Rifondazione Comunista ha incontrato Malalai Joya, esempio di lotta per la pace nell’Afghanistan occupato

Rifondazione Comunista ha incontrato Malalai Joya, esempio di lotta per la pace nell’Afghanistan occupato

Stefano Galieni

Incontrare Malalai Joya, una delle più incredibili combattenti per la pace e la democrazia, proprio poche ore dopo l’ennesimo bombardamento occidentale verso un altro popolo, quello siriano, costringe a non dimenticare i danni che provocano le guerre. Malalai Joya ha una vicenda personale e politica che racchiudono forse gran parte della storia afghana. Eletta nel parlamento che doveva rappresentare il “nuovo corso democratico” dopo l’occupazione NATO e l’elezione alla presidenza di Karzai, nel 2005 a soli 27 anni, ne viene espulsa dopo due anni di denunce, minacce, attentati, insulti subiti e tentativi continui di dare voce alle persone più vulnerabili, in particolar modo quelle delle donne e dei bambini. Sono questi che più di tutti hanno pagato e pagano il prezzo di una guerra infinita in cui gli interessi dei paesi occidentali e delle potenze vicine, dei signori della guerra, dei coltivatori d’oppio, delle milizie fondamentaliste hanno depredato ogni bene e gran parte delle speranze. Grazie al CISDA (Comitato Italiano di Sostegno alle Donne Afghane), nei locali della Direzione nazionale del Prc si è potuto svolgere un lungo incontro che ha visto presenti fra gli altri il segretario nazionale Maurizio Acerbo e il segretario della federazione di Roma, Vito Meloni. Si è trattato di un incontro non formale, lungo in cui l’attivista afghana ha provato a sintetizzare le vicende di un paese che, dimenticato dai media, continua ad essere occupato militarmente da forze straniere. 900 sono i soldati italiani presenti ad oggi per una spesa complessiva, confermata dal parlamento a camere ormai sciolte per quasi 300 milioni di euro. «Si dice che se le truppe straniere se ne vanno in Afghanistan esplode la guerra civile – esordisce Malalai – ma da noi la guerra non si è mai interrotta». E con il carisma e la carica da vera combattente che la caratterizza, alterna elementi di analisi politica internazionale a storie concrete, esemplari nella loro crudeltà, che servono a far divenire il quadro più vivido. Una situazione quella del suo paese esaminata a partire dall’invasione della NATO di 17 anni fa, durante i quali con il pretesto della guerra al terrore e di voler combattere i talebani (oggi forti come ieri), hanno permesso la frammentazione dell’Afghanistan fra i tanti signori della guerra e sponsorizzati dai loro alleati. «I veri problemi hanno due origini – ripete – fondamentalismo e imperialismo. Dall’Afghanistan si continua a fuggire, anche se i paesi europei dicono che ora c’è la pace e hanno iniziato a deportare i richiedenti asilo rimandandoli indietro. Chi fugge non lo fa per piacere poi scopre che l’Europa è diversa da come l’aveva immaginata. Io ho trovato violenza anche nei centri di accoglienza, in Germania non mi hanno fatto entrare a visitarli per ragioni burocratiche, dicono, ma quelli con cui ho parlato quasi si pentono della scelta. Del resto se vengono rimpatriati non ritrovano più nulla, hanno venduto tutto per partire e di fronte si ritrovano con due possibilità: darsi alla droga, (nel nostro paese l’11% delle persone, bambini compresi è tossicodipendente), o arruolarsi in qualche milizia dei Signori della guerra o dell’Isis, in questo caso portano a casa almeno 600 dollari al mese. Qualcuno che è ricco può permettersi di progettare un futuro ma la maggior parte finisce in mano a strozzini. C’è chi si suicida per disperazione, chi viene deportato e anche chi magari vorrebbe anche tornare ma non ha i mezzi o è invischiato nella burocrazia. In realtà pochi vengono in Europa, per la maggior parte vanno in Pakistan, dove sono continuamente respinti, o in Iran dove trovano una situazione ancora peggiore, di tipo hitleriano». Racconta con asprezza delle politiche sbagliate e mirate unicamente a mantenere il suo paese in condizioni di dipendenza dagli altri. «Ci sono oggi 8 grandi Signori della guerra che controllano media, territori, che utilizzano la loro visione dell’Islam soprattutto contro la popolazione femminile, che annunciano e fanno effettuare attacchi suicidi che ad esempio, per dimostrare il proprio potere hanno ucciso e fatto a pezzi un’insegnante, una donna che si opponeva ad uno di loro e le hanno sterminato la famiglia. Un esempio banale racchiuso in un nome: Gulbuddin Hekmatyar, che da noi è chiamato “il macellaio di Kabul”. Fino a qualche anno fa il suo partito era nella black list delle organizzazioni terroristiche, oggi, nonostante abbia coperto e continui a coprire di sangue, soprattutto di donne i territori che controlla, fa parte del governo.

E non vale solo per lui: il “processo di pace” dovrebbe partire dal fatto che questa non ci può essere senza giustizia, che una “riconciliazione” altrimenti è fittizia.

Invece già oggi i talebani hanno un partito e dei propri uffici legali, pur continuando ad uccidere e a stuprare quasi sempre nell’impunità. «Per il nostro popolo non è una novità. Afferma Malalai – I governi occidentali sono conniventi. Ogni Stato supporta una fazione dei talebani. Nella mia provincia Farah USA, le relazioni con loro le tiene il generale americano che comanda. Questo determina la chiusura delle scuole per le bambine. Ma sia chiaro che figli e figlie di talebani vengono anche mandati all’università mentre sono i figli di chi non ha potere che debbono restare analfabeti, perché così li si governa meglio. Ora intendono candidarsi alle elezioni del parlamento (previste per ottobre). Quando io ero deputata, con me c’erano con me c’erano persone che avevano stuprato bambini. Saranno loro o i loro successori che ci torneranno. Io e molti altri progressisti le boicotteremo. Non c’è spazio in parlamento per cambiare le cose».

Malalai Joya è però stanca di parlare solo di talebani. «La lista dei mullah assassini è troppo lunga. I criminali, che dominano soprattutto nelle zone rurali, fanno ciò che vogliono dice – e la stessa Kabul è teatro continuo di attentati e uccisioni. Quando esci di casa non sai mai se ritornerai».

E a suo avviso, la guerra razzista che sta portando avanti oggi Trump, in Afghanistan come in Siria, è una vera e propria ideologia che si sta diffondendo. «C’è anche chi vorrebbe provare a rialzarsi – ci dice – ma gli americani impediscono anche che si apra una fabbrica perché potrebbe diventare luogo di aggregazione e di rivendicazione di diritti. Oramai la nostra economia si basa solo sull’oppio di cui siamo divenuti il secondo produttore mondiale. La produzione era crollata dopo l’11 settembre, oggi è in continua crescita ed è gestito da uomini di potere. L’ultimo governatore di Kandahar è stato ucciso dai talebani, ad esempio, ma altri hanno preso il suo posto. E sono nate anche le raffinerie che non solo permettono ai signori della guerra di esportare eroina pura ma hanno anche diffuso la tossicodipendenza e il consumo interno. A Kabul c’è un quartiere intero abitato da morti che camminano. Le donne che fumano oppio trasmettono la tossicodipendenza ai bambini che nascono. Ogni giorno lì passa un camion per raccogliere i cadaveri e portarli al cimitero. E nel resto del paese non va meglio. Le famiglie povere o vanno a lavorare nei campi di papaveri da oppio o vendono le proprie figlie ai trafficanti. Anche in questo campo gli intoccabili interessi occidentali sono altissimi».

È difficile per Malalai Joya, confrontarsi con quanto accade in maniera simile in Palestina, in Siria, fra le compagne di Afrin e di Kobane se non si comprendono due elementi strutturali. In Afghanistan non hanno credibilità le imposizioni di “cosiddetta democrazia” alla americana, per intenderci. Non la vogliono è stata troppo strumentalizzata dalla politica tanto da divenire una sorta di prostituzione per altrui interessi. Una speranza crollata come quella del comunismo o della secolarizzazione. Per ricostruire, anche secondo molti osservatori, occorreranno anni e non cambia nulla se non si mette mano al sistema educativo. «Da noi predomina la fame – afferma – c’è chi vive con 45 centesimi di dollaro al giorno e quando hai fame non pensi a fare la rivoluzione.

Chi prova ad alzare la testa viene represso, come è capitato recentemente ad un gruppo di rivoluzionari di etnia hazara. Il governo ha minacciato loro di attacchi suicidi e li ha coerentemente eseguiti. Nel frattempo Kabul è diventata una città in cui incontri in continuazione bambini mendicanti mentre i figli dei ricchi vanno a studiare nelle scuole islamiche turche, iraniane e saudite che li manipolano. Il governo, che da statistiche edulcorate, dice che sono 3,5 milioni i bambini che non vanno a scuola. Quando ci vanno spesso trovano insegnanti non preparati e l’analfabetismo dilaga. Ci sono soprattutto insegnanti dei partiti fondamentalisti e poi ci sono le scuole private che costano tantissimo. Quando ero in parlamento denunciai il fatto che il Ministro dell’istruzione aveva rubato 25 milioni di dollari del budget per l’educazione. Molto tempo dopo mi hanno dato ragione, quei soldi risultavano essere stati impiegati per la costruzione di scuole mai realizzate e sono finiti nelle sue tasche. E parliamo di un ministro che si presentava come progressista. Anche sugli aiuti internazionali ci sarebbe molto da dire. Il nostro è un paese in cui domina la corruzione, la politica colonialista americana ha ben utilizzato questa condizione. Conosco almeno 3000 cosiddette Ong che hanno preso fondi poi utilizzati solo per i propri funzionari e che ci hanno truffato. Oggi è anche difficile sapere di chi potersi fidare. Per questo è importante ricostruire, con un progetto a lungo termine, un sistema scolastico in cui le persone imparino a potersi difendere e a conoscere anche i propri diritti, a non farsi utilizzare. Quando sono stata eletta, tanti anni fa, pensavano di comprarmi. Mi dicevano che se non avessi obbedito mi avrebbero tolto lo stipendio da parlamentare e che altrimenti sarei diventata ricca anche io. Ma ho sputato su quello stipendio. Da allora mi hanno anche bandita da ogni spazio di comunicazione, non posso più parlare e, anche da certi sedicenti di sinistra, vengo considerata una che “si è fatta eleggere quindi è corrotta”». Si accalora mentre parliamo e vuole farci capire che non sta inventando nulla. Ci mostra dal cellulare la foto di un noto criminale afghano mentre stringe la mano ad un alto rappresentante delle nazioni unite. «Ci possiamo fidare di queste persone? – dice – possiamo riappacificarci con i nostri assassini come se nulla fosse lasciandoli impuniti?». Le domandiamo di quelle che sono le prospettive politiche e Malalai scuote il capo: «Ci sono due presidenti in carica, Tutti e due si erano proclamati vincitori e gli Usa preferiscono non avere altri problemi. Il parlamento è quello vecchio. A ottobre se ne dovrebbe eleggere uno nuovo.

Nel 2005, quando mi sono candidata volevo aiutare le persone. Chi era comandava pensava di corrompermi ma non ci è riuscito, né con i soldi né con le minacce. Ora non intendo candidarmi per almeno due ragioni. Intanto non permetterebbero una mia affermazione e poi non mi voglio – con me tanti altri – immischiarmi in uno scontro che di politico ha ben poco. Boicotteremo le elezioni ed è una scelta più importante. La stessa scelta che farà il partito Hambastagi (della Solidarietà) che conta oltre 30 mila iscritti. Quindi preferisco lavorare nella base per far crescere consapevolezza.». Le stanno assegnando in questi giorni un premio importante, quello del Cinema per la Pace. Una notizia che non può essere tenuta nascosta. E allora utilizzano anche questo riconoscimento per denigrarla, per dire che non vive più in Afghanistan. Resta un personaggio scomodo e troppo popolare per essere messa a tacere anche se la sua vita non è facile, quotidianamente esposta a pericoli e a rischi che le impediscono anche di dormire troppo nella stessa casa. In parlamento riceveva minacce in continuazione, si trovava in un panorama misogino e razzista, violento e spesso criminale che non ne sopportavano la voce. E anche negli ambienti che si dichiaravano di sinistra ha incontrato ostacoli: «Ma si tratta di uomini che parlano e basta, come ce ne sono anche da voi» dichiara con uno sguardo severo.

Della politica italiana non ha una buona opinione: «Cosa ci possiamo aspettare da chi continua a votare Berlusconi?». E ancora una volta il sorriso si fa amaro. «Se va male per la sinistra in Italia, come è accaduto alle recenti elezioni, anche per noi è una cosa terribile. Da voi gran parte dei politici si mascherano con una faccia più presentabile ma il risultato non cambia. In Europa vengo invitata solo dalla sinistra perché altri si rifiutano di farlo ma penso che in questa situazione, almeno in Italia, qualsiasi governo salga al potere sarete sempre sotto il dominio americano. E non vale solo per l’Italia, a bombardarci col fosforo bianco, insieme agli Usa ha provveduto anche la Germania. Di quello che fanno da noi i vostri soldati sappiamo poco. Solo quando ci bombardano abbiamo notizie della loro presenza. Le informazioni per il resto non sono pubbliche e i giornalisti non hanno diritto di sapere. Nella mia provincia gli americani hanno ottimi rapporti con i talebani. Lì sono anche gli italiani e non mai hanno detto nulla. I reporter sono continuamente in pericolo, quando un villaggio o una città vengono conquistati i miliziani si “occupano” subito dei giornalisti ma poi le violenze dilagano. Si cerca di far fuggire prima mogli e figlie nelle città più grandi e nelle zone rurali restano gli uomini. Ma anche scappare è costoso. Un viaggio in taxi da Farah a Herat (3 ore) costa di solito 50 afgani ma se ci sono attacchi il costo sale a 50 mila».

E se su parla del ruolo delle truppe italiane ci dice che è lei a chiederci: Cosa fanno?  Le informazioni in tal senso non sono pubbliche, del resto sono le truppe afghane ad essere usate come carne da macello mentre, gli occupanti restano nelle retrovie, la loro vita vale di più evidentemente. Ci racconta di un soldato afgano che ha perso le gambe e per cui non c’è neanche una carrozzina mentre per un collega inglese, che ha subito un simile scempio si sono trovati milioni di sterline per risarcirlo e farlo tornare a camminare. «I soldati afghani si nutrono di pane e the, col risultato – ci dice che alcuni vengono comperati dai Signori della guerra per compiere massacri fra le proprie fila». Non intravvede un buon futuro per il proprio paese in cui dominano fame, violenza, misoginia e corruzione. A suo avviso le potenze straniere, occupanti e non, stanno lavorando ad una vera e propria balcanizzazione parlando di federalismo. La frammentazione che si è determinata, i continui cambi di alleanze – si pensi ai talebani che si sono trasformati in Isis nel nord, armati all’inizio dagli Usa e che ora sono sostenuti da Russia, Germania e Iran – si va istituzionalizzando. Le nuove carte di identità definiscono anche l’etnia di appartenenza del titolare, come se non bastasse essere afghani.  «Chi prova ad opporsi, intellettuali indipendenti o associazioni, non si sente rappresentato nei partiti che non hanno più credibilità. A me hanno chiesto di fondarlo un partito o di associarmi ad uno di loro – conclude – ma mi sentirei costretta». A svolgere un lavoro positivo restano associazioni come RAWA (Revolutionary Afghanistan Women Association) o HAWCA (Humatinarian Association for Women and Child of Afghanistan) e poche altre. Dall’Italia è preziosissimo il lavoro delle compagne del CISDA (Comitato Italiano di Sostegno alle Donne Afghane) che operano come volontarie dal 1999 e hanno permesso l’incontro con Malalai Joya. Sono fra le poche rimaste a operare mentre in quello che viene definito “paese sicuro” la cooperazione fugge o non ha più fondi. Un ringraziamento è d’obbligo per l’occasione offerta e ringraziamo anche Jessica Todaro per il lavoro fondamentale di interprete. E ci auguriamo che venga presto il giorno in cui la carica vitale di Malalai Joya torni da noi per raccontarci di un paese senza armi e occupanti, impegnato a risollevarsi.


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