Ernesto Guevara, marxista rivoluzionario

Ernesto Guevara, marxista rivoluzionario

di Rino Malinconico

Se a noi, che in un piccolo punto della carta geografica del mondo compiamo il dovere che predichiamo, e mettiamo al servizio della lotta quel poco che c’è permesso dare: la nostra vita, il nostro sacrificio, capitasse uno di questi giorni di esalare l’ultimo respiro su una terra qualsiasi, ormai nostra, intrisa del nostro sangue, si sappia che abbiamo misurato la portata dei nostri atti, e che ci consideriamo niente più che elementi del grande esercito del proletariato…  

(Ernesto Guevara, aprile 1967)

 Per i liberali non meschini e per i socialdemocratici, Che Guevara è una semplice icona del coraggio, dello spirito di sacrificio, del disinteresse, della abnegazione per la propria causa. Qualità tanto più apprezzabili, semmai, proprio perché al servizio di una “causa sbagliata” e comunque “perdente” sul piano della storia. Anzi, in chi fa politica e ancor più in chi non la fa, la nota dominante, oggi come oggi, è proprio quella del Che come “pura immagine”: immagine certamente positiva, ma alla maniera contorta delle agiografie sentimentali (e commerciali) che trasformano, rimpicciolendoli, gli esseri concretamente umani in miti estetici. Όν οἴ θεοί φιλοῦσιν ἀποθνήσκει νέος, muor giovane colui che è caro agli dei, scriveva duemilatrecento anni fa il commediografo Menandro; e Guevara viene vissuto, dai tanti che non si occupano attivamente di politica, proprio come l’eroe puro destinato, dalla sua stessa purezza, a morire drammaticamente e prematuramente. “È stato l’uomo che avremmo voluto essere, sia pure per un breve momento, nella vita”, scriverà Eduardo Galeano, con voce di rimpianto…

Così è soltanto per chi si richiama testardamente a Marx e al comunismo che la figura di Guevara resta intrecciata al suo percorso pratico e teorico di rivoluzionario, alla sua dimensione di marxista vissuto dentro un determinato stadio delle vicende del movimento operaio e dell’insieme delle masse oppresse. Ma proprio di questo specifico Guevara – che è come dire del marxismo terzomondista degli anni ‘50 e ’60 e del connesso tentativo di recuperare il filo rosso della rivoluzione proletaria a partire dalla lotta antiimperialista – si è scritto terribilmente poco.

Questi rapidi appunti non colmeranno la lacuna. Il loro compito è solo di spingere ad una ulteriore, successiva riflessione più profonda e più larga, che riannodi, in progressione, tutta la complicata parabola dello scontro di classe degli ultimi decenni. In sostanza, nulla più di una sollecitazione teoretica a me stesso e ad altri che, come me, provano ancora a battersi, nei limiti delle loro capacità e possibilità, per una ripresa del marxismo rivoluzionario.

 

 Guevara e il socialismo reale

L’identità comunista non è un fatto statico, acquisito una volta e basta; al contrario, è l’elemento della lotta il suo essenziale dato costitutivo. La lotta per l’identità comunista si sviluppa, in un qualsiasi militante che voglia essere davvero protagonista delle sue convinzioni, con due essenziali movimenti: a) una lettura marxista del mondo; b) una prassi reale del rapporto col mondo che incessantemente riproponga, a sua volta, una lettura/rilettura del marxismo e delle convinzioni date per acquisite. Questo avviene per un singolo militante, per gruppi di militanti, per generazioni di militanti. Sempre “essere comunista” vuol dire lottare per esserlo; sempre l’identità comunista equivale al processo della sua formazione; processo avvenuto, nelle sue linee generali e per l’intera epoca storica del capitalismo, grazie al marxismo in particolare, ma che al tempo stesso è perennemente in corso nelle determinate generazioni, nei determinati gruppi, nei determinati individui.

L’identità comunista di Guevara non fa eccezione. Essa va vista non in riferimento al modello astratto e metastorico di un presunto, inesistente “marxismo compiuto”, bensì nel suo intreccio con la sedimentazione concreta dell’identità rivoluzionaria di quegli anni, mettendo al centro dell’indagine le linee di interazione della specifica prassi politica di Guevara con quella stessa sedimentazione storica. La domanda di partenza sarà dunque: quale comunismo e quale marxismo aveva di fronte a sé Guevara? La risposta, detto con tutta la brutalità necessaria, è che si trattava del marxismo codificato e imbalsamato dall’Internazionale comunista degli anni ’30; ed era il comunismo dello Stato sovietico. Di più: era la versione kruscioviana della destalinizzazione, con il corollario della coesistenza pacifica e delle vie nazionali al socialismo. Siamo, cioè, ancora dentro l’effetto lungo della sconfitta rivoluzionaria degli anni ‘20 in Europa e del conseguente “arretramento bonapartista”, e progressivamente controrivoluzionario, della Russia staliniana.

L’identità rivoluzionaria era stata profondamente stravolta, teoreticamente prima ancora che praticamente, in quel decennio di arretramento e sconfitta (per dare dei termini a quo e ad quem, mi riferisco ai sette anni e mezzo che vanno dalla drammatica insurrezione di Berlino e dal soffocamento delle rivoluzioni di Monaco e Budapest del 1919 al massacro della Comune di Shanghai del 1927, passando per la normalizzazione reazionaria in Polonia, per il biennio rosso in Italia, per gli scioperi insurrezionali dei minatori inglesi e dei portuali americani, per l’insurrezione di Amburgo del 1923, per l’insurrezione di Canton del 1926, eccetera, eccetera). Di fatto, lo strappo col capitalismo restò confinato nella sola Russia; poi, dagli anni ’30 agli anni ’60, i fili rossi divennero ancora più confusi, contraddittori e dispersi.

Confuso, sulla stessa cruciale questione delle caratteristiche borghesi del potere in Urss, il trotzkismo (col quale Guevara avrà comunque delle affinità: non mi pare di piccolo significato il fatto che portasse con sé in Bolivia, tra i pochi libri, la Storia della rivoluzione russa di Lev Trotzkji); dispersi o arroccati nel formulismo dei princìpi, quanti si richiamavano alla elaborazione della sinistra comunista tedesca, olandese e italiana dei primi anni venti; largamente attraversata dagli schemi staliniani la stessa innovativa ricerca teorica e pratica del maoismo. Spiragli di luce sarebbero venuti in seguito: sul piano teorico, con la diffusione delle analisi di Amadeo Bordiga e Charles Bettheleim sul carattere capitalistico della società sovietica; sul piano pratico e teorico con l’esperienza della rivoluzione culturale cinese e con lo sviluppo dei movimenti operai e studenteschi nell’Occidente capitalistico dei tardi anni ‘60.

La vicenda di Guevara si situa, dunque, in anni ingrati, in un periodo nel quale l’emancipazione teorica dallo stalinismo è cosa davvero difficile. Tanto più nel fuoco, reale e non metaforico, dei processi rivoluzionari antimperialisti. Ciò nonostante, il rapporto tra Guevara e il socialismo reale si presenta molto meno scontato di quanto ci si potrebbe aspettare.

Il più evidente terreno di diversità concerne il pacifismo teorizzato dal comunismo ufficiale. Nel famoso messaggio dell’aprile 1967 inviato dalla Bolivia alla Conferenza Tricontinentale dell’Avana, il Che arriverà addirittura ad accusare di connivenza con l’imperialismo americano la stessa Unione Sovietica:

 Ma sono altrettanto colpevoli coloro che nell’ora della decisione hanno esitato a fare del Vietnam una parte inviolabile del territorio socialista, correndo il rischio, sì, di una guerra mondiale, ma costringendo anche i nordamericani a una decisione.[i]

Il Vietnam costituiva, per il Che, la cartina di tornasole dello scontro generale tra oppressi e oppressori. Di qui la proposta dei “due, tre, dieci, molti Vietnam”: l’indicazione è di generalizzare lo scontro con l’imperialismo, attraverso un unico grande processo rivoluzionario che parta dal Terzo mondo:

 Visto che gli imperialisti, con la minaccia della guerra, esercitano il loro ricatto sull’umanità, la giusta risposta è di non temere la guerra. Attaccare duramente, incessantemente, in ogni punto del confronto deve essere la tattica generale del popolo.[ii]

 L’assonanza con la polemica aperta dai cinesi in particolare verso Palmiro Togliatti e Nikita Krusciov è palese.[iii] Si rifiuta l’idea della situazione bloccata, della pace sociale all’ombra oppressiva del ricatto nucleare. Si rifiuta, cioè, la sostanza della kruscioviana “coesistenza pacifica” e della togliattiana “via nazionale al socialismo”. Non a caso, Guevara, negli ultimi anni della sua vita e della sua attività, veniva trattato con estrema diffidenza dal comunismo ufficiale:

 Gli amici (cioè i partiti comunisti del blocco dell’est, n. d. a.) mi chiamano nuovo Bakunin, e protestano per il sangue sparso e che si spargerebbe nel caso di altri tre o quattro Vietnam.[iv]

Da parte sua, il Che ricambiava ostilità e diffidenza. Al giornalista de “L’unità” Franco Petrone, che lo intervistava ad Algeri nel novembre del 1964, confidò, in tutta semplicità, che “Togliatti aveva torto su tutto”. Ricorderà più tardi l’articolista che “tutte le istituzioni ufficiali, i partiti tradizionali e le organizzazioni di massa esistenti erano da lui messe sotto accusa”.[v]

Particolarmente duro e significativo fu il rilievo che Guevara mosse pubblicamente all’URSS nel febbraio del 1965, ad un seminario internazionale sulla pianificazione tenutosi ad Algeri. In quella sede egli osservò che l’Unione sovietica, utilizzando i prezzi di mercato mondiale per i suoi scambi col Terzo mondo, si rendeva obiettivamente complice dello sfruttamento imperialistico. Ma affermare che il rapporto tra russi e Terzo mondo avvenisse dentro le leggi generali dello scambio diseguale dell’imperialismo equivaleva a tacciare Mosca di social-imperialismo. La stessa accusa, in sostanza, mossa dei cinesi e dei gruppi maoisti di tutto il mondo.

Ancor più significativo è il fatto che Guevara avvertisse, pur se in modo confuso e non sistematizzato, la presenza del capitalismo nella struttura economica e sociale dell’URSS. Nelle periodiche conversazioni tenute al ministero dell’industria cubana nel corso dell’anno 1964 – pubblicate in Italia da Il Manifesto rivista (numero 7, 1969) – il Che è piuttosto esplicito. Fa particolare impressione la registrazione stenografica di un suo intervento sull’esistenza, in Unione Sovietica, dei meccanismi tipici dell’economia di mercato. Guevara è cauto nel definire l’accusa – “Non intendo in nessun modo sostenere, con questo, che in Unione Sovietica c’è il capitalismo” – e sbaglia nell’individuazione delle cause – “Siamo in presenza di alcuni fenomeni che si producono perché c’è una crisi di teoria, e la crisi di teoria viene dal fatto che si è dimenticato Marx e che ci si basa soltanto su una parte del lavoro di Lenin, il Lenin degli anni ‘20” -. Ciò nonostante il discorso resta, alla fine, inequivoco: Jugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia, Germania Orientale sono all’avanguardia di “una serie di paesi che, tutti, stanno cambiando strada… Si ritorna alla teoria del mercato, si ricorre di nuovo la legge del valore, si rafforzano gli incentivi materiali”.

Dell’anno dopo, il 1965, è una più ampia riflessione, avviata in Africa e completata nel suo soggiorno clandestino a Praga dopo l’avventura in Congo. È stata pubblicata a Cuba solo nel 2006 e non è ancora disponibile in edizione italiana Si tratta dei suoi appunti critici sul Manuale di Economia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS.[vi] Nell’edizione cubana viene posta, a mo’ di premessa, uno scritto indicato come “lettera a Fidel Castro”,[vii] nella quale viene formulato un giudizio davvero senza appello:

 In realtà, il taylorismo non è diverso dallo stacanovismo, puro e semplice lavoro a cottimo o, per meglio dire, lavoro a cottimo rivestito di una serie di orpelli, e quel tipo di remunerazione fu scoperto nel primo piano dell’Unione Sovietica come un’invenzione della società sovietica. Il fatto vero è che tutta l’impalcatura giuridico-economica dell’attuale società sovietica parte dalla Nuova Politica Economica; in essa si conservano i vecchi rapporti capitalistici, restano le vecchie categorie del capitalismo, esiste cioè la merce, esiste, in certo modo, il profitto, l’interesse riscosso dalle banche ed esiste, naturalmente, l’interesse materiale diretto dei lavoratori. A mio modo di vedere, tutto questo impianto, tutto questo appartiene a quello che potremmo chiamare, come ho già detto, un capitalismo premonopolistico.[viii]

Manca certamente, sia nel Guevara delle conversazioni al Ministero dell’Industria e sia nel Guevara che ragiona a Praga sul socialismo mentre progetta la nuova avventura in Bolivia, un’idea chiara della stratificazione sociale nei paesi a capitalismo di Stato. Anzi, manca proprio la stessa, decisiva nozione di “capitalismo di Stato”. Anche le critiche, nette e ripetute, al sistema degli incentivi materiali – “e sono i direttori che ogni volta ci guadagnano di più”, si legge nella citata raccolta de Il Manifesto - risentono più del moralismo dell’uomo che della chiarezza del marxista. Questi limiti in Guevara ci sono. Ci sono e restano evidenti. Restano evidenti, però, anche i suoi tentativi, davvero notevoli per quegli anni, di discutere apertamente le profonde contraddizioni del comunismo ufficiale, senza dover disperdere, per questo, la forza propulsiva del marxismo e dell’ottobre del 1917.

 

 La tesi della rivoluzione ininterrotta

Disse una volta il poeta Pablo Neruda che il Che e Castro rappresentavano la dignità dell’America Latina. Un tale giudizio, probabilmente esatto per Fidel Castro, lo reputo alquanto penalizzante per Guevara, poiché egli non fu soltanto, e non fu neppure principalmente, il campione del riscatto di un continente soggetto alla dominazione imperialistica. In Guatemala, Cuba, Congo e Bolivia, i paesi che videro il suo diretto impegno rivoluzionario, la questione centrale era davvero lo scontro con l’imperialismo; e Guevara fu fino in fondo consapevole di quella priorità storica. Tuttavia, dentro la lotta antimperialista, a differenza di Castro e di molti altri esponenti delle rivoluzioni anticoloniali degli anni ‘50 e ‘60, egli inserì fin dall’inizio contenuti e prospettive che andavano ben al di là del riscatto nazionale e della stessa questione contadina.

Il messaggio fondamentale che ci viene da Guevara a proposito della lotta antimperialista è che essa non possa essere condotta a fianco della borghesia nazionale. Anzi, nei suoi scritti è costante proprio il ridimensionamento della contraddizione tra borghesia nazionale ed imperialismo. La sua convinzione è limpida: “nelle condizioni attuali dell’America Latina, la borghesia nazionale non può dirigere la lotta antifeudale e antimperialista”.[ix]

Questo secco giudizio poggiava, in effetti, sulla considerazione del profondo processo degenerativo della borghesia sudamericana:

 Le borghesie autoctone hanno perso ogni capacità di opposizione all’imperialismo – semmai l’ebbero una volta – e costituiscono soltanto il suo vagone di coda.[x]

Non si pone neppure, di conseguenza, il tema della partecipazione subordinata della borghesia al processo antimperialistico, poiché “le borghesia nazionali si sono unite, nella loro grande maggioranza, all’imperialismo e dovranno subire la sua stessa sorte in ogni paese”.[xi]

Con l’esclusione delle borghesie nazionali la composizione sociale del fronte antimperialista viene a coincidere, di fatto, con l’insieme delle masse subalterne: contadini, operai, piccola borghesia urbana e rurale. L’accento è posto sull’elemento contadino, e il Che in più occasioni ribadisce il legame strettissimo tra rivoluzione antimperialista, rivoluzione contadina e riforma agraria. Il dato oggettivo della stratificazione sociale del continente sudamericano, e in generale del Terzo mondo, spingeva inesorabilmente verso la centralità delle campagne:

 Nei nostri paesi esistono un’industria sottosviluppata e un regime agricolo a carattere feudale. È questa la ragione per cui, nonostante la durezza della condizione operaia delle città, la popolazione rurale vive in condizioni ancora più orribili di sfruttamento e di oppressione. Ma essa è anche, salvo poche eccezioni, il settore maggioritario, che talora supera il 70% della popolazione latino-americana.[xii]

Ma il Che non è Zapata, non è Pancho Villa. Nel suo caso non regge il cliché del rivoluzionario contadino:

 Ma il contadino fa parte di una classe che, in seguito allo stato di incultura in cui è mantenuto e all’isolamento in cui vive, ha bisogno della direzione rivoluzionaria e politica della classe operaia e degli intellettuali rivoluzionari, direzione senza la quale non potrà, da solo, lanciarsi nella lotta e conquistare la vittoria.[xiii]

La posizione di Guevara ruota, dunque, intorno ai seguenti punti: nessuna alleanza con la borghesia nazionale; centralità militare e sociale dell’elemento contadino; direzione complessiva in mano alla classe operaia. Ciò significa che la fase agraria sarà solo la parte iniziale di un processo rivoluzionario ininterrotto, qualcosa di assai simile alla maoista “lotta di lunga durata”.[xiv] Del resto, per il Che, la polarizzazione delle forze avviene già nella fase iniziale, quando s’avvia il movimento insurrezionale con “gli sfruttatori da una parte e gli sfruttati dall’altra; la massa della piccola borghesia penderà da una parte o dall’altra conformemente ai suoi interessi e all’abilità con cui verrà trattata; la neutralità costituirà un’eccezione”.[xv]

Si capisce, allora, perché anche i primi provvedimenti della trasformazione agraria venissero pensati nella prospettiva degli ulteriori passaggi del processo rivoluzionario:

La proprietà privata dovrà assumere, nelle zone di guerra, la sua funzione sociale. Vale a dire: la terra eccedente, gli utili non necessari al mantenimento di una famiglia agiata, dovranno passare nelle mani del popolo e venir distribuiti equamente e con giustizia.[xvi]

Ma si capisce, soprattutto, la polemica inesistente con la forma istituzionale della democrazia borghese:

 Lottare semplicemente per strappare il ripristino di una certa legalità borghese, senza porre il problema rivoluzionario, il problema della conquista rivoluzionaria del potere, significa ritornare a un certo ordine prestabilito dalle classi dominanti.[xvii]

 Nel “Comunicato n. 4” al popolo boliviano, Guevara esplicitò chiaramente il concetto: la liberazione antimperialista è solo il programma minimo di un unico processo rivoluzionario ininterrotto, il cui obiettivo strategico si presenta di segno inequivocabilmente proletario e comunista:

Costruire una nuova società senza classi, nella quale imperi la giustizia sociale con uguali diritti e doveri per tutti, nella quale le ricchezze siano sfruttate dal popolo a beneficio del popolo.[xviii]

 In questo quadro, l’invito a un nuovo internazionalismo assume tutt’altra valenza dalla normale ricerca di solidarietà delle lotte antimperialiste. E l’amarezza con cui egli guardava alla vicenda vietnamita – “la solidarietà del mondo progressista con il popolo del Vietnam somiglia all’amara ironia che l’incitamento della folla costituiva per i gladiatori romani nel circo” -[xix] è stavolta tutta politica e per niente morale. Non si tratta, infatti, di fare gli auguri alle rivoluzioni, ma di condividerne la sorte, di accompagnarle nella morte o nella vittoria. Al proletariato internazionale e ai comunisti di tutto il mondo chiede, cioè, la partecipazione attiva ai processi rivoluzionari in corso, in particolare alla rivoluzione continentale dell’America Latina:

 Che si sviluppi un vero internazionalismo proletario, con eserciti proletari internazionali, dove la bandiera sotto la quale si combatte diventi la causa sacra della redenzione dell’umanità, sicché morire sotto le insegne del Vietnam, del Venezuela, del Guatemala, del Laos, della Guinea, della Colombia, della Bolivia, del Brasile, per non citare che i teatri attuali della lotta armata, sia glorioso e desiderabile tanto per un americano che per un asiatico, un africano o anche un europeo.[xx]

Questa insistenza imperiosa sulla partecipazione diretta è legittimata dalla doppia continuità del processo rivoluzionario: nel Terzo mondo, immediata trascrescenza della rivoluzione antimperialista in rivoluzione socialista; su scala planetaria, e proprio a partire dal Terzo mondo in fiamme, la rivoluzione proletaria mondiale. È il concetto, ancora una volta maoista, delle campagne che accerchiano le città:

 In definitiva bisogna tener conto che l’imperialismo è un sistema mondiale, ultima tappa del capitalismo, e che bisogna batterlo in un grande scontro mondiale. La parte che tocca a noi, sfruttati e sottosviluppati del mondo, è quella di eliminare le basi di sussistenza dell’imperialismo.[xxi]

Il cerchio si chiuderà, alla fine, con la rivoluzione nelle cittadelle del capitalismo: per Guevara, almeno in linea di principio, “il compito della liberazione tocca ancora ai paesi della vecchia Europa, abbastanza sviluppati per sentire tutte le contraddizioni del capitalismo. In questi paesi le contraddizioni assumeranno, nei prossimi anni, carattere esplosivo”.[xxii]

  

L’impronta soggettivistica in Guevara

Per il nesso strettissimo che istituisce tra antimperialismo e anticapitalismo, per le sue convinzioni generali sul processo di rivoluzione mondiale del proletariato e per la sua idea, non ristretta all’orizzonte russo, del comunismo, io credo che vada riconosciuta a Guevara una autentica spinta all’innovazione del marxismo. Nel senso, già chiarito, che si svolge in lui una lotta reale per vivere, affermare e rigenerare il marxismo, per costruire e realizzare, anche dentro di sé, una identità comunista in cammino. La sua figura resta, forse, la più emblematica del marxismo terzomondista degli anni ‘50 e ‘60, con le sue grandi potenzialità di riscatto generale dell’umanità, ma anche con le sue difficoltà e le sue contraddizioni.

La contraddizione, fra tutte la più drammatica, si situa già nella scelta di un marxismo più autentico, capace di ritrovare la irriducibilità dell’antagonismo di classe attorno al rapporto sociale di capitale, e però privo, per tutta una non breve fase storica, del soggetto fondamentale del movimento reale verso il comunismo, ovvero la classe operaia dei principali paesi capitalistici. Essa appare, infatti, integrata, paga delle briciole dei sovraprofitti, compattata dietro i modelli socialdemocratici, ingabbiata all’interno di quello che già l’opposizione maoista definiva “moderno revisionismo”. Del resto, Guevara non nutre illusioni sulle potenzialità, immediate e di medio periodo, della classe operaia metropolitana. Andavano prima eliminate “le basi di sussistenza dell’imperialismo”, da cui provenivano i sovraprofitti e la conseguente corruzione del proletariato europeo e nordamericano.

In realtà, per il Che, la contraddizione di classe, quella tra sfruttati e sfruttatori, è l’unica su cui vale la pena di ragionare; essa è pensata come unprius logico e storico anche rispetto al processo intrinsecamente degenerativo del capitale dovuto alla legge immanente della concorrenza. Esagerando, ma non tanto, si potrebbe quasi dire che per Guevara sia la lotta di classe, e in particolare la lotta di classe nel Terzo mondo, a fondare non solo la crisi sociale, ma la stessa crisi economica; e non il contrario:

 Oggi, gli imperialisti del vecchio continente tornano a svilupparsi e il Mercato Comune fa paura agli USA. Ciò potrebbe far pensare che la cosa migliore sia attendere che abbia inizio la lotta tra gli imperialisti stessi… Ci sono ragioni di tempo che ci costringono a scegliere un’altra via. Queste ragioni sono costituite dalla rapidità con cui le contraddizioni di fondo si sviluppano in America (del centro e del sud, n. d. a.): una rapidità che impedisce lo sviluppo “normale” delle contraddizioni del campo imperialista nella sua lotta per i mercati.[xxiii]

La lettura delle contraddizioni complessive del capitalismo accentua, dunque, l’aspetto della lotta di classe rispetto al decorso del ciclo economico e delle crisi di sovrapproduzione. Se vi è soggettivismo nella sua posizione, non è certo nel senso banale delle “forzature” insurrezionaliste, ché su questo, invece, egli si mostra molto più cauto di quanto comunemente si creda. A fronte, infatti, dell’arcinota affermazione, di netta impronta volontaristica, che apre il saggio sulla guerriglia – “Non sempre si deve aspettare che si producono tutte le condizioni favorevoli alla rivoluzione; il focolaio insurrezionale può crearle” -, rinveniamo, nello stesso lavoro, una messe enorme di aggiustamenti di tiro: dall’insistenza sul fatto che occorrono comunque “un minimo di condizioni che rendono realizzabile l’insediamento e il consolidamento del primo focolaio” alla sottolineatura che occorrerà “l’appoggio totale della popolazione della zona quale condizione sine qua non”, e che tale appoggio potrà venire solo “quando tutte le possibilità di lotta politica si sono esaurite”, ovvero quando cessi anche “l’apparenza di legalità costituzionale”.[xxiv]

Guevara non contesta, in via di principio, i termini tradizionali della vulgata marxista per quanto concerne il rapporto tra struttura e sovrastruttura applicata ai processi rivoluzionari: “le condizioni soggettive di ciascun paese, e cioè fattori di coscienza, di organizzazione di direzione, possono accelerare o fermare la rivoluzione, a seconda del suo grado di sviluppo, ma presto o tardi, in ogni periodo storico, quando le condizioni oggettive maturano, la coscienza si acquisisce, l’organizzazione si fa, la direzione si forma e la rivoluzione ha luogo”.[xxv] E però, le condizioni oggettive cui egli si riferisce partono tutte dal livello dato dello scontro delle classi, mentre resta sullo sfondo, senza effettive conseguenze teoriche e politiche, la vigenza reale della dinamiche di sviluppo (in estensione e in profondità) del rapporto di capitale. Che nel Terzo mondo il rapporto di capitale si presentasse in modo ancora largamente indiretto, mentre solamente nei paesi sviluppati esso viveva appieno, con tutto il suo carico di stratificazione sociale e di alienazione del lavoro e della vita, resterà per Guevara un dato di gran lunga meno rilevante dell’altro, quello che, in relazione all’effettivo scontro di classe, ci consegna un Terzo mondo in fiamme e un Primo mondo pacificato:

 In numerosi paesi dell’America Latina, oggi, la rivoluzione è inevitabile. Questo fatto non è determinata da una volontà. È determinato dalle orribili condizioni di sfruttamento in cui vive l’uomo americano, dallo sviluppo della coscienza rivoluzionaria delle masse, dalla crisi mondiale dell’imperialismo e dal movimento universale della lotta dei popoli che scuotono il loro giogo.[xxvi]

 In effetti, è l’asse strategico della rivoluzione mondiale, e non solo quello tattico, a spostarsi verso il Terzo mondo. Di qui l’idea della possibilità di bruciare le tappe verso il socialismo, nonché l’ipotesi, più o meno confusamente formulata, che nel processo di rivoluzione ininterrotta, al proletariato delle grandi metropoli imperialiste spettasse solo la fase finale della liberazione dalla schiavitù del capitale, quasi il semplice coronamento geografico di una emancipazione giocata tutta nello scontro antimperialista e socialista degli oppressi del sud del mondo.

Si intenda bene: io non sostengo qui che sia stato sbagliato ipotizzare un processo di rivoluzione mondiale a partire dalle contraddizioni e dallo scontro reale tra Terzo mondo e imperialismo. Il punto è che i concreti percorsi storici delle rivoluzioni antimperialiste della seconda metà del Novecento hanno abbondantemente dimostrato come la loro trascrescenza in rivoluzioni socialiste non potesse avvenire senza una reale rottura sociale nel seno dei paesi maggiormente sviluppati. Ma proprio gli anni ’50 e ’60 registravano un assordante silenzio del proletariato centrale. Di più: la revisione del marxismo nelle versioni riformiste e di pacificazione sociale trovava concreto alimento proprio nell’equilibrio specifico, istituitosi con l’accumulazione del dopoguerra, tra la classe operaia e il capitale, equilibrio che sembrava soddisfare gran parte dei bisogni primari del proletariato centrale. Silenzio operaio e revisione pacificatrice del marxismo: queste le fredde indicazioni che provenivano dal cuore del rapporto sociale capitalistico.

Il problema del “che fare”, l’ho già sottolineato, non era per nulla semplice in quegli anni; e il marxismo rivoluzionario diveniva terzomondista quasi per necessità di sopravvivenza. In tal modo, preservava la dimensione antagonista della contraddizione; ma, per farlo, era costretto a riscrivere l’intero scontro sociale con una impronta effettivamente soggettivistica.

In quella congiuntura, ed entro i limiti generali delineati, Guevara mostrò, comunque, grande buon senso sul piano della tattica militare. La sua insistenza sul metodo della guerriglia, in contrapposizione al metodo dell’insurrezione, non si tradusse mai nella sottovalutazione della lotta di massa:

 In termini polemici dobbiamo dire anche che coloro i quali intendono fare una guerra di guerriglia dimenticando la lotta di massa, quasi si trattasse di due lotte contrarie, vanno criticati.[xxvii]

Non gli appartenne per nulla l’idea che la guerra di guerriglia bastasse a conseguire la vittoria: “sia ben chiaro che la guerra di guerriglia è una fase della guerra, che non ha in sé la possibilità di conseguire la vittoria”.[xxviii] La scelta guerrigliera era dettata dalle condizioni specifiche di una realtà che vedeva la dittatura aperta terroristica dell’avversario di classe, per cui “contro le mitragliatrici a nulla valgono i petti eroici, e contro le moderne armi di distruzione a nulla servono le barricate, per quanto ben costruite esse siano”.[xxix]

Guevara non intendeva sottovalutare neppure l’azione delle masse operaie dei paesi imperializzati. La sua obiezione era del tutto pratica:

 Qualora le garanzie che sogliono adornare le nostre Costituzioni siano sospese o ignorate… i movimenti operai devono farsi clandestini, disarmati, illegali, e affrontare pericoli enormi; meno difficile è la situazione in aperta campagna, dove gli abitanti appoggiano la guerriglia armata, e in luoghi dove le forze della repressione non possono arrivare.[xxx]

Per concludere su questo punto, a me pare importante stabilire l’esatta sequenza dell’impronta soggettivista del guevarismo: non è sul metodo della guerriglia che va ricercato ma più a monte. Il soggettivismo sta proprio nell’idea di partenza: forzare in senso socialista la concreta lotta antimperialista degli anni ’50 e ‘60, e avviare in quella determinata, sfavorevolissima congiuntura una nuova ondata di rivoluzione proletaria mondiale. D’altra parte, solo in questo tentativo, che fu di Che Guevara, ma anche di altre importanti esperienze rivoluzionarie del Terzo mondo, la Cina in primo luogo, il filo rosso dell’emancipazione rivoluzionaria del proletariato sopravviveva ad un’epoca terribile della sua storia, quando l’onnipotenza del capitalismo sembrava invincibile e la dissoluzione del marxismo quasi del tutto consumata.

Guevara, con le sue idee e le sue scelte politiche, ripropose, in sostanza, il nodo della rivoluzione mondiale del proletariato. Lo ripropose, forse, in termini volontaristici, ma estremamente netti, “senza altra alternativa che la morte o la vittoria, in momenti in cui la morte è una cosa in mille forme presenti e la vittoria un mito di cui soltanto un rivoluzionario può sognare”.[xxxi]

  

La rivoluzione e la “logica d’impresa”

Non sembri un paradosso, ma è proprio allargando ulteriormente la centralità “soggettivistica” dei fattori umani che Guevara guadagnerà un risultato teoretico di grande importanza e attualità, vale a dire l’idea che la nuova umanità non arriverà mai da sola, spontaneamente, dopo il cosiddetto “sviluppo economico socialista”. Al contrario di quello che sostenevano i teorici sovietici, la “nuova umanità” è chiamata ad accompagnare fin dall’inizio la nuova società. Questa acquisizione appare tanto più notevole perché gli manca, è bene ricordarlo, la visione di un capitalismo distinto dallo stadio imperialistico, capace cioè di vivere e prosperare anche al di là del rapporto squilibrato tra il nord e il sud del mondo.

Del resto, negli anni che vanno dal 1960 al 1967, quelli della riflessione più matura del rivoluzionario argentino e cubano, il capitalismo si presentava ancora largamente nel suo stadio imperialistico, proprio per come l’aveva descritto Lenin. È ancora centrale la struttura per monopoli, con la piena integrazione del capitale finanziario e del capitale industriale; e sono decisivi, nei processi di valorizzazione, i sovraprofitti che si formano nella relazione di rapina tra il Nord e il Sud del mondo. La novità che si preciserà qualche decennio dopo come ulteriore rinascita del capitalismo – in più occasioni io l’ho definita “terza fase”, dopo l’età della libera concorrenza e l’età dei monopoli – era già all’opera, in effetti; ma diverrà evidente soltanto nell’ultimo trentennio del XX secolo, e ancor più all’avvio di questo nostro secolo XXI. Mi riferisco al processo di “totalizzazione del rapporto sociale di capitale”, di cui ho largamente discusso in altri miei lavori, ai quali rimando il lettore.[xxxii]

Qui basterà dire che, nell’età della totalizzazione del rapporto sociale di capitale, la produzione reale del valore avviene non più nel perimetro ristretto dei singoli segmenti del lavoro specificamente attivato, bensì nell’ambito della inter-agenza dei fattori produttivi, dentro il reticolo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sedimentate in ogni determinato sistema-paese, e soprattutto attraverso la mobilitazione produttiva dell’intero corpo sociale. Una tale costruzione sinergica del processo di valorizzazione si traduce, inoltre, nella sovrapposizione sempre più stringente di lavoro e vita. Di fatto, si concorre alla produzione della ricchezza sociale anche quando non si lavora, e ciò perché si è parte attiva, indipendentemente dalla propria volontà, dell’individuo produttivo sociale, del general intellect.

In questa epoca, di conseguenza, l’alienazione non si situa solamente nel tempo di lavoro ma anche nel tempo di vita, e il proletariato si estende, in tendenza, alla stragrande maggioranza delle persone ricomprese nel vincolo societario di un sistema-paese, nonché nelle sue propaggini in quanto scambio diseguale del valore-lavoro coi sistemi-paesi meno ricchi (concretamente si tratta degli immigrati; ma anche dei tanti “indigeni” impiegati in Africa, Asia e America Latina dalle cosiddette “multinazionali”, che sono poi null’altro che l’emanazione operativa dei sistemi-paesi più forti). Così il tema della liberazione del lavoro salariato confluisce necessariamente nel nodo storico complessivo della liberazione della persona e della costruzione umana nella sua interezza. I diritti del lavoro diventano sempre più indistinguibili dai diritti degli individui, e il tema della produzione diventa indistinguibile dal tema della salubrità dell’ambiente e dalla ricerca delle condizioni di armonia e vivibilità all’interno delle relazioni sociali, e ciò tanto all’interno dei singoli paesi quanto su scala planetaria.

Guevara sta cronologicamente prima dell’esplicitarsi di questo processo storico; ciò nonostante, seguendo tutt’altro percorso, e magari aprendo fin troppo al soggettivismo teoretico, egli individuerà il tema dell’uomo nuovo,dell’essere umano rinnovato, come il vero problema di fondo della trasformazione sociale. Non la produzione della ricchezza, ma la costruzione di belle persone: questo il compito essenziale della rivoluzione socialista. È una apertura teoretica che non si trova facilmente nelle elaborazioni coeve: giusto in alcuni testi (non tutti) che accompagnarono la rivoluzione culturale cinese; e in alcune, poche teorizzazioni del marxismo eretico occidentale, Ernst Bloch e Herbert Marcuse in particolare.

La “questione antropologica” emerge soprattutto quando Guevara discute di economia. Nella citata lettera che fa da introduzione agli Apuntes críticos a la Economía Política è davvero lapidario:

 Il comunismo è un fenomeno di coscienza, non vi si arriva mediante un salto nel vuoto, una trasformazione della qualità produttiva o il semplice scontro tra forze produttive e rapporti di produzione. Il comunismo è un fatto di coscienza e occorre sviluppare tale coscienza dell’essere umano, di cui l’educazione individuale e collettiva al comunismo è una parte ad esso consustanziale. Non possiamo parlare in termini quantitativi economicamente; forse potremo essere nelle condizioni di pervenire al comunismo entro alcuni anni, prima che gli Stati Uniti siano usciti dal capitalismo… Non possiamo misurare in termini di risorse pro capite la possibilità di entrare nella fase comunista; non esiste una totale coincidenza tra queste risorse e la società comunista.[xxxiii]

 Come si vede è la negazione decisa dei due tempi, dell’idea che andasse costruita prima la nuova società, mentre solo dopo, per filiazione naturale, da tale nuova società sarebbe germogliata la nuova umanità. La tradizione codificata in senso neopositivista della Terza Internazionale prospettava, nell’insieme della transizione rivoluzionaria, una sorte di lunga “fase socialista”; solamente al suo termine, quando le forze produttive fossero state sviluppate appieno, si sarebbe passati alla “fase comunista”, sulla base del principio “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, invece del “principio socialista” che stabiliva “a ciascuno secondo il suo lavoro”. Ed è proprio su tale “principio socialista” che si appunta l’attenzione di Guevara. Proverà addirittura a costruire, da ministro dell’industria, dinamiche innovative di produzione col preciso obiettivo di stringere nell’angolo la legge del valore; e su tali misure condusse una vera e propria battaglia teorica.

A partire dal giugno del 1963 mise, infatti, in circolazione il mensile Nuestra Industria, voce ufficiale del Ministero dell’industria cubana.[xxxiv Nel primo numero troviamo un importante scritto (firmato dal Centro editoriale, ma redatto o comunque chiaramente ispirato e rivisto da Guevara) sul tema dei costi di produzione come base dell'analisi economica delle imprese in relazione al finanziamento di bilancio. La tesi è che il sistema sovietico, e cioè la sostanziale autogestione finanziaria delle imprese, non dovesse essere preso a modello dall'industria cubana. In Russia, pur all'interno di una pianificazione centralizzata, le singole imprese godevano di una ampia libertà e potevano anche prevedere l'utilizzo generalizzato degli incentivi materiali al fine di aumentare la produttività e i cosiddetti “utili (profitti) di impresa”. Ma in tal modo - questa la preoccupazione delChe (che pure da quel primo, cauto articolo si ricava solo per deduzione) -, i principali assiomi della produzione capitalistica, e cioè la legge del valore, la centralità del denaro e il principio di produzione della ricchezza per la ricchezza, tornavano ad avere un ruolo, sia pure condizionati da una proprietà divenuta pubblica e non più privata. Guevara non utilizzerà mai il termine “capitalismo di Stato”, e però appare saldamente convinto che se le imprese restavano delle unità giuridiche a se stanti, gli strumenti del capitalismo sarebbero prima o poi rientrati nel gioco.

In realtà, egli tende ad assumere come modello tecnico i monopoli americani, i quali prevedevano, al loro interno, molte unità produttive, anche di rami diversi, e nondimeno agivano come un unico sistema integrato, con il centro decisionale chiamato a indirizzare e controllare l'attività di ogni singola unità del sistema. L’insistenza del Che è perciò sul ruolo decisivo del budget (ovvero, la elargizione preventiva di risorse), che oppone risolutamente al “calcolo economico” (ovvero, la elargizione di risorse a consuntivo) tipica del sistema sovietico. Le singole imprese, nella sua visione, non debbono disporre di fondi finanziari propri; li ricevono, invece, dal centro (viene a tal fine creata la Junta Central de Planificacion, JUCEPLAN), sulla base di una attenta previsione delle loro necessità. Il budget viene assegnato ad ogni singola impresa dopo una valutazione comprensiva di molti parametri, dai costi agli inventari agli strumenti finanziari, fino agli obiettivi politici che si assegnano alle produzioni particolari.

La prima conseguenza di un tale sistema di funzionamento è che il denaro tenderà a depotenziarsi come mezzo di pagamento delle merci scambiate da una unità produttiva all’altra; la qual cosa implica che i molti manufatti che costituiscono la normale componentistica dei processi produttivi complessi, almeno essi, vengano sottratti alle dinamiche stringenti della domanda e dell’offerta: non diventano anch’essi, cioè, specifici “beni di consumo” ad ogni passaggio, e non rafforzano più, ancor prima del consumo finale, le dinamiche di mercato.

La seconda conseguenza è che le aziende in difficoltà, o addirittura improduttive, possono ugualmente trovare le risorse di cui necessitano attingendo al fondo nazionale.

La terza e più importante conseguenza è che proprio l’attività di lavoro, la concreta fatica umana all’interno delle aziende, potrà trovare un po’ di respiro e non sarà più totalmente condizionata dalla corsa agli utili d’impresa.

Si tratta di una sperimentazione che contiene evidenti punti di criticità: primo fra tutti, la qualità della burocrazia impiegata nella costruzione dall'alto dei budget d’impresa. Il Che sottolinea fortemente che dovrà trattarsi di quadri rivoluzionari molto politicizzati, oltre che esperti, e rassicura che il loro potere verrebbe comunque riequilibrato dal controllo popolare dell'intero sistema. Confida, in sostanza, sul sentimento di solidarietà diffusa dalla pratica rivoluzionaria; e però la linea di marcia è chiara: vuole che nella transizione dal capitalismo al socialismo scompaiano, quanto più possibile, le relazioni di mercato. E vuole questo proprio perché l'obiettivo, già in quel passaggio, resta esattamente l'avvio dell'uomo nuovo.

Siamo ad una diversità di accenti significativa anche rispetto a Lenin. Per Guevara, la transizione che s’avvia con la presa rivoluzionaria del potere non è affatto obbligata a scendere a patti con la borghesia della tecnica e delle professioni. “Soviet + elettrificazione” fu, come è noto, la scelta di partenza della rivoluzione russa. Sembrò inevitabile in quel tempo; e inevitabile sembrò anche quando essa evolse ulteriormente nella strategia staliniana del “socialismo in un solo paese”. Solo che ci fu un “piccolo” imprevisto: la “elettrificazione” (e cioè l’industrializzazione, la modernizzazione economica) poteva essere portata avanti in modo accelerato solo grazie alla tecnocrazia e alla nomenklatura, e cioè con la centralità dei quadri sociali della tradizionale borghesia e dei nuovi quadri tecnici della burocrazia. Dentro l’esaltazione generale della nuova trasformazione industriale dell’URSS, questi ultimi, che pure provenivano da famiglie proletarie, si staccavano rapidamente e con entusiasmo dalla fatica del lavoro operaio. La conseguenza politica fu la obiettiva messa in sordina dei soviet e la altrettanto obiettiva riparametrazione degli assetti sociali proprio attorno alla tecnocrazia e alla nomenklatura.

Guevara, che pure all’inizio dei suoi viaggi nei paesi dell’est fu affascinato da ciò che vedeva, si convinse rapidamente che il modello russo non potesse andare realmente nella direzione di una “nuova umanità”. Si convinse, cioè, che la “elettrificazione”, ovvero l’innalzamento delle capacità produttive di Cuba, dovesse poggiare non solo sull'insieme del lavoro sociale e sul suo carattere essenzialmente cooperativo, mettendo l’accento sullo spirito della solidarietà rivoluzionaria, ma soprattutto che dovesse procedere sempre in intima connessione con la trasformazione delle relazioni civili e intersoggettive, ovvero col percorso rivoluzionario del hombre nuevo.

Le sue tesi non passarono indolori a Cuba. La “linea budgetaria” fu esplicitamente criticata, ad esempio, dal comandante Alberto Mora, ministro del commercio estero e intimo di Guevara stesso. Sulla rivista Comercio Exterior Mora scrisse nell’estate del 1963 un articolo intitolato “Sulla messa in discussione del funzionamento della legge del valore nell'economia cubana nel periodo attuale”, criticando le tesi di Guevara senza nominarlo. IlChe rispose in ottobre sul terzo numero di Nuestra Industria, ripubblicando l'articolo di Mora in uno con la sua risposta, che titolò “Sul concetto di valore. Risposte ad alcune affermazioni sull'argomento”. La tesi del Che è che la legge del valore “regola i rapporti commerciali nell'ambito del capitalismo” più o meno linearmente; essa però, in presenza di un forte intervento statale - ed è questo il caso dei paesi dove è avvenuta la rivoluzione - diviene intrinsecamente distorcente. Per usare le sue parole, “è soggetta a distorsioni se i mercati, per un motivo o per un altro, subiscono distorsioni”.[xxxv]

Certamente la proprietà statale non era ancora proprietà sociale, e questo risultava evidente, non fosse che per i contrasti continui che intervenivano tra le stesse imprese statali dell’URSS. Ma un tal dato non significava, per il Che, che bisognasse accettare la logica del mercato. Significava solo impegnarsi più tenacemente a contrastare, con l’azione politica rivoluzionaria, le tendenze spontanee del capitalismo nella fase della transizione. Nel febbraio del 1964 ritornerà in termini ancora più netti, con l’articolo “A proposito del sistema del finanziamento di bilancio”, sul nodo decisivo degli stimoli alla produzione attraverso gli incentivi:

 Stimolo materiale diretto e coscienza sono termini contraddittori… Il lavoro deve cessare di essere una penosa necessità per diventare un piacevole imperativo. I nuovi rapporti di produzione devono servire ad accelerare l’evoluzione dell’uomo verso il regno della volontà.[xxxvi]

In quegli stessi giorni, rispondendo, sempre sulla rivista del Ministero, ad una lettera di José Medero, insisterà ancora sulla centralità dell’adesione morale dei lavoratori al processo produttivo:

 Contrapporre l’inefficienza capitalista all’efficienza socialista è confondere i desideri con la realtà. È nella distribuzione che il socialismo presenta indubbi vantaggi, e nella pianificazione centralizzata… Vincere il capitalismo con i suoi stessi feticci a cui si è tolta la qualità magica più efficace, il lucro, mi sembra un’impresa ardua… Se il discorso è oscuro, il mio orologio segna la mezzanotte passata, forse quest’altra similitudine potrà chiarire la mia idea. La leva dell’interesse materiale del socialismo è come la lotteria di Pastorita; non arriva a far brillare gli occhi ai più ambiziosi né a scuotere l’indifferenza degli altri.[xxxvii]

Così, mentre i sostenitori delle idee sovietiche puntavano sull’autogestione finanziaria delle imprese, sull’autonomia imprenditoriale e sullo stimolo materiale come principale strumento per incrementare la produzione, con salari ben differenziati che remunerassero la produttività, il Chedifendeva a spada tratta la centralizzazione squisitamente politica dell’industria. Il nodo cruciale di tale centralizzazione era impedire alle imprese di funzionare, appunto, con la “logica d’impresa”.

 

 La questione decisiva della nuova umanità

Uno dei temi centrali della discussione economica a Cuba riguardava, dunque, gli incentivi materiali. Ed in intreccio stretto con tale questione si disputava acremente sull’effettivo valore economico del “lavoro volontario”.

A proposito della zafra, il taglio della canna da zucchero, rivelatosi nel 1962 ampiamente inferiore alle aspettative (4,8 milioni di tonnellate, due in meno dell’anno precedente), l’agronomo francese René Dumont, chiamato dai cubani come esperto,[xxxviii] puntò decisamente l’indice proprio contro il lavoro volontario: le spese di trasporto dei volontari superavano il risparmio in salari, il taglio fatto da mani inesperte rendevano troppo spesso inutilizzabili i ceppi per i futuri raccolti, lo stesso effetto pedagogico diveniva insignificante per la pigrizia dei raccoglitori. Era comunque incontestabile che il lavoro volontario, proprio per le sue caratteristiche, non poteva supplire alla contrazione della produzione: nella provincia di Oriente, un volontario raccoglieva appena 1,2 casse al giorno di caffè contro le 7 casse di un bracciante abituato…[xxxix]

Si trattava di osservazioni di buon senso, che fornivano argomenti importanti ai sostenitori del modello sovietico di razionalizzazione della produzione a partire dagli incentivi materiali. Lo stesso Guevara era ben consapevole dei limiti strettamente economici dell’apporto del lavoro volontario, ma difese sempre con passione la sua introduzione nella concreta attività di lavoro. Lo faceva soprattutto per una ragione politica: il lavoro volontario poteva costituire una leva potente per accorciare le distanze tra l’alto e il basso della società, distanze che mutavano di carattere e di entità e che però non scomparivano spontaneamente nel percorso della rivoluzione. Anzi, proprio per la inedita centralità assunta dai processi di decisione politica, la distanza tendeva addirittura ad aumentare, almeno attorno al nodo del “potere”: chi poteva espletarlo direttamente, proprio come individuo, non si trovava affatto sullo stesso piano dei tanti che il potere riuscivano ad espletarlo solo saltuariamente e indirettamente, nell’ambito delle sedi collettive di discussione e decisione.

È delle differenze sociali che si preoccupava il Che. Nell’estate del 1962, parlando con una delegazione di professionisti cileni di sinistra, il comandante spiegava la scelta del lavoro manuale proprio con la necessità di accorciare le distanze tra coloro che stavano dietro una scrivania e la massa dei lavoratori:

Entrare in contatto con la gente, fare indigestione di gente, è una cosa utile per la classe dirigente, perché il suo lavoro tende alla burocratizzazione e alla separazione dalle masse… L’idea è quindi che tutti quelli che svolgono incarichi dirigenziali, ministri, sottosegretari, direttori, dedichino un mese di ferie al lavoro manuale… I risultati sono stati positivi. Si creano nuovi rapporti con i lavoratori. I dirigenti conoscono meglio le condizioni del lavoro manuale e ciò che si può aspettare da esso.[xl]

 La questione delle differenze sociali ritorna anche a proposito degli incentivi materiali. In un discorso alla Assemblea Generale degli operai della Fabbrica Tessile Ariaguanabo, tenuto il 24 marzo 1963, affermerà senza perifrasi:

 Bisogna anche bandire completamente la convinzione che l’elezione a membro di una organizzazione di massa o del partito dirigente della rivoluzione – a qualsiasi livello di dirigenza – consenta a questi compagni una qualche opportunità di ottenere qualcosa in più rispetto al resto del popolo. Mi riferisco alla politica di premiare il buono con beni materiali, di premiare con beni materiali chi ha dimostrato di possedere maggiore coscienza e maggiore spirito di sacrificio. Ci sono due elementi che vanno a scontrarsi costantemente e a integrarsi dialetticamente nel processo di costruzione del socialismo. È vero infatti che gli incentivi materiali sono necessari, perché usciamo da una società che non pensava ad altro che agli incentivi materiali e costruiamo una società nuova sulla base di quella vecchia società, con tutta una serie di residui nella coscienza della gente, e perché non abbiamo ancora quanto è sufficiente per dare a ciascuno secondo i suoi bisogni. Per queste ragioni l’interesse materiale sarà ancora presente per un certo periodo nel processo di costruzione del socialismo. Però è compito del partito d’avanguardia tenere alta la bandiera opposta, quella dell’interesse morale, quella dell’incentivo morale, quella degli uomini che lottano e si sacrificano senza desiderare altro che l’approvazione dei loro compagni… L’incentivo materiale è una remora del passato, è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti, ma bisogna togliergli il carattere di incentivo prevalente nella coscienza della gente, man mano che il processo avanza… L’incentivo materiale non avrà posto nella società nuova che stiamo creando, si estinguerà lungo il cammino e bisogna preparare le condizioni perché questo tipo di mobilitazione che oggi è reale, vada sempre più perdendo la sua importanza e sia sostituito con l’incentivo morale, il senso del dovere, la nuova coscienza rivoluzionaria.[xli]

 Nella già ricordata lettera-prologo ai suoi appunti critici sulla economia politica, il Che ribadiva come il nodo principale della rivoluzione si situasse esattamente nella riformulazione rivoluzionaria dei rapporti tecnici di lavoro:

 C’è una grossa lacuna nel nostro sistema; come integrare l’uomo al suo lavoro in maniera che non sia necessario ricorrere a quello che chiamiamo il disincentivo materiale, come far sì che ogni operaio senta l’esigenza vitale di sostenere la sua rivoluzione e che il suo lavoro, al tempo stesso, sia un piacere; che senta quello che noi tutti sentiamo qui in alto… Se è un problema di campo visivo e soltanto chi ha la missione, la capacità del grande costruttore può interessarsi al lavoro che fa, saremmo condannati al fatto che un tornitore o una segretaria non lavorerebbero mai con entusiasmo. Se la soluzione stesse nella possibilità di sviluppo di questo stesso operaio in senso materiale, staremmo molto male.[xlii]

 La persistenza degli incentivi materiali, che per il Che sono senz’altro dei “disincentivi” sparsi sul cammino della rivoluzione, ci avverte della difficoltà obiettiva nella costruzione del hombre nuevo. È proprio la legge del valore che funge da “cordone ombelicale invisibile” e costringe l’essere umano alla alienazione dentro la società capitalistica, ad essere in consonanza con le leggi del capitalismo. Il principio che informa il senso comune della società non ancora trasformata dalla rivoluzione è esattamente l’individualismo, la corsa in contrasto con gli altri verso il benessere del singolo. La cultura borghese con le sue narrazioni mostra continuamente “la strada con gli ostacoli che, apparentemente, un individuo dotato delle qualità necessarie potrebbe superare per giungere alla meta. Il premio si intravede in lontananza: il cammino è solitario. Si tratta, per giunta, di una corsa tra lupi: si può vincere solo grazie all’insuccesso degli altri”.[xliii]

Il punto è che ogni rivoluzione, e tanto più una rivoluzione che si prefigga addirittura di capovolgere le fondamenta degli assetti sociali, si trova davanti gli esseri umani per come sono stati formati nella fase precedente. Rispetto ai rapporti civili e sociali del socialismo gli esseri umani si presentano, sottolinea Guevara, come delle entità ancora mutile, come “prodotto non-terminato. Le tare del passato si trasmettono al presente nella coscienza individuale e c’è bisogno di un lavoro continuo per sradicarle”.[xliv]

Si tratta del processo complesso di rinnovamento della coscienza. Esso presuppone, da un lato, l’azione della società che promuove l’educazione diretta e indiretta dei suoi membri – “la società nel suo insieme deve trasformarsi in una gigantesca scuola”,[xlv] afferma il Che; ma, dall’altro, presuppone che sia l’individuo stesso a prendersi cura della propria specifica auto-educazione, cosa che potrà fare solo se progressivamente maturerà una reale adesione morale e sentimentale al processo rivoluzionario in corso. Ma non si può andare con l’educazione in una direzione, e nella direzione opposta con la economia. Se permangono i rapporti di mercato non si faranno mai effettivi passi avanti:

 La merce è la cellula economica della società capitalistica; finché esisterà, i suoi effetti si ripercuoteranno sull’organizzazione della produzione e conseguentemente sulla coscienza… Rincorrendo l’illusione di realizzare il socialismo con l’aiuto delle armi spuntate che ci lascia in eredità il capitalismo (la merce come cellula economica, il profitto, l’interesse materiale individuale come leva, eccetera) si può imboccare un vicolo senza uscita… Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base materiale bisogna creare l’uomo nuovo.[xlvi]

 Non ho molto da aggiungere a questa prosa così intensa. Sottolineo soltanto l’avverbio “contemporaneamente”, poiché è proprio lì che si situa la differenza tra la visione marxista rivoluzionaria e la visione non dialettica e tardopositivista dei processi storici, quella che ha largamente informato il marxismo ufficiale del XX secolo, e che è stata caratterizzata soprattutto dall’idea che il superamento del sistema capitalistico dipendesse essenzialmente dalle sue interne contraddizioni economiche.

Ma come si crea l’uomo nuovo? È sicuramente fondamentale, come pensava Guevara, la battaglia politica contro “la legge del valore”; ma altrettanto decisiva appare, nella sua stessa prosa, la spinta culturale e morale che viene dalle avanguardie, dai militanti comunisti, dalla loro abnegazione e dal loro “spirito di ricerca”.[xlvii] Diventa cioè imprescindibile la qualità umana, e non solo politica, dei comunisti, la loro intrinseca moralità storica, il loro “essere d’esempio”, il loro spingere per andare avanti senza rivendicare nulla per sé. La visione guevarista postula fortemente, in altre parole, l’impegno comunista come lucido sacrificio del “proprio particulare” e come spontanea dedizione agli altri: “in una vera rivoluzione alla quale si consacra tutto, dalla quale non ci si attende alcuna ricompensa materiale, il compito del rivoluzionario di avanguardia è a un tempo magnifico e angoscioso… Mi permetta di dirle, a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore”.[xlviii]

 

NOTE

 


[i] Cfr. Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, Feltrinelli, Milano 1967, p. 200.

[ii] Ibidem, p. 201.

[iii] Cfr. Sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi e Ancora sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi, articoli del Renmin Ribao (Quotidiano del popolo) del dicembre 1962 e del febbraio 1963. Furono stampati poco dopo come unico opuscolo in lingua italiana dalla “Casa Editrice in lingue estere” di Pechino. Su Krusciov, cfr. l’editoriale, sempre del Renmin Ribao, del 14 luglio 1964, significativamente intitolato “Lo pseudocomunismo di Krusciov e gli insegnamenti storici che dà al mondo”.

[iv] Cfr. Ernesto Che Guevara, Diario in Bolivia, Feltrinelli, Milano 1987, p. 151.

[v] Cfr. periodico “Doppiovù”, ottobre 1977.

[vi] Cfr. Ernesto Che Guevara, Apuntes críticos a la Economía Políticaencolaboración con el CentrodeEstudios Che Guevara, Ocean Sur, La Habana 2006.

[vii] “Viste le specificità del testo, Apuntes criticos a la Economía Política [Note critiche a L’Economia Politica], si è deciso di inserire a mo’ di Introduzione un frammento di una lettera inviata dal Che a Fidel nell’aprile 1965, prima di partire per il Congo, nella quale precisa, tra altri aspetti, le sue “ultime riflessioni” su Politica ed Economia a Cuba. Ne sono rispettati lo stile e la forma” [Nota dell’Editore cubano].

[viii] La traduzione è di Titti Pierini. Sugli inediti di Guevara è tornato più volte Antonio Moscato, studioso molto attento dell’esperienza cubana. Ha scritto anche sui ritardi della pubblicazione tanto del Diario del Congo (avvenuta solo nel 1994, e stranamente all’estero ancor prima che a Cuba) quanto delle Preguntas sobre las enseñanzas de un libro famoso (Manual de economía política, Academia de Ciencias de la URSS), terminate durante la pausa forzata tra il Congo e la Bolivia, prima in Tanzania, poi a Praga (si adopera anche, per tali testi, la dizione di “Quaderni praghesi”).

[ix] Cfr. Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, cit., p. 166.

[x] Ibidem, p. 203.

[xi] Ibidem, p. 183.

[xii]Ibidem, p. 165.

[xiii] Ibidem, p. 166.

[xiv] L’espressione “lotta (o guerra) di lunga durata” venne usata da Mao Tse Tung in una serie di conferenze nel 1938, con riferimento specifico alle caratteristiche della lotta contro l’invasione giapponese della Cina, cominciata nel 1937. Alcuni decenni dopo, segnatamente nel corso della rivoluzione culturale, l’espressione assunse un significato più generale, con riguardo soprattutto alla transizione dal capitalismo al comunismo.

[xv] Cfr. Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, cit., p. 179.

[xvi] Ibidem, p. 45.

[xvii]Ibidem, p. 169.

[xviii] Cfr. Ernesto Che Guevara, Diario in Bolivia, cit., p. 201.

[xix] Cfr. Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, cit., p. 200.

[xx] Ibidem, p. 211.

[xxi]Ibidem, p. 209.

[xxii]Ibidem, p. 202.

[xxiii]Ibidem, p. 182.

[xxiv]Ibidem, p. 12.

[xxv]Ibidem, p. 167.

[xxvi] Ibidem, p. 167.

[xxvii] Ibidem, p. 164.

[xxviii] Ibidem, p. 17.

[xxix] Cfr. Ernesto Che Guevara, Diario in Bolivia, cit., p. 209.

[xxx] Cfr. Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, cit., p. 13.

[xxxi] Ibidem, p. 180.

[xxxii] Cfr. R. Malinconico, Teoria della totalizzazione, edizioni Melagrana, S. Felice a C. 2013, segnatamente il II vol., quarta sezione, sulle “nuove formule del valore-lavoro”.

[xxxiii] Cfr. Ernesto Che Guevara, Apuntes críticos a la Economía Política, op. cit.

[xxxiv] Paco Ignacio II Taibo ricorda, nella sua ampia biografia del che, come la rivista venisse stampata con carta ottenuta dagli scarti di lavorazione della canna da zucchero. Cfr. P.I. Taibo II, Senza perdere la tenerezza, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 504.

[xxxv] Cfr. P. I. Taibo II, Senza perdere la tenerezza, cit., p. 506. Come sottolinea bene Taibo: “Andare verso la autogestione delle imprese per fomentare la concorrenza tra esse significava, per il Che, tornare al capitalismo d’inizio secolo, o dirigersi verso il socialismo avviato su una strada sbagliata, quella della concorrenza e non della cooperazione. Il Che cercava di affrontare soprattutto l’idea delle fabbriche trasformate in mostri guidati non dagli interessi della società ma dalla necessità della redditività” (Ibidem).

[xxxvi] Ibidem, p. 523.

[xxxvii] Ibidem, p. 527.

[xxxviii] Sulle vicende della agricoltura nella nuova Cuba l’insigne studioso, noto anche perché sarà il primo candidato ecologista alla presidenza francese (nel 1974), scriverà il libro Cuba. Socialisme et développement, Le Seuil, Paris 1964.

[xxxix] Cfr. P. I. Taibo II, Senza perdere la tenerezza, cit., pp. 475 – 476.

[xl] Ibidem, p. 476. È fin troppo evidente l’assonanza di queste affermazioni col sistema del 7 – 4 – 1 (per i lavori impiegatizi e non-manuali in genere, compreso lo studio: sette mesi di attività intellettuale, quattro mesi di lavoro manuale e un mese di vacanza; e viceversa per gli operai e i contadini) effettivamente sperimentato nella Rivoluzione Culturale Cinese del 1966- 69.

[xli] Per l’intero discorso, significativo soprattutto perché ribadisce la concezione del marxismo non come dogma, bensì come “guida per l’azione”, vedasi la pagina web del blog politico-culturale “MovES”: http://www.movimentoesseresinistra.it/blog-movimento/citazioni/2017/03/28/la-costruzione-del-partito/

[xlii] Cfr. Ernesto Che Guevara, Apuntes críticos a la Economía Política, op. cit.

[xliii] Cfr. El socialismo y el hombre a Cuba, in Marcha (Montevideo) 12 marzo 1965, e in Verde Olivo, aprile 1965. L’articolo, in forma di lettera, è indirizzato al giornalista Carlos Quijano direttore del settimanale uruguaiano Morena. La si può leggere in Ernesto Che Guevara, Scritti scelti, a cura di Roberto Massari, Erre Emme, Bolsena 1993.

[xliv] Ibidem.

[xlv] Ibidem.

[xlvi] Ibidem.

[xlvii] A proposito della battaglia culturale, proprio nella lettera su El socialismo y el hombre a Cuba, Guevara si dichiara nettamente contro lo zadnovismo (il termine viene da Andrej Aleksandrovič Ždanov, arbitro negli anni ’30 e ’40 della vita culturale, e non solo culturale, in Russia), poiché non si può combattere l’idealismo borghese con il dogmatismo o con la semplificazione culturale ed artistica. Viceversa, il primo principio della battaglia culturale e morale è proprio quello dell’apertura massima dello spirito di ricerca. In Russia si era operato in modo del tutto opposto: “La ricerca artistica autentica viene annullata e il problema della cultura generale si riduce a una riappropriazione del presente socialista e del passato morto (quindi non più pericoloso). Così nasce il realismo socialista, sulle basi dell’arte del secolo scorso. Ma l’arte realista del secolo XIX è anch’essa di classe, capitalistica forse in una forma più pura di quest’arte decadente del XX secolo, da cui traspare l’angoscia dell’uomo alienato” (in ibidem).

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