuovo tipo d’uomini o di stabilire nuovi rapporti generali tra gli uomini. Questi non sono ancora che dei mezzi. Il fine, lo scopo, è di fare intervenire il pensiero, la potenza dell’uomo, la partecipazione a questa potenza e la coscienza di questa potenza, nell’umile dettaglio della vita. Lo scopo, più ambizioso, più difficile, più lontano che i mezzi, è quello di cambiare la vita, di ricreare lucidamente la vita quotidiana.”[4]

Ma mentre per Lefebvre il cambiamento della vita quotidiana si poneva come un “compito”, benché essenziale, della rivoluzione comunista, per la Heller la rivoluzione, per esser davvero tale, avrebbe dovuto costituirsi, fin dall’inizio, esattamente come rivoluzione della vita quotidiana. E potrebbe farlo, e anzi, per Heller sarà spinta linearmente a farlo, perché al fondo della dialettica sociale c’è sempre l’agire ricompositivo dei “bisogni umani”. La teoria dei bisogni è così la chiave di volta che ha portato la Heller, e l’intero Sessantotto, al concetto e alla prassi della “rivoluzione totale”.

Il punto di partenza è dato dalla stessa realtà borghese, in quanto concretamente costruita su un “sistema di bisogni”. Ma il sistema borghese dei bisogni, sottolineava Heller, si muove in un ambito puramente quantitativo, col bisogno che si collega in partenza al consumo. Si tratta, in sostanza, del bisogno abitudinario dei singoli (e dell’insieme) di permanere nella propria singolarità e nello specifico universo relazionale che si ha davanti. In tale maniera prende consistenza soltanto il “ritorno identico” dei destini, in una condizione di dipendenza e povertà spirituale. Così il bisogno viene sì alla luce nella società borghese, ma non si collega ad una autodeterminazione positiva, ovvero al passaggio dal “singolo” all’“individuo”, all’essere umano effettivamente pieno di umanità, o comunque proteso alla pienezza di umanità. Il superamento della società borghese consiste proprio nel determinarsi di un sistema in cui il bisogno viene alimentato non dal consumo ma dalla “ricchezza di bisogni”, cioè dalla interezza di umanità dell’essere umano.

Detto in altre parole, la Heller prospettava il passaggio da un sistema che si muove quantitativamente, attraverso la produzione artificiale del bisogno e il consumismo che ne deriva, ad un sistema che si muove qualitativamente, incentrato sull’emancipazione dal bisogno naturale e di conseguenza sulla ricchezza umana dei bisogni. E qui che si colloca il tema dei “bisogni radicali”. Chiarito, con Marx, che “essere radicali significa cogliere le cose alla radice”, che “la radice dell’uomo è l’uomo stesso” e che “una rivoluzione radicale non può essere che la rivoluzione dei bisogni radicali”, la Heller sottolineava non solo che il bisogno radicale era null’altro che “il bisogno di universalità” da parte dell’uomo, ma come fosse proprio un tale bisogno a caratterizzare le spinte di emancipazione dell’età moderna.

È questo il lascito fondamentale della Heller per noi comunisti, un lascito che la grande filosofa ha precisato ulteriormente negli anni dell’espatrio, congiungendolo al concetto di “etica trasformatrice”. A fronte della tesi – formulata dallo stesso Engels e divenuta senso comune soprattutto nel Novecento – che indicava tutti i valori morali come un puro rispecchiamento degli interessi di classe (sicché anche Lenin arrivò ad identificare il bene con “ciò che è utile al proletariato”), Àgnes Heller opportunamente sottolineava come tale teoria fosse null’altro che “una pura applicazione alle classi sociali delle teorie borghesi dell’egoismo”. L’identificazione del buono con l’utile significa, in sostanza, che “tutto è permesso, e che invece del socialismo prepariamo il dispotismo e la nuova barbarie”.[5]

Sono perciò due i caposaldi della concezione di Marx, a proposito dell’etica rivoluzionaria, che Heller proponeva di recuperare: da un lato, il principio della “immanenza” (nel senso, sì, della radicale immanenza delle alternative che si pongono continuamente all’uomo, ma anche in riferimento alla immanente capacità dell’essere umano di fronteggiare tali alternative);[6] dall’altro lato, la relativa autonomia dell’attività umana (nel senso che esistono sempre delle condizioni alternative, e di conseguenza la possibilità, per l’uomo, di operare una scelta). Detto in breve, Marx ha costantemente scritto contro coloro che volevano sostituire le nozioni di capitalisti e operai con quelle di male e bene, e contro ogni tentativo di caratterizzare la società dell’avvenire mediante nozioni morali. E anzi, considerava come priva di senso la credenza nella onnipotenza dell’educazione morale. Ma ciò non significa, affatto, che egli negasse i valori o l’accumulazione di valori. Avvertiva semplicemente che i valori sociali e antropologici accumulati si esplicano normalmente nei costumi, o anche nella moralità storicamente data, ma non sono, per se stessi, veramente “morali”.

Più in generale, sottolineava Heller, non è sul piano della mera motivazione, né della sua coerenza, che si costituisce la densità morale dell’esistenza, bensì nel fatto che si abbracci una causa della quale ci si ritiene responsabili. In sostanza, “quasi tutte le azioni umane hanno un contenuto morale ma non ce n’è alcuna che sia puramente etica. I costumi indicano il rapporto oggettivo esistente tra l’individuo e il suo appartenere al genere… nonché il livello a cui tale rapporto si situa… I costumi fanno ugualmente apparire la saggezza morale… essi provano in pari tempo la forza, la perseveranza, la solidità del carattere”. E però i costumi portano con sé anche una spontanea dinamica di alienazione, che si forma non soltanto per le costrizioni che essi impongono dall’alto all’individuo singolo, ma anche per il loro obbiettivo spingere alla assunzione unilaterale ed esaustiva, da parte del singolo, degli interessi concreti della propria classe sociale di appartenenza:

 

Quando essi appaiono come una sfera isolata, si tratta di costumi alienati e le loro esigenze si oppongono in modo rigido ai casi particolari. La morale schiaccia l’individuo anche se questi l’accetta altrettanto volentieri quanto l’esistenza del diritto e dello Stato… Ma i costumi sono del pari alienati quando – e nella misura in cui – gli interessi di un’entità, e soprattutto di una classe, diventano un postulato “morale” dell’individuo che appartiene a quella classe. Il movimento comunista deve condurre alla scomparsa di questo determinismo di classe. La motivazione generica della scelta morale deve distaccarsi dagli interessi di uno strato sociale e divenire una derivazione immediata dell’umanità, dell’essenza del genere umano.[7]

 

Siamo dunque al nocciolo della questione. La rivoluzione del nostro tempo, del tempo dell’abbondanza astratta e del general intellect, può configurarsi davvero, per la prima volta nella storia, come un “espandersi dell’essenza generica”, e cioè come effettiva umanizzazione delle condizioni umane. Al tempo stesso, il superamento della stessa alienazione morale, implica “la conquista di un campo di attività individuale sempre più ampio nel quale, sul piano dei costumi e non della moralità astratta, la scelta è sempre possibile per tutti”.[8]

Richiamo l’attenzione su questa significativa centralità dei costumi concreti, che improvvisamente subentrano, nella idea di rivoluzione che ci propone la Heller, alla semplice morale. Se il “genere umano” non farà davvero capolino nella quotidianità degli individui, ma continuerà ad esistere solamente in una prassi speciale (e specialistica) – nella politica, nella rivoluzione, nella militanza, nel partito, eccetera –, allora la rivoluzione dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità avrà fallito. Si potrà certamente prendere il potere e dar corpo a determinate misure sociali; ma se l’azione rivoluzionaria non è fin dall’inizio attraversata dalla etica e dalla logica della “umanità”, non si potrà mai realizzare un mondo davvero nuovo, libero da oppressioni e alienazioni. Con l’avvertenza, però, che l’etica trasformatrice o vive come prassi concreta, o semplicemente non è. Non può ridursi, cioè, a semplice proclama; e, soprattutto, non esiste se non potrà realizzarsi in un modo o in una forma qualsiasi:

 

L’etica marxista non può essere altro che l’ideazione morale del movimento che la umanizza e che, al di là dello stesso movimento, umanizza l’umanità. Perciò l’etica marxista non dipende dalla conoscenza, dall’applicazione dei testi marxisti, ma dallo sviluppo di un movimento che abbia per morale proprio questa etica… Riassumendo, un movimento può elaborare un’etica quando non si considera come assoluto, quando è scomparsa la coscienza della sua spontaneità, quando, in seno alla comunità, il campo della prassi individuale si è ampliato, e quando questo movimento possiede la scienza, la coscienza di se stesso, ed è in grado di criticarsi.[9]

 

Sono le parole giuste per poter parlare ancora di rivoluzione in questo secolo XXI.

 



[1] Accanto al Lukács di Storia e Coscienza di classe, il fondamentale lavoro del 1923 bollato come deviazionista dal marxismo ufficiale, altri riferimenti significativi furono Karl Korsh e Antonio Gramsci. Il cenacolo poi chiamato “Scuola di Budapest” consisteva in una ventina di intellettuali “marxisti critici” che si riunivano essenzialmente attorno alla Heller e a Fehér, già allievi di Lukács. Il filosofo, deportato in Romania dopo i fatti del 1956, era rientrato in patria nel 1957, senza però essere richiamato all’Università, dove pure era stato reintegrato (dopo la sua esclusione dall’insegnamento del 1949) nella breve stagione di apertura del 1956. Con lui la “Scuola” mantenne un rapporto, non sempre facile, di vicinanza e distinzione per tutto il suo periodo di attività, all’incirca dal 1961 al 1972, anno che vide tutti i membri più noti di quel gruppo informale espulsi dall’Accademia delle Scienze dell’Ungheria con l’accusa di deviazionismo, chi di “destra” e chi di “sinistra”.

[2] Non si deve credere che le tesi della “scuola di Budapest” fossero piattamente lukácsiane. Quei teorici, infatti, si differenziarono dal grande filosofo su molte questioni: dalla dialettica nella natura e dalle tesi sul rispecchiamento, accolte dal Lukács maturo e contestate dalla “scuola”, al carattere a-valutativo e semi-deterministico del progresso storico, che fu, in qualche modo, anche di Lukács, ma non di quei suoi particolarissimi allievi.

[3] Cfr. À. Heller, Morale e Rivoluzione, a cura di L. Boella e A. Vigorelli, Savelli, Roma 1979, pp. 46 – 47. Il libro è una intervista, a distanza, su “etica e politica”, che Laura Boella e Amedeo Vigorelli fecero ad Àgnes Heller tra la primavera e l’estate del 1978. La Heller era riuscita finalmente ad andar via dalla sua Ungheria e si era da poco stabilita in Australia, con un insegnamento all’Università di Bundoora, nello Stato di Victoria.

[4] Cfr. H. Lefebvre, Critica della vita quotidiana, a cura di V. Bonazza, Dedalo, Bari 1977, vol. 1, p. 262. La particolare biografia di Lefebvre – intellettuale e partigiano, marxista antistalinista, espulso dal PCF per aver protestato contro l’invasione russa dell’Ungheria, sostenitore della resistenza algerina, cofondatore assieme a Guy Debord dell’Internazionale Situazionista – lo porterà spontaneamente a simpatizzare per il movimento studentesco, col quale fu peraltro in stretto contatto, essendo egli, nel 1968, docente di Sociologia proprio all’università di Nanterre, che fu la culla della ribellione studentesca in Francia.

[5] Cfr. À. Heller, Morale e rivoluzione, cit., p. 83

[6] La teoria dell’immanenza morale implica, con tutta evidenza, la presa di coscienza del carattere terreno della vita e dell’autocreazione continua della realtà che viviamo. Non a caso, chiosa la Heller: “Questo è, a mio parere, il punto di divergenza tra l’etica marxista e ogni etica religiosa, indipendentemente dal fatto che entrambe possono pervenire a conclusioni del tutto diverse, o simili, o anche identiche, nell’apprezzamento di certi valori”. Cfr. À. Heller, Il posto dell’etica nel marxismo, saggio contenuto nel volume collettaneo Marx Vivo (Mondadori, Milano 1969, vol. I, pp. 320 – 321), che raccoglie gli atti del Convegno sul ruolo di Karl Marx nel pensiero scientifico, organizzato nel maggio del 1968 a Parigi, sotto l’egida dell’Unesco, in occasione del 150º anniversario della nascita del grande filosofo e rivoluzionario tedesco.

[7] Cfr. À. Heller, Il posto dell’etica nel marxismo, cit., p. 327.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem, p. 328.


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