Sul MOSE: se errare è (forse) umano, perseverare è certamente diabolico

Sul MOSE: se errare è (forse) umano, perseverare è certamente diabolico

Simone Stefan

Il verificarsi, il 28 ottobre scorso, della quarta maggiore alta marea eccezionale dall’inizio delle registrazioni degli eventi di marea nel 1923 (156 cm, a pari merito con quella del 1 dicembre 2008), ha riportato alle cronache nazionali l’annosa vicenda del Mose. Autorevoli voci, a partire dal sindaco Brugnaro e dal Patriarca Moraglia fino alla meno nota onorevole Spessotto, deputata veneta del movimento 5 stelle, si sono alzate per sollecitare il completamento dell’opera. Tale evento si incrocia con la discussione sulle grandi opere in seno al Governo, dove il movimento grillino appare sempre più prono di fronte alle posizioni della Lega “del fare”, nonostante le ampie messi di voti raccolte sul tema della tutela ambientale e dell’opposizione alle grandi opere. In particolare, il ministro Salvini dichiara “un’assurdità” bloccare la costruzione delle dighe mobili, in quanto mancherebbe solo il 5% dei lavori al loro completamento.

Premesso che sarebbe interessante sapere in base a quali dati il ministro deduca questo preciso 5%, visto che non abbiamo ancora idea di quante tonnellate di cemento siano state finora gettate nelle bocche di porto, alcuni elementi dovrebbero portare ad una determinazione opposta, ossia a bloccare l’opera per evitare, per quanto possibile, ulteriori danni all’ambiente lagunare ed alle casse dello Stato.

Va infatti ricordato, innanzitutto, che il Mose è un’opera che è “nata male”: una sperimentazione cominciata negli anni ’80, un progetto che è stato portato avanti nonostante la VIA negativa del 1998 e il parere contrario di autorevoli scienziati, ingegneri, ricercatori, che ne hanno identificato puntualmente le criticità, in particolare dovute al gigantesco impatto ambientale, agli elevatissimi costi economici di realizzazione e gestione ed al carattere di irreversibilità dell’opera. Tra i vari elementi contestati, possiamo ricordare la collocazione dei meccanismi sott’acqua, sottoposti ad usura ed incrostazioni marine, la rigidità dell’opera, che non tiene conto dell’incertezza delle stime sull’innalzamento del livello del mare, i dubbi sull’efficacia stessa della chiusura alle bocche di porto, in quanto l’ondeggiamento delle paratoie sarebbe tale da vanificare l’effetto di blocco della marea, dato su cui il Consorzio Venezia Nuova (il pool di imprese che sta realizzando l’opera) ha sempre rifiutato un pubblico confronto. Possiamo anche ricordare che le paratoie si alzeranno solo con maree superiori a 110 cm, non proteggendo quindi l’area marciana che viene allagata anche con maree di 80-90 cm, le più frequenti. Il Comune di Venezia, conscio di tali problematiche, si è sempre espresso contro l’opera, proponendo al governo ben 11 progetti alternativi, assai più economici e soprattutto reversibili, rifiutati da Roma, senza contare che già dei lavori di ripristino idromorfologico della Laguna avrebbero permesso un sensibile ridimensionamento del livello mareale.

Nonostante le denunce del mondo scientifico, la presa di posizione univocamente contraria dei comuni interessati e della Provincia di Venezia ed una petizione sottoscritta da circa 13 mila cittadini, la politica nazionale è andata avanti, con un’approvazione dell’opera trasversale ai maggiori schieramenti politici: nel 2003 Silvio Berlusconi ha posato in pompa magna la prima pietra e nel 2006 il Governo Prodi ha confermato di procedere, nonostante il meritorio voto contrario dei (soli) ministri Paolo Ferrero, Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi, respingendo incomprensibilmente tutti gli 11 progetti del Comune.

Questa imperterrita volontà di procedere nonostante i fortissimi dubbi scientifici sulla realizzabilità e sull’efficacia del Mose, è dovuta al particolare regime che a Venezia governa il sistema delle opere di salvaguardia, ossia la concessione unica al Consorzio Venezia Nuova. Il CVN è un potente pool di imprese che, dal 1984, è unico concessionario del Magistrato alle Acque per gli studi, le progettazioni e la realizzazione delle opere per la salvaguardia, in regime quindi d’eccezione rispetto alla normativa su appalti e concorrenza e in un quadro di pericolosa identità tra controllore e controllato. Poiché la città di Venezia deve la sua sopravvivenza fisica alle opere di salvaguardia, è chiaro il potere che in città esercita chi a tali interventi è preposto.

L’opera si è rivelata criminogena: i rischi di corruzione e di danno erariale denunciati da quanti attivamente alle dighe mobili si sono opposti, si sono puntualmente verificati e accertati in sede giudiziaria, con la condanna, tra gli altri, dell’ex presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan, dell’assessore Renato Chisso (Forza Italia), del ministro Altero Matteoli (Alleanza Nazionale) e del Presidente del CVN Giovanni Mazzacurati. Inutile dire che, in questo quadro di corruzione, i prezzi dell’opera, già elevatissimi, sono lievitati: da 3700 miliardi di lire preventivati nel 2001 (ossia 1653 milioni di euro) si è arrivati ad una spesa di 5493 milioni di euro nel 2014. Tali fondi sono stati sottratti in buona parte alla salvaguardia di Venezia: l’aver voluto dirottare tutti i finanziamenti in un’unica opera ha infatti privato di finanziamenti altri interventi ben più necessari ed auspicabili (per esempio l’innalzamento di alcune aree della città, l’escavo sistematico dei rii, il ripristino del naturale assetto idromorfologico della laguna, ecc.).

Oltre a tutto ciò, anche le criticità tecniche stanno emergendo in tutta la loro gravità: alcuni cassoni di calcestruzzo, sui quali le paratoie sono ancorate, sono sprofondati, le paratoie portano già evidenti segni di corrosione ed hanno gravi problemi tecnici in quanto non si alzano o non rientrano in sede a causa dell’accumularsi di incrostazioni e detriti marini (ma non era prevedibile?) e per la compromissione delle cerniere. Una perizia, commissionata dal Provveditorato alle Opere Pubbliche di Venezia, denuncia che il Mose rischia cedimenti strutturali. Tutto ciò rende evidente che, se mai l’opera sarà messa in funzione, i costi annui per la manutenzione, già preventivati in 30-35 milioni di euro all’anno, lieviteranno ancora.

Quindi, riassumendo, siamo di fronte ad un’opera che è stata criminogena, approvata in un quadro generale di corruzione a livello regionale e nazionale, con costi elevatissimi per l’erario e, non meno importante, per l’ambiente. Un’opera di cui molte voci del mondo scientifico e dell’attivismo ambientalista denunciavano le criticità, criticità che si sono poi puntualmente verificate. È da chiedersi quindi perché si debba procedere, senza quantomeno una pausa di riflessione che parrebbe necessaria, atta a valutare, con un pubblico confronto scientifico finalmente al di fuori dell’accertato quadro corruttivo, le reali condizioni, l’effettivo funzionamento e la sicurezza dell’opera. Ammesso e non concesso infatti che manchi solo il 5%, ci si chiede se abbia senso spendere gli svariati milioni di euro che ancora serviranno al completamento dell’opera nonché ipotecare il futuro delle finanze pubbliche per gli elevatissimi costi di manutenzione, nel più che legittimo dubbio che le dighe mobili funzionino e siano sicure. È paradossale che il governo scelga imperterrito di procedere quando è formato da due forze politiche che si presentano rispettivamente come la paladina delle autonomie locali e la paladina dell’onestà: la Lega sceglie di proseguire un’opera che ha visto l’opposizione di tutti gli enti locali interessati, in piena continuità, comunque, con la propria partecipazione quindicinale alle giunte Galan e con ventitré anni di governo ininterrotto del Veneto, durante i quali, evidentemente, i suoi esponenti non si sono accorti di niente; il Movimento 5 Stelle decide di terminare un’opera che, ormai è appurato, è stata fulcro di un sistema corruttivo. Se le responsabilità giuridiche di un tale scempio stanno venendo accertate, rimangono le responsabilità politiche: come hanno chiesto gli attivisti No Mose bisognerà edificare un monumento che indichi, a perpetua ignominia, i nomi e i cognomi di chi le dighe mobili le ha volute, votate e sostenute.

*Già membro dell’Assemblea permanente No Mose, PRC, CPF Venezia

 


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