Fuoco a Manhattan

Fuoco a Manhattan

Dall’ultimo numero della rivista di Transform-Italia -
di Maria Rosa Cutrufelli -
Caterina Prestifilippo: Ero ancora fresca di nave…
Insomma quel giorno ero un po’ così, ancora sbalordita dalle novità. Non erano passati otto mesi da quando ero sbarcata a New York assieme a mia madre e la parlata, soprattutto quella, mi riusciva difficile. Good morning. Thank you. E qui mi fermavo: la verità è che non ce la facevo a spiccicare una frase per intero. In ogni modo mi reputavo una ragazza fortunata, perché mia sorella Maria stava in America già da cinque anni – era partita prima, con nostro padre – e ogni mattina, mentre attraversavamo la città per andare in fabbrica, m’insegnava una parola nuova.
Lei sì che sapeva parlare! Non era più la sicilianuzza di paese che camminava con gli occhi bassi e tutti ormai, anche in famiglia, la chiamavano Mary… Mary di qua, Mary di là… Era molto graziosa, con una gran massa di capelli neri più lunghi dei miei. E lustri. Talmente lustri che di notte, quando mi coricavo sull’altro lato del materasso, li vedevo luccicare contro il bianco del cuscino: in un certo senso, mi tenevano compagnia.
In fabbrica, bisogna pur dirlo, c’era chi la criticava. Per invidia, naturalmente. Ada, la capo-reparto, una vecchia di trent’anni (così mi pareva, all’epoca), le diceva sempre: “Dammi retta… Se guadagni cinque dollari a settimana, non puoi spenderne due o magari tre per i vestiti”. Perché Maria – a me è sempre venuto spontaneo chiamarla all’antica, col vecchio nome – ecco, Maria ci teneva all’apparenza e si comprava i cappellini più alla moda senza badare al prezzo. E ai rimproveri di Ada rispondeva: “Una ragazza deve essere ben vestita, se va a teatro!” Peggiorando le cose, è ovvio. Infatti Ada sbottava con le sopracciglia alzate: “Un’operaia che va a teatro? Quando mai!”.
Maria però ci andava sul serio: alla Bowery Burlesque, per la precisione, insieme al fidanzato. E il giorno dopo, a fine turno, mentre si rimetteva il cappellino nello spogliatoio, raccontava dello spettacolo e degli attori che aveva visto e le giovani erano tutte dalla sua parte. E io pure, è naturale.
Ero fiera di mia sorella. Tanto più che era stata lei a procurarmi il posto alla Triangle… La fabbrica occupava gli ultimi tre piani di un grattacielo vicino a Washington Square e, per arrivarci, da casa nostra ci voleva all’incirca un’ora, ne avevamo da scarpinare!, ma la distanza non mi spaventava: a quel tempo avevo le gambe buone.
L’edificio era modernissimo, pieno di finestre con i vetri che brillavano e al decimo piano, l’ultimo, stavano gli uffici del padrone. Anzi, dei padroni, perché erano due, come seppi poi, durante il processo. Prima non sapevo niente di niente, nemmeno l’esistenza, per non dire il nome, di questi due signori. Per me, i padroni erano i sorveglianti e le donne che, a fine settimana, ci consegnavano la busta paga.
Che volete, non avevo idea di cosa fosse una fabbrica!
Ricordo che la prima volta, quando il montacarichi mi scaricò al nono piano, il mio, ebbi l’impressione di entrare nella famosa Torre di Babele. Erano davvero tante, le ragazze: polacche, russe, irlandesi, tedesche, italiane del sud e anche del nord. Solo a quel piano, cento, duecento operaie. Forse di più. Ognuna con la propria lingua. Ma tutte cucivano bluse e camicie e lavoravano in uno spazio così stretto che, per manovrare le macchine, dovevano sedersi di sbieco.
Una posizione piuttosto scomoda, come ebbi modo di constatare di persona quando mi ritrovai là in mezzo, incastrata tra una fila e l’altra. Ma che importa: era il mio primo lavoro! Mi sembrava un trionfo essermi assicurata un posto in fabbrica, a quattordici anni e appena scesa dalla nave.
Be’, sì, avevo compiuto da poco i quattordici anni… Però non ero la più giovane. Ce n’era una talmente piccola che, quando arrivavano gli ispettori del municipio, la nascondevano dentro il cestone delle stoffe. Io invece ero costretta a correre fino alle latrine.
Ma torniamo a mia sorella, che quel giorno si alzò dal letto più allegra del solito. In primo luogo perché era sabato e si smontava alle cinque del pomeriggio e poi perché l’indomani si sarebbe sposata Ester, una ragazza del reparto, una che veniva dalla Russia, credo. In ogni caso lei e Maria erano diventate amiche, si scambiavano confidenze durante la mezz’ora di pausa per il pranzo e la domenica, ogni tanto, uscivano assieme.
Dunque Ester si sposava e Maria era più eccitata della sposa, tant’è che per strada, quella mattina, mi stringeva il braccio canticchiando sottovoce. Insomma la giornata si presentava al meglio: mia sorella sorrideva, il sole si faceva largo tra i palazzi… Non potevo certo immaginare il seguito!

Ada Caputo: Lo so che tutte le ragazze – tutte, senza distinzione – mi consideravano una yankee. È il mio destino. Sempre divisa in due: yankee per gli italiani, italiana (‘dago’, dicono per insultarci) quando sto fra gli americani veri al cento per cento.
Io, comunque, sono nata a New York e se in famiglia parlo calabrese è perché mia madre e mio padre erano di lì. Ero molto legata ai miei vecchi, che Dio li abbia in gloria, perciò non rinnego le mie origini. No, assolutamente. E ogni volta che posso cerco di aiutare i nostri compaesani.
Ecco perché giurai il falso pur di dare lavoro a Serafina Grasso, che era dello stesso paese di mia madre.
Povera donna!, la malasorte non si faceva scrupoli, con lei. Era venuta in America per raggiungere il marito ma, qualche mese dopo il suo arrivo, lui era finito sotto un tram. Ubriaco, dissero alla polizia ma io non ci credo. In ogni caso, lasciò la moglie senza un centesimo e con l’aggravio di un figlio che aveva dieci anni, suppergiù. Allora Serafina cominciò a lavorare in una sartoria. Era molto brava, davvero, e insegnò anche al ragazzetto, che si chiamava Tonino, a tagliare i vestiti. Pure lui era portato… Ma poi, durante la stagione dei grandi scioperi – iniziarono a novembre, novembre del 1908, se non ricordo male -, Serafina si mise con i sindacati. Diceva che non era venuta in America per continuare con la schiavitù… Naturalmente fu licenziata e se non fosse stato per me… Insomma, gira e rigira, giurando e spergiurando sulla sua buona condotta, riuscii a far entrare sia lei che Tonino alla Triangle.
Per lavorare, lavorava bene. Con impegno. Però il vizio del sindacato ormai le era entrato nel sangue. E con me non si teneva.
Non che avesse torto, a dirla come va detta. Anzi. Sapendo come sono poi andate le cose…
Per farla breve, non perdeva occasione per sottolineare, in mia presenza, tutto ciò che non le andava a genio. La perquisizione delle borse, per esempio. Veniva fatta ogni sera per evitare che le operaie si portassero via le stoffe, ma lei la considerava un’offesa personale.
Soprattutto non gradiva quel modo di lavorare, con le porte chiuse dall’esterno. “Dimmi tu perché ci devono tenere sottochiave”, brontolava spesso e volentieri. “Neanche fossimo delle detenute! Questa non è una fabbrica, amica mia: è una prigione!”.
A essere sincera, nemmeno a me piaceva quell’usanza che avevano di chiuderci dentro al mattino per liberarci solo a sera. E per questo, forse, mi ero lasciata contagiare un poco dalle idee di Serafina.
Sta di fatto che proprio quel giorno, quel maledetto giorno di marzo, nonostante il venticello tiepido e l’aria già di primavera, mi sentivo particolarmente inquieta. Non so perché, ma avvertivo sottopelle una specie di malessere… Così, tanto per calmarmi, feci un giro di controllo in sala e vidi che gli estintori – in realtà dei semplici secchi, dei recipienti di latta purchessia – erano vuoti. Allora dissi a Sam, l’uomo di fiducia dei padroni: “Guarda qua! Manca l’acqua”. E lui: “Ah, be’. Adesso ho da fare”.
Se, per una volta, mi avesse dato retta!
Però… a ripensarci… No, forse la storia non sarebbe cambiata granché: che potevamo fare con quei quattro secchi?

Sam Wilson: Ma sì. Li conoscevo bene, io, i padroni. E vi assicuro che erano come tutti gli altri, né più né meno.
Il signor Harris, Isaac Harris, era un tipo serio, serissimo, senza mai un sorriso. Aveva un debole per le ragazze e, quando ne adocchiava una di suo gusto, con quella faccia seria le intimava: “Fermati, dopo che hai finito il turno. Dopo il lavoro, hai capito?” Non permetteva che i suoi capricci intralciassero la produzione!
Invece il signor Blanck, Max Blanck, scommetteva alle corse. Quando non aveva tempo, mandava me a fare una puntata in sala giochi. E, a dire la verità, questa cosa non mi disturbava affatto.
Quel giorno, per l’appunto, mi aveva dato i soldi e mi aveva spedito fuori perché puntassi sopra un cavallo che, secondo lui, avrebbe vinto di sicuro. “Un morellino fuori classe!” aveva commentato lisciandosi i baffi. “Vedrai che mi darà una bella soddisfazione”.
Ma non andò così. Il cavallo perse e io tornai indietro alla svelta, perché era sabato e dovevo distribuire le paghe.
Dunque rientro verso le quattro del pomeriggio e chiamo Ada, le consegno la cassetta con le buste del nono piano, poi mi affaccio sul pianerottolo per vedere se sta salendo la capo-reparto dell’ottavo. E a quel punto sento nel naso un odore di strinatura e la mia vista si appanna, come se qualcuno mi avesse soffiato negli occhi uno sbuffo di fumo.
Subito dopo il fumo, si alza un gran vocio…
Sono grida che si allargano e vengono d’ogni dove, ma soffocate, confuse, e rimbombano nel ventre del palazzo. Non so cosa fare, sto lì indeciso, poi muovo qualche passo verso le scale, finché d’un tratto intuisco: fuoco! E’ questo che urlano laggiù in basso: fuoco, fuoco, fuoco!

Caterina Prestifilippo: Ada mi disse: “Ecco la tua busta”. Io la presi, la infilai nel corpetto e in quell’istante… fu allora che scoppiò l’incendio.
Non feci in tempo a gridare ‘aiuto!’ che già la sala avvampava da cima a fondo. Bruciavano le stoffe, bruciava il legno sporco, imbevuto dell’olio che serviva per il macchinario, bruciavano le belle camicette già pronte e impacchettate per i negozi.
Sul momento, dovete credermi, non pensai al pericolo: pensai al mio lavoro, alle tante ore di fatica che se ne andavano in quel modo inutile. Poi una frustata, un colpo di cinghia, schioccò dentro la mia testa e immediatamente corsi in direzione dell’uscita. Correvo io, correvano le mie compagne… Arrivate alla porta, cominciammo a scuoterla e a tentare di forzarla. Trenta, quaranta ragazze, tutte a spingere. Ma la porta non si apriva. Qualcuno gridò: “Prendete una macchina e rompete il vetro! il vetro in cima al portone!” Mi girai: davanti avevo solo fumo e crepitio di fiamme. Ma là in mezzo vidi Ester che era salita sopra un tavolo e, a mani nude, cercava di tenere il fuoco lontano dalla gonna. Scuoteva la veste e rideva… Apriva la bocca e rideva a singhiozzi, con una faccia da manicomio, mentre dietro di lei l’aria esplodeva e si gonfiava, come se dal pavimento qualcuno stesse soffiando in alto le nuvole dell’inferno.
Si sentiva un odore strano che a ogni secondo diventava più acido e io avevo gli spilli dentro la gola, tossivo, ma continuavo a guardare Ester, a guardare le fiamme che ballavano sopra le Singer…
All’improvviso una mano mi afferrò il braccio.
Era mia sorella. Fu lei a trascinarmi fra i tavoli – dio!, com’erano stretti l’uno contro l’altro! – fino al lato opposto del reparto, dove c’era l’unica scala antincendio: una vecchia struttura rugginosa che sfidava il vuoto sottostante.
“Scendi!” mi ordinò Maria. “Non aver paura, scendi, che ora vengo anch’io.” E così scesi.
Procedevo lenta, fermandomi a ogni gradino, perché la scala era già piena di ragazze che scappavano dall’ottavo piano. Il ferro sottile tremava sotto i miei piedi, oscillava peggio della nave che mi aveva portato a New York, ma andavo avanti ugualmente, tenendomi aggrappata al corrimano. Ero quasi arrivata, il marciapiede era ormai vicino, quando la scala cedette con uno schianto tremendo. Fui travolta da una specie di valanga e, di colpo, piombai a terra.

Ada Caputo: Non so di chi fu il merito. Se fu il macchinista che riuscì a spaccare il lunettone della porta o se qualcuno ci aprì dall’esterno. Con tutta la buona volontà, non saprei dirlo. Ma quando uscimmo sul pianerottolo, capii che comunque non avevamo speranza.
Non si poteva scendere, perché il fuoco veniva proprio da quella parte. E il montacarichi… Ce n’erano due, a dir la verità, ma ne funzionava soltanto uno. Un solo montacarichi per cinquecento persone. Al primo giro imbarcò una ventina di ragazze, poi tornò su per raccoglierne un’altra manciata.
Tutte spingevano, incalzavano… Troppe, eravamo in troppe e non ce la feci a salire là sopra nemmeno la seconda volta.
Intanto il fumo mi toglieva il respiro, le fiamme avanzavano da ogni lato e il calore mi arroventava la pelle fin sotto i vestiti. Mi guardai attorno: dove?, dove?, dov’è che posso scappare? Ma non c’era salvezza possibile, perciò me ne restai ferma e immobile assieme alle altre, paralizzata dalla paura, fissando il montacarichi che si allontanava.
Andava giù adagio adagio. Con una lentezza esasperante. E noi sul ballatoio, ad accompagnarlo con gli occhi… Finché d’un tratto una delle donne fa: “Via! Lasciatemi passare!” e si butta all’inseguimento attaccandosi alle corde e saltando sul tettuccio della cabina. Il contagio è immediato: subito un’altra si lancia nella tromba delle scale e un’altra la segue a ruota e un’altra ancora e anche un ragazzo… che poi era Tonino… e sua madre dietro di lui, con i capelli in fiamme.
Un attimo più tardi le corde si ruppero e il montacarichi precipitò sfasciandosi nove piani più in basso.
Allora, senza riflettere, spinta dal fuoco, mi diressi verso il decimo piano. E proprio sulle scale, mentre il panico mi stava già tagliando le gambe, incontrai Sam che si mise a urlare: “Sbrigati! su, vieni con me”.

Sam Wilson: Quando mi resi conto della gravità dell’incendio, per prima cosa tornai in ufficio e misi al sicuro, dentro la cassaforte, il denaro e le buste-paga che non avevo potuto distribuire. Dopodiché tentai di scendere per aprire le porte alle ragazze, ma era troppo tardi. E forse lo era anche per me: non vedevo vie di fuga!
Poi, in un lampo, mi ricordai del tetto.
Ero fra i pochi a sapere come si arrivava fin lassù, perciò quando Ada mi comparve davanti, bianca come un’apparizione, le dissi: “Seguimi!”.
In cima all’edificio trovammo alcuni macchinisti che avevano avuto la mia stessa idea. Ma c’era poco da star tranquilli… L’incendio montava sibilando e in aria vorticava una cenere dura, pietrosa, che il vento ci sbatteva addosso.
Mi accostai al parapetto per guardare in strada: in mezzo alla carreggiata scorsi, piccola piccola, la macchina dei pompieri. Avevano srotolato le pompe ma il getto d’acqua non arrivava neanche al quarto piano… e il fuoco era ai piani nostri, quelli alti…
Stavo ancora là affacciato a valutare la situazione, quando, come a un segnale, cominciarono a cadere le ragazze.
Le vidi, come no. Le vidi.
Cadevano dalle finestre, a grappoli, da sole o abbracciate l’una con l’altra, e le gonne in fiamme segnavano l’aria come la scia di una cometa. Alcune rimasero impigliate ai cornicioni fin quando i vestiti non si consumarono, bruciando. A quel punto caddero anche loro. E i pompieri furono costretti a ritirarsi: si spostarono sul lato opposto del marciapiede, per non essere travolti.
Mah.
Sono spettacoli che non si dimenticano e io… sapete… io non ho mai parlato di queste cose prima d’ora…
Con voi però lo faccio volentieri. Perché è giusto ricordare quanto è accaduto e anche perché è arrivato il momento di saldare un vecchio debito. Insomma, ho accettato l’intervista perché siete studenti, proprio come quei volontari che, il 25 marzo del 1911, impedirono al fuoco di raggiungerci.
Il palazzo della Triangle, questo è il fatto, all’epoca confinava con l’edificio della New York University, che era più alto del nostro. In teoria, era possibile saltare da un tetto all’altro, ma la verità è che c’erano sette, forse otto piedi di differenza e quel giorno, per quanto ci sforzassimo, la barriera sembrava insormontabile.
Ma poi ecco gli studenti!
Spuntarono là in alto come angeli della salvezza, ci gettarono una corda e noi, finalmente, ci arrampicammo e in pochi minuti fummo dall’altra parte.

Caterina Prestifilippo: Quando tornai in me, avevo una coperta sulle spalle. Ero sopra una poltroncina di bambù, in un negozio cinese che conoscevo, all’angolo di Greene Street.
Aprii gli occhi e una cinesina mi offrì una ciotola di latte caldo che bevvi automaticamente, senza rendermi conto… Mi dolevano le ossa, ma non mi ero fatta male, forse perché ero già a terra, o quasi, quando la scala si era sbriciolata sotto il nostro peso.
Comunque ero salva. Ero viva.
E Maria?, pensai di colpo. Maria! Dovevo cercarla. Dovevo alzarmi e uscire. E così feci, nonostante la cinesina cercasse d’impedirmelo. Alla fine si rassegnò e rimase in negozio a piangere e ad asciugarsi le lacrime col grembiule.
Fuori, un cordone di poliziotti circondava l’isolato e non permetteva alla gente di avvicinarsi. C’erano ambulanze, macchine dei pompieri, vigili, polizia a cavallo. Senza contare i fotografi e i giornalisti, che a New York non mancano mai.
C’erano pure molte operaie scampate al fuoco, come me. Si erano messe in gruppo sul marciapiede e protestavano, con la faccia stravolta, perché la polizia aveva tentato di allontanarle.
Mi affrettai a raggiungerle.
Chiesi, ma non sapevano nulla di Maria.
Non ero soltanto io, d’altronde, a cercare notizie. Tutte eravamo alla ricerca di un’amica o di una parente, ed era questo il motivo per cui nessuna si muoveva dal luogo del disastro. I corpi delle ragazze che erano volate giù stavano ancora sul selciato, dietro i poliziotti, e noi volevamo vederli da vicino. Per riconoscere le nostre compagne, almeno questo, e baciarle prima che le portassero via. Ma gli agenti furono irremovibili e ci tennero a distanza.
Però si mostrarono gentilissimi, bisogna riconoscerlo. Uno mi prese per mano e mi spiegò cosa dovevo fare, disse che era inutile insistere, tanto le avrebbero portate alla morgue ed era meglio andare là per il riconoscimento…
Poi un giornalista mi accompagnò a casa pagandomi anche il biglietto della metropolitana. Era la prima volta che la prendevo e il ritmo del treno, la corsa nel buio delle gallerie, non so, fatto sta che mi venne una gran febbre, mi battevano i denti e, quando la mamma aprì la porta, caddi ai suoi piedi senza nemmeno dire ahi.
Così, in conclusione, fu mio padre a doversi recare alla morgue, dove riconobbe sua figlia grazie alla busta paga che le avevano trovato addosso.

Sam Wilson: Non appena mi ritrovai all’aria aperta, cominciai a camminare. Ricordo che era una giornata di sole. Dolcissima.
Cammina cammina, finii al parco del Bronx, dove il fiume si addentra fra gli alberi. Rimasi in quella specie di bosco fino a notte fonda, girando come un pazzo. Come un animale selvatico.

Ada Caputo: Prima dei funerali andai a casa di Serafina, una camera nell’East Side, vuota, a parte due materassi per terra e un violino attaccato alla parete: suo figlio suonava…
Ero andata fin là per cercare l’indirizzo di un qualche familiare, una sorella, un fratello, una cugina, così frugai in ogni angolo. Senza risultato, purtroppo. C’erano delle lettere, però mancavano le buste con il mittente e dunque non riuscii ad avvertire nessuno.
Peccato. Anche perché i funerali, ah!, furono grandiosi.
D’altronde mai, a New York, si era verificata una simile carneficina: 147 persone morte tra le fiamme! Tante ne contarono: 147. Ma non è esatto dire “persone”, bisognerebbe aggiungere che si trattava di ragazze, per lo più, e in massima parte italiane. Giovani, spesso giovanissime, quasi bambine. Anche il cielo piangeva, durante i funerali…
Sì, piovve per tutto il tempo, ma il corteo continuò a muoversi e a sfilare tra due ali di folla accalcata lungo i marciapiedi, con gli ombrelli aperti. Sfilò per ore e non se ne vedeva la fine: stendardi, cartelli di protesta e donne con la fascia nera attorno al petto… Non c’erano autorità pubbliche o ufficiali a cavallo, bensì migliaia e migliaia di lavoratori e lavoratrici con le bandiere del loro sindacato. Almeno tre miglia di corteo!
Insomma, una gran bella cerimonia: a Serafina sarebbe piaciuta di sicuro. E il merito, lo devo ammettere, fu della lega femminile del sindacato, che mobilitò le sue iscritte.
Anche se poi, a essere obiettivi, venne tutta New York e, sui giornali, riportarono perfino i nomi delle vittime. L’intera città discusse di ciò che era accaduto per giorni e giorni e infine un giornalista scrisse che, dopo le lacrime, era arrivato il momento di pensare alla giustizia. E speriamo, aggiunse, che il processo si faccia con le dovute garanzie e che le autorità non cerchino di archiviare il caso in fretta e furia. Un altro, invece, si domandò: “È colpa soltanto del fuoco assassino? Ricordatevi che negli USA muoiono 50.000 lavoratori l’anno, il che significa 136 al giorno!”.
Ne scrissero di cose! Sull’incendio e, in seguito, anche sul processo e io ho raccolto tutti gli articoli. Se vi servono, ecco, prendeteli pure! Li ho messi qui, in questa scatola, assieme alla foto di Serafina e di suo figlio Tonino, quella che si fecero appena sbarcati in America…
La foto me la tengo, ma il resto potete prenderlo, ve lo do con piacere. È una buona cosa che l’università s’interessi ai lavoratori e che ci sia qualcuno che si ricordi ancora di noi, che scriva dei morti, dei sopravvissuti, e delle ragazze italiane che, tanti anni fa, confezionavano bluse e camicette dietro le porte chiuse di un grattacielo. Le “mie” ragazze…
Ma adesso basta, per favore: per quanto mi riguarda ho già parlato a sufficienza. Eh! a volte parlare è proprio una fatica.

Caterina Prestifilippo: Il processo si tenne a dicembre.
Prima, però, i proprietari della Triangle offrirono ai familiari delle vittime una settimana di paga. Come fosse una gratifica natalizia… Purtroppo qualcuno non ebbe la forza di rifiutare, ma che volete, erano tempi di fame e quei soldi servivano, altroché se servivano! Tanto più che molte delle sopravvissute non avevano potuto ritirare la paga o l’avevano persa mentre cercavano di salvarsi.
In ogni modo il signor Harris e il signor Blanck non ci rimisero neanche un centesimo. Anzi. La compagnia di assicurazione li rimborsò pagando 445 dollari – quattrocentoquarantacinque! – per ogni dipendente. Fatevi i conti…
Il processo dunque si tenne a dicembre, ma già in aprile il Grand Jury di New York aveva messo sotto accusa i proprietari della fabbrica. L’imputazione era di omicidio di primo e secondo grado, perché le porte da cui avremmo potuto uscire e salvarci risultavano chiuse, contrariamente a quanto stabilisce la legge. Il giudice distrettuale aveva portato diverse testimonianze a conferma di ciò e il Console italiano aveva raccolto le deposizioni delle nostre compaesane.
Io mi presentai in aula, assistita da un interprete, per confermare il fatto. Ero vestita di nero e l’interprete mi riferì che il mio abbigliamento aveva suscitato qualche perplessità, come se fosse una provocazione, una manovra per impressionare la corte. In altre parole, mi avevano criticato per via del lutto e questa fu la cosa che mi dispiacque più di ogni altra.
A ventitré giorni dall’inizio del processo, il 27 dicembre, finalmente la giuria si ritirò per deliberare.
Erano le 2,55 del pomeriggio, me lo ricordo eccome!
Due ore dopo, alle 4,45, i giurati rientrarono in aula e il presidente lesse la sentenza: nessun colpevole… nessuno aveva colpa di quanto era accaduto.
Insomma il signor Harris e il signor Blanck potevano dormire sonni tranquilli, perché secondo la corte erano puliti. Innocenti. E infatti furono scagionati dall’accusa di primo grado con la seguente motivazione: le porte erano chiuse, ma loro, be’, come potevano essere a conoscenza di un simile dettaglio?
Più avanti il signor Victor Steinman, uno della giuria, ebbe un ripensamento e disse alla stampa: “È vero, è accertato che la porta che dà su Washington Square era chiusa quando scoppiò l’incendio. Ma gli imputati lo sapevano? Nessuno di noi era sicuro di questa cosa. E il giudice ci aveva spiegato che se non eravamo sicuri al cento per cento, allora non potevamo condannarli”.
E questo è tutto.
Tutto quello che seppero dire i signori della corte.
Ma non sono stati loro ad avere l’ultima parola… Scrivetelo, mi raccomando! Scrivete che, per una volta, non sono riusciti a buttarci nel dimenticatoio e anche Maria alla fine ha ottenuto il suo riconoscimento, perché il giorno del fuoco, di quel terribile fuoco a Manhattan, adesso è il giorno delle donne. In tutto il mondo. E pazienza se poi qualcuno ha frainteso la data e l’ha anticipata all’otto marzo: in fondo, ciò che conta è la memoria.

Sam Wilson: Non sono mai più tornato alla Triangle.
La fabbrica riaprì qualche mese dopo il disastro e, volendo, avrei potuto riavere il mio vecchio posto: il signor Blanck insisteva perché riprendessi il lavoro alle sue dipendenze. Ma io… Avevo bisogno di lavorare, è ovvio, ma non ce la facevo a levarmi dalla testa quelle ragazze che si buttavano abbracciate, tenendosi per mano.
A raccontarlo, sembra ieri…
Invece è successo più di mezzo secolo fa e, nel frattempo, ci sono state non so quante rivoluzioni, oltre a due guerre mondiali. E la prima l’ho fatta io, la seconda mio figlio.
Eppure di notte, quando chiudo gli occhi, non vedo il fronte ma le ragazze che cadono lasciandosi dietro la scia di una cometa.
Per questo vi ho detto di sì e vi ho raccontato la mia storia. O forse perché in fabbrica… Be’, anche là dentro c’era una guerra. E non mi pare che sia finita.

Nota: dago è un termine gergale, dispregiativo, che viene usato negli Stati Uniti e in Australia per indicare gli immigrati italiani; viene da “day goes”, un modo di dire che significa “lavoratori a giornata”, cioè gli ultimi nella scala sociale.

Il racconto è comparso nell’antologia Lavoro vivo, edizioni Alegre, Roma, 2012


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