La sinistra di fronte al Venezuela

La sinistra di fronte al Venezuela

di Claudio Katz, Rebellión

 Negli ultimi due mesi il Venezuela ha affrontato una terribile ondata di violenza. Si contano già più di 60 morti tra scuole saccheggiate, edifici pubblici incendiati, trasporti pubblici distrutti e ospedali evacuati. I grandi mezzi di comunicazione trasmettono in continuazione denunce macabre del governo. Hanno fissato l’immagine di un dittatore in conflitto con i democratici dell’opposizione.

 Ma i dati di quanto successo non confermano questo racconto, specialmente in riferimento ai morti. Quando essi ammontavano a 39, un primo rapporto ha segnalato che solo 4 erano vittime delle forze di sicurezza. Il resto è morto in saccheggi o sparatorie confuse all’interno delle manifestazioni degli oppositori. Un’altra stima ha segnalato che il 60% degli appurati era completamente estraneo allo scontro.

 Queste caratterizzazioni sono coerenti con le valutazioni che attribuiscono gran parte delle uccisioni a franchi tiratori legati all’opposizione. Indagini più recenti segnalano che il grosso delle vittime ha perso la vita in atti di vandalismo o regolamenti di conti.

 Esistono inoltre innumerevoli denunce di incursioni di gruppi paramilitari legati alla destra. Ci sono anche indizi di un alto tasso di violenze sotto la protezione del potere locale nei municipi governati dall’opposizione.

 Questi bilanci sono in sintonia con la brutalità fascista che ha previsto l’incendio di persone riconducibili al chavismo. Bruciare vivo un militante a favore del governo è una pratica legata più ai paramilitari colombiani o alla malavita che alle organizzazioni politiche tradizionali. Alcuni analisti ritengono che su un totale di 60 morti, 27 fossero militanti chavisti.

 Altri affermano che all’interno dei cortei degli oppositori si siano trovate circa 15.000 persone addestrate come gruppi per gli scontri. Hanno utilizzato cappucci, scudi e armi artigianali per creare un clima caotico e costruire “territori liberati”.

 Le stime presentate dall’opposizione sono diametralmente opposte, ma sono state smentite da dettagliati rapporti sulle vittime. Dal momento che nessuno riconosce l’esistenza di stime “indipendenti”, conviene giudicare quanto successo ricordano gli antecedenti. Nei disordini del febbraio 2014 morirono 43 persone, per la maggior parte estranee allo scontro politico o alla repressione poliziesca.

 Conviene anche riflettere su come reagirebbe l’opposizione di fronte ad una sfida dello stesso tipo. I suoi governi risolsero il Caracazo del 1989 con centinaia di morti e migliaia di feriti.

 La congiuntura venezuelana è drammatica, ma non spiega il rilievo dato al paese in tutti i notiziari. Situazioni di maggiore gravità in altri paesi sono completamente ignorate dagli stessi mezzi di comunicazione.

 Dall’inizio dell’anno in Colombia sono stati assassinati 46 leader sociali e negli ultimi 14 mesi ne sono morti 120. Tra il 2002 e il 2016 le forze paramilitari hanno massacrato 558 dirigenti popolari e il numero di sindacalisti eliminati negli ultimi due decenni supera le 2500 unità. Per quale ragione nessuna emittente di rilievo menziona questa continua carneficina nel principale vicino del Venezuela?

 Il panorama del Messico è ancora più spaventoso. Tutti i giorni i giornalisti aggiornano l’incalcolabile lista di studenti, insegnanti e combattenti sociali assassinati. Nel clima di guerra sociale imposto attraverso le “azioni contro il narcotraffico” sono sparite 29.917 persone. Questo livello di massacro non dovrebbe suscitare l’attenzione giornalistica più del Venezuela?

 L’Honduras è un altro caso inquietante. Insieme a Berta Cáceres sono stati uccisi altri quindici militanti. Tra il 2002 e il 2014 la cifra dei difensori del medio ambiente assassinati è salita a 111. L’elenco delle vittime dell’orrore ignorato dalla stampa egemonica potrebbe essere esteso anche ai prigionieri politici del Perú. In pochi conoscono, inoltre, le sofferenze affrontate dal dirigente indipendentista portoricano Oscar López Rivera durante i suoi 35 anni di prigione.

 La maggior parte della popolazione latinoamericana semplicemente ignora le tragedie imperanti nei paesi governati dalla destra. Il duplice standard informativo conferma che il protagonismo del Venezuela sugli schermi non risponde a preoccupazioni umanitarie.

 MODALITÀ DI UN GOLPE

 La copertura mediatica sostiene il golpismo dell’opposizione. Siccome non riescono ad organizzare una sollevazione pinochetista, tentano processi destituenti incentrati sulla separazione della società. Riprendono quanto tentato nel febbraio 2014, per consumare un golpe istituzionali somigliante a quello realizzato in Honduras (2009), Paraguay(2014) o Brasile (2016). Pretendono di imporre con la forza quello che successivamente legittimeranno nelle urne.

 Alla destra manca la forza militare utilizzata nel passato per recuperare i governi. Ma prova a ricreare gli stessi interventi con scaramucce davanti alle caserme, incendi di stazioni di polizia o cortei fino alle sedi militari.

 Il suo piano unisce il sabotaggio dell’economia alla violenza di strada perpetrato da gruppi arati, che a differenza che in Colombia agiscono in forma anonima. Si mescolano con la malavita e terrorizzano i commercianti.

 Queste azioni includono i metodi fascisti auspicati dalle correnti più violente dell’antichavismo. Si appropriano della simbologia insorgente forgiata dai movimenti popolari e presentano la propria azione depredatrice come un gesto eroico. I loro leader, Leopoldo López, non è un innocente politico. Qualsiasi tribunale secondo diritto lo avrebbe condannato a vita per le sue responsabilità criminali.

 La destra alimenta un clima da guerra civile per demoralizzare le basi del chavismo, colpite dalla mancanza di alimenti e medicine. Fa pressioni esplicite per un intervento straniero e negozia con le banche creditrici un’interruzione dei crediti al paese.

 L’opposizione pretende di linciare Maduro per sotterrare il chavismo. Conduce la sua battaglia per le strade, per la conquista dell’opinione pubblica e il collasso dell’economia. Considera i comizi come una semplice coronazione di questa offensiva.

 Ma incontra ostacoli crescenti. Il predominio dei violenti nelle sue manifestazioni allontana il grosso degli scontenti e sfinisce gli stessi manifestanti. Come già successo nel 2014, quando il rifiuto dei fascisti comprometteva tutta l’opposizione. La permanenza di Maduro dissuade, inoltre, l’affluenza ai cortei. Non sono riusciti a penetrare nei quartieri popolari, dove continuano ad affrontare il rischio di uno scontro armato sfavorevole.

 L’alta borghesia venezuelana istiga al golpe con il sostegno regionale di Macri, Temer, Santos e Peña Nieto. Da mesi spinge nell’OSA un piano destabilizzatore. Ma non ha ottenuto risultati su questo terreno. Le sanzioni contro il Venezuela non sono arrivate grazie all’opposizione di diverse cancellerie ed è rimasta bloccata l’unanimità che negli anni ’60 aveva ottenuto la sospensione di Cuba.

 È noto anche il protagonismo golpista degli Stati Uniti, che provano a recuperare il controllo della principale riserva continentale di greggio. Il Dipartimento di Stato cerca di ripetere le operazioni di Iraq o Libia, sapendo che dopo aver deposto Maduro nessuno si chiederà costa resta del Venezuela. Basta osservare come i mezzi di comunicazione omettono nell’attualità qualsiasi riferimento ai paesi già oggetto di un intervento del Pentagono. Una volta liquidato l’avversario l’informazione si occupa di altri temi.

 Le mete strategiche dell’imperialismo non sono registrate da quanti sottolineano il rapporto stretto tra quale giornale americano e il presidente venezuelano o le ambiguità verbali di Trump. Ritengono che questi dati irrilevanti illustrino l’assenza di conflitto tra gli Stati Uniti e il chavismo. Ma non sottolineano che la stragrande maggioranza della stampa attacca violentemente Maduro e che il miliardario della Casa Bianca smentisce ogni giorno quanto affermato il giorno prima.

 Trump non è indifferente, né neutrale. Semplicemente delega alla CIA e al Pentagono l’implementazione di una cospirazione disegnata attraverso i due piani “Sharp” e “Venezuela Freedom 2”. Queste operazioni comprendono lo spionaggio, il dispiegamento di truppe e la copertura del terrorismo. Si svolgono furtivamente, mentre la stampa smentisce qualsiasi denuncia su questi preparativi. Vengono messe in dubbio soprattutto le “esagerazioni della sinistra”, affinché nessuno disturbi i cospiratori.

 Alcuni analisti ritengono che la presenza di Chevron in Venezuela – o i continui affari della PDVSA (Petróleos de Venezuela S.A.) negli Stati Uniti – dimostrino uno stretto collegamento tra i due governi. Deducono da questa relazione l’assenza di uno scenario golpista. Ma queste connessioni non modificano minimamente la decisione imperiale di abbattere il governo bolivariano.

 Le attività imprenditoriali yankee in Venezuela (e delle sue controparti negli Stati Uniti) sono andate avanti fin dall’inizio del processo chavista. Ma tanto Bush, quanto Obama e Trump hanno cercato di recuperare il controllo imperiale diretto del petrolio. Non gli basta una rigida relazione da soci o clienti. Pretendono di instaurare il modello di privatizzazione imperante in Messico ed estromettere Russia e China dal loro cortile di casa.

 L’ATTITUDINE DELLA SINISTRA

 Se la diagnosi di un golpe reazionario è corretta, l’atteggiamento della sinistra non dovrebbe suscitare divergenze. I nostri principali nemici sono la destra e l’imperialismo, e piegarli è sempre una priorità. Questo principio elementare dovrebbe essere riaffermato nei momenti critici, quando l’ovvio può trasformarsi in vago.

 Qualsiasi fossero le nostre critiche a Salvador Allende, la nostra battaglia centrale era contro Pinochet. Ed era necessario adottare la stessa condotta contro gli sgherri argentini del 1955 o contro i sabotatori di Arbenz, Torrijos e dei diversi governi antimperialisti della regione. Questo stesso atteggiamento prevede oggi in Venezuela di rafforzare un’azione comune contro l’escalation della destra.

 Negli scenari del golpe risulta indispensabile riconoscere anche i responsabili della crisi. Essere causa di un disastro non equivale ad essere impotenti nel risolverlo.

 Questa differenza si verifica sul terreno economico. Gli errori commessi da Maduro sono tanto numerosi quanto ingiustificabili, ma i colpevoli delle condizioni attuali sono i capitalisti. Il governo o è tollerante o è incapace. Non si colloca sullo stesso piano. Quanti commettono il grave errore di far coincidere entrambi i settori confondono responsabilità di diverso tipo.

 Gli errori del governo si sono verificati nell’inefficace cambio del denaro, nell’inammissibile indebitamento estero o nel mancato controllo dei prezzi e del contrabbando. Ma il crollo dell’economia, è stato causato dai ricchi che manipolano la valuta estera, innescano l’inflazione, controllano i beni importati e sottraggono le provviste di beni basilari.

 L’esecutivo non risponde o interviene male per diverse ragioni: inefficienza, tolleranza nei confronti della corruzione, difesa della “boliborghesia”, connivenza con milionari travestiti da chavisti. Ma questo non taglia il sostegno ai gruppi privati che ricevono dollari a basso prezzo per importare a prezzi elevati. Ma il crollo della produzione è stata un’azione voluta dalla classe dominante per colpire Maduro. Ignorare questo conflitto denuncia un insolito livello di miopia.

 Questo accecamento impedisce di registrare un altro dato chiave del momento: la resistenza del chavismo all’assalto della destra. Con metodi e caratteristiche molto discutibili, Maduro non si arrende. Mantiene il verticismo del PSUV, favorisce l’isolamento di correnti critiche e difende una burocrazia che asfissia le risposte dal basso. Ma a differenza di Dilma o di Lugo non si arrende. Si situa agli antipodi della capitolazione che ha consumato Syriza in Grecia.

 Questo atteggiamento spiega l’odio dei potenti. Il governo ha adottato la decisione eccellente di ritirarsi dall’OAS. Ha abbandonato il Ministero delle Colonie e ha concretizzato la rottura che la sinistra ha sempre chiesto. Questa decisione avrebbe dovuto suscitare l’appoggio deciso che invece in pochi hanno esplicitato.

 Dal momento che tutta l’amministrazione è assediata dalla destra, il governo ricorre alla forza per difendersi. I comunicatori dell’establishment denunciano questa reazione con un raro grado di isteria. Si dimenticano delle giustificazioni che abitualmente adottano per governi di altro segno di fronte a situazioni simili. Ma Maduro ha ricevuto critiche inverse anche per la sua relativa pazienza nei confronti dei fascisti. Ha adottato solo misure specifiche di fronte alla ferocia degli oppositori.

 In questa risposta il formalismo ha sicuramente reso possibili delle ingiustizie. È lo spiacevole costo di qualsiasi scontro significativo con la controrivoluzione. Queste avversità sono state presenti in tutte le battaglie contro la reazione da Bolívar fino a Fidel. Bisogna evitare su questo delicato terreno l’autoindulgenza, ma bisogna farlo senza ripetere le calunnie che diffonde l’opposizione.

 Attualmente Maduro dirige i propri cannoni contro la brutalità della destra e non contro il popolo. Per questo sono senza significato i confronti con Gheddafi o Saddam Hussein. Non ha perpetrato nessun massacro di militanti di sinistra, né ha partecipato ad avventure belliche promosse dagli Stati Uniti. L’analogia con Stalin è ancora più ridicola, ma ricorda che lo spettro di Hitler sorvola molti oppositori vicini a Uribe o nostalgici di Pinochet.

 ATTEGGIAMENTI SOCIALDEMOCRATICI

 Negli ultimi mesi si sono moltiplicati, anche tra gli avversari della destra, gli sguardi che incolpano Maduro della rottura in Venezuela. Queste opinioni ripropongono la vecchia attitudine socialdemocratica di associarsi alla reazione nei momenti critici.

 Mettono in dubbio la legittimità del governo con gli stessi argomenti dell’opposizione. Al posto di accusare la CIA, gli sciacalli o l’OAS, concentrano le proprie obiezioni sul chavismo. Adottano questo atteggiamento in nome di un ideale democratico tanto astratto quanto separato dalla battaglia per definire chi prevale nel controllo dello stato.

 Questo atteggiamento ha inciso su vari pensatori del post-progressismo legati all’autonomismo. Non solo accusano Maduro per situazione attuale. Affermano che ha rafforzato una leadership autoritaria per mantenere il modello della rendita petrolifera.

 Questa posizione è molto simile alla tesi liberale che attribuisce tutti i problemi del Venezuela a politiche populiste, implementate da tiranni che sprecano le risorse dello stato. Con un linguaggio più diplomatico la diagnosi è somigliante.

 Altre opinioni dello stesso segno evidenziano in modo più categorico la responsabilità del leader chavista. Chiedono, inoltre, di evitare il “semplicismo cospirativo che incolpa la destra o l’imperialismo” per il dramma che sta vivendo il paese. Ma le cospirazioni della destra sono immaginarie? Le uccisioni, i paramilitari i piani del Pentagono sono paranoiche invenzioni bolivariane?

 Senza rispondere a questo interrogativo elementare questo atteggiamento scarta anche qualsiasi confronto con quanto successo in Cile nel 1973. Ma non spiega nemmeno l’illegittimità di questa analogia. Presuppone le differenze fra le due situazioni come un sottointeso, senza notare le enormi somiglianze che esistono sul terreno della penuria, dell’irritazione conservatrice della classe media o dell’intervento della CIA.

 I paralleli, rifiutati con Allende, sono invece accettati con il caso del primo peronismo, che è visto come antecedente diretto del chavismo. Ma il confronto è con quello degli anni dell’instabilità o con quello dei momenti precedenti il golpe del 1955? La preoccupazione per l’escalation di violenza suggerisce che la somiglianza sia riferita a quest’ultimo periodo. E in una situazione di questo tipo: qual era la priorità? Contrastare l’autoritarismo di Perón o resistere agli assalitori?

 I socialdemocratici e i post-progressisti enfatizzano la colpevolezza autoritaria di Maduro. Per questo sottovalutano il pericolo golpista e la necessità di preparare delle difese contro le provocazioni della destra.

 Ma le conseguenze di questo atteggiamento si verificano quando gli oligarchi e i loro banditi recuperano il governo. Quanto successo da poco in Honduras, Paraguay o Brasile non suscita nemmeno allarme tra i demonizzatori del chavismo.

 Contestano anche l’estrattivismo, l’indebitamento e i contratti petroliferi. Ma non chiariscono se propongono alternative anticapitaliste e socialiste di fronte a questi errori evidenti di Maduro. Lo stesso succede con la penuria di beni primari e la speculazione. Propongono di agire con maggiore fermezza contro i banchieri e i polpi commerciali? Promuovono misure di confisca, nazionalizzazione o controllo popolare diretto?

 Per l’adozione di queste iniziative potranno immaginare ponti con il governo, ma mai con l’opposizione. I detrattori del chavismo trascurano questa differenza.

 APPELLI POST-PROGRESSISTI

 L’ottica socialdemocratica ha caratterizzato l’urgente appello alla pace firmato da numerosi intellettuali. Questa dichiarazione promuove un processo di pacificazione, rifiutando sia la deriva autoritaria del chavismo sia l’attitudine violenta dei settori della destra.

 L’appello auspica un equilibrio per superare la polarizzazione e ricorre ad un linguaggio più vicino alle cancellerie che alla partecipazione popolare. Questo tono va d’accordo con l’implicita adesione a una teoria dei due demoni. Di fronte a due estremismi propone di transitare per la via di mezzo.

 Ma questa equidistanza è immediatamente smentita dalla responsabilità primordiale che viene assegnata al governo. Sottolinea questa colpevolezza non soltanto ignorando le aggressioni della destra. L’imperialismo è menzionato appena di sfuggita.

 Il testo ha ricevuto una risposta decisa promossa dalla REDH e sottoscritta da molti intellettuali. Questa critica contesta giustamente la fascinazione per il repubblicanesimo convenzionale e ricorda la presenza prevalente di forze extra-costituzionali nelle situazioni critiche.

 La ricaduta liberale dei pensatori post-progressisti ricrea quanto successo con i gramsciani socialdemocratici degli anni ’80. L’inimicizia di questo gruppo nei confronti del leninismo e della rivoluzione cubana assomiglia all’attuale ostilità verso il chavismo. Diversi firmatari dell’appello hanno attraversato i due periodi.

 In alcuni casi questo approdo corona la divisione che ha colpito diverse varianti dell’autonomismo. Gli atteggiamenti di fronte al processo bolivariano hanno scatenato questa frattura. Quanti optarono per una collocazione nella vera opposizione contestano quelli che si “aggrappano allo chavismo”.

 Ma questo secondo settore ha maturato le insufficienze precedenti e ha saputo comprendere la necessità di combattere per il potere sello stato, con prospettive socialiste affini al marxismo latinoamericano.

 L’altro settore, invece, continua a navigare nell’ambiguità di astrazioni sull’anti-patriarcato e sull’anti-estrattivismo, senza offrire nessun esempio concreto di quanto propone. Essendo rimaste assorbite dall’universo liberale, le loro enigmatiche vaghezze non arricchiscono più il pensiero della sinistra. Tra oblio della lotta di classe e fascinazioni per l’istituzionalismo borghese, le loro denunce dell’estrattivismo si trasformano in una pittoresca curiosità.

 SVISTE DEL DOGMATISMO

 Un discorso convergente con quello della socialdemocrazie è portato avanti anche con argomenti settari. In questo caso quello di Maduro è presentato come un governo corrotto, arrivista e liquidatore che consolida un regime dittatoriale. In altre occasioni questa stessa illegittimità è descritta con categorie più indirette (“presidente de facto”) o sofisticate (“capo bonapartista”).

 Ma tutte le varianti coincidono nel sottolineare la responsabilità originaria di un governo autoritario che lacera il paese. La sintonia di questo punto di vista con il racconto dei mezzi di comunicazione salta all’occhio. Ma il problema principale non sta nella retorica, ma nell’azione pratica.

 Ogni giorno ci sono manifestazioni della destra e del governo. I portabandiera del rigore socialista a quale delle due manifestazioni partecipano? Con quale si identificano? Se ritengono che la burocratizzazione sia il nemico principale dovrebbero fare causa comune con  gli sgherri dei disordini di piazza.

 A Buenos Aires, per esempio, hanno convocato nel maggio passato una mobilitazione chiedendo le dimissioni di Maduro. Tutti i passanti che hanno osservato questa manifestazione hanno percepito con chiarezza chi occuperebbe immediatamente la presidenza del Venezuela se venisse rovesciato quello attualmente in carica. Hanno notato anche la totale coincidenza di questo appello con i messaggi emessi quotidianamente dai notiziari.

 Non è la prima volta che settori provenienti dalla sinistra convergono così distintamente con la destra. Un antecedente in Argentina durante il kirchenismo è stata la presenza di bandiere rosse nei cortei degli agricoltori e dei caceroleros. Ma quello che è risultato patetico a Buenos Aires può trasformarsi in drammatico a Caracas.

 Altre visioni equiparano Maduro all’opposizione, ritenendo che sotto la mascherata di un’apparente contrapposizione si nascondono enormi convergenze. Per questo speculano sul momento in cui questa convergenza diventerà esplicita.

 Questa curiosa interpretazione contrasta con le battaglie campali tra i due settori che possono osservare tutti gli altri. Risulta un po’ difficile interpretare i disordini, gli assassinii e le minacce del Pentagono come una rissa finta tra due alleati.

 L’unica logica di questa presentazione è quella di sottrarre drammaticità al conflitto attuale, con l’obiettivo di interpretarlo come una semplice lotta inter-borghese per l’appropriazione delle entrate. Per questa ragione il totalitarismo di Maduro è visto come un pericolo equivalente (o superiore) all’opposizione.

 Il problema principale di questa ottica non è la sua svista, ma l’implicita neutralità che propone. Dal momento che tutti sono uguali, l’auto-golpe attribuito al governo è messo sullo stesso piano di quello che auspica la destra.

 Ma questa equivalenza è ovviamente falsa. In Venezuela non agiscono i due versanti reazionari che, per esempio in Medio Oriente, danno corpo al jihadismo e alle dittature. E non prevale nemmeno il tipo di contrappunto fra trogloditi che opponeva in Argentina Isabel Perón e Videla.

 Lo scontro fra Maduro e Capriles-López somiglia a quello tra Allende e Pinochet, a quello tra Perón e Leonardi o a quello più recente tra Dilma e Temer. E siccome non sono uguali il trionfo della destra comporterebbe una terribile regressione politica.

 La neutralità rispetto a questa scelta è un sinonimo di passività e denuncia un grado di impotenza enorme di fronte ai grandi avvenimenti. Significa rinunciare alla partecipazione e al confronto con i motivi reali.

 Dal momento che questa attitudine da per assunto che lo chavismo sia finito, limita tutto il suo orizzonte a tracciare un bilancio di questa esperienza. Ma il fallimento maggiore nell’azione politica non colpisce mai i processi non conclusi o interrotti. Il peggio è l’impassibilità di fronte ai grandi gesti.

 Qualsiasi siano le accuse rivolte a Maduro, l’esito del Venezuela definisce il destino immediato di tutta la regione. Se trionfano i reazionari prevarrà uno scenario di sconfitta e una sensazione di impotenza di fronte all’impero. La fine del ciclo progressista sarà un dato e non un tema di discussione tra esperti di scienze sociali.

 La destra lo sa e per questo accelera le campagne contro gli intellettuali che difendono lo chavismo. Il recente attacco sferrato da Clarín è solo un anticipo di quelli che si preparano in uno scenario regionale post-Maduro. I settari non percepiscono nemmeno questo pericolo.

 ELEZIONI FITTIZIE

 Nell’immediato ci sono due opzioni politiche in campo: la destra esige di anticipare le elezioni generali e il governo ha convocato un’Assemblea Costituente. L’opposizione è disposta unicamente a partecipare ad elezioni che le assicurino il primo posto.

 Delle 19 elezioni realizzate durante lo chavismo, i bolivariani ne hanno vinte 17 e hanno riconosciuto immediatamente le restanti sconfitte. Al contrario la destra non ha mai accettato i risultati avversi. Ha sempre denunciato qualche truffa o ha fatto ricorso al boicottaggio. E quando ha trionfato in consultazioni parziali ha chiesto l’immediata caduta del governo.

 Nel dicembre 2015 hanno ottenuto la maggioranza nell’Assemblea Nazionale e hanno proclamato la deposizione di Maduro. Hanno provato in seguito con vari mancati riconoscimenti, hanno fatto ricorso all’insediamento di finti deputati e hanno falsificato le firme per la revoca del mandato.

 Capriles, Borges e López promuovono ora elezioni finte, in mezzo alla guerra economica e alle provocazioni di piazza. Auspicano un voto sul modello della Colombia, dove tra un’elezione e l’altra ci sono centinaia di militanti popolari assassinati. Pretendono di andare alle urne come in Honduras sotto la pressione del crimine di Berta. Chiedono le votazioni che imperano in Messico, tra cadaveri di giornalisti, studenti e insegnanti.

 Sarebbe un terribile errore partecipare a elezioni concepite per preparare un cimitero di chavisti. Pretendono da Maduro di realizzare elezioni in un clima di guerra civile nessun governo può accettare.

 Il Venezuela sta attraversando una situazione simile a quella del Nicaragua durante il tramonto del primo sandinismo. L’assedio militare e la crisi sfiancarono un paese esausto, che votò la destra per stanchezza. In queste condizioni le elezioni hanno un vincitore prestabilito.

 La comparazione con lo scenario che portò alla caduta dell’Unione Sovietica, invece, non ha senso. Il Venezuela non è una potenza che affronta l’implosione interna, alla fine di un lungo scollamento tra regime e popolazione. È un vulnerabile paese latinoamericano attaccato dagli Stati Uniti.

 Alcuni intellettuali danno per scontato questo ruolo oppressivo dell’imperialismo, per suggerire come esso non sia l’elemento determinante della crisi attuale. Affermano che le insistenti denunce di questa dominazione costituiscono “un dato già noto” o un semplice rituale della sinistra. Ma dimenticano che non si sottolinea mai abbastanza l’impatto devastante che esercitano le aggressioni del Nord sui governi nemici di Washington.

 Tutta la gamma di ex-chavisti che accompagna la richiesta di elezioni generali confonde la democrazia con il repubblicanesimo liberale. Hanno perso di vista come il diritto all’autogoverno sia sistematicamente impedito dall’istituzionalismo borghese.

 A causa di questo impedimento la stragrande maggioranza dei regimi costituzionali ha perso legittimità. Ogni volta risulta più evidente che la classe dominante utilizza i sistemi di voto per consolidare il proprio potere. Esercita questo controllo utilizzando l’economia, la giustizia, i mezzi di comunicazione e l’apparato repressivo. La democrazia reale può emergere solamente da un processo socialista di trasformazione della società.

 È certo che Maduro ha cancellato il referendum revocatorio, ha sospeso le elezioni regionali e ha messo al bando alcuni oppositori politici. Queste misure fanno parte di una reazione di fronte all’attacco. Ma il leader chavista deve fare i conti con l’ipocrisia di peso maggiore che ostentano i difensori dei regimi elettorali attuali.

 Basta osservare come in Brasile l’impeachment sia stato consumato da un gruppo di banditi, con la protezione dei giudici e dei parlamentari che controllano il sistema di elezione presidenziale indiretta. All’OSA non è sembrato necessario intervenire di fronte a questa enorme violazione dei principi democratici.

 L’establishment non si indigna nemmeno davanti al consesso elettorale che ha consacrato Trump, nonostante avesse ricevuto milioni di voti in meno di Hillary. Gli sembra naturale la monarchia imperante in Spagna o in Inghilterra o i traffici sporchi che circondano la manipolazione di ogni elezione in Messico. La sacrosanta democrazia che chiedono per il Venezuela è completamente assente da tutti i paesi capitalisti.

 LE POSSIBILITÀ DELLA COSTITUENTE

 È evidente che la migliore opportunità per una Costituente trasformatrice sia stata persa da diversi anni. La convocazione attuale è puramente difensiva e mirata ad affrontare una situazione esasperante.

 Ma è inutile discutere solo di ciò che non si è fatto. Ci sarà sempre tempo per questi bilanci. L’importante è comprendere ora in che misura la convocazione possa riaprire un cammino di iniziativa popolare.

 Prima della convocazione della Costituente il governo si limitava a sviluppare un confronto puramente burocratico tra un potere dello stato e un altro. Auspicava lo scontro al vertice tra il potere esecutivo e quello legislativo o del Tribunale Supremo di Giustizia contro l’Assemblea Nazionale. Ora chiama formalmente il potere comunale e bisognerà vedere se questo progetto si trasformerà in una mobilitazione reale.

 Ci sono innumerevoli segni di affaticamento e scetticismo in seno allo chavismo. Ma nessuno sceglie le condizioni in cui combattere e il principale interrogativo ruota attorno alla continuazione o all’abbandono della lotta. Quanti hanno deciso di non abbassare le braccia scommettono sul rilancio del progetto popolare.

 Varie correnti di sinistra con impostazioni molto critiche verso la gestione di Maduro, ritengono che la convocazione attuale potrà sbloccare una dinamica di comuni contro gli intrighi burocratici. Vedono la Costituente come uno strumento imperfetto per superare la disputa con i settori del chavismo imborghesito, corrotto e “boliborghese”.

 La Costituente potrà contribuire, inoltre, a rompere lo stallo degli ultimi mesi tra proteste di piazza e manifestazioni del governo. Se si presenta in modo adeguato potrà rompere il fronte dell’opposizione, separando gli scontenti dai fascisti.

 Però è evidente che senza misure drastiche sul piano economico-sociale la Costituente sarà un guscio vuoto. Se non si attacca il disastro produttivo con la nazionalizzazione delle banche, il commercio estero e l’espropriazione dei sabotatori, non ci sarà recupero del sostegno popolare.

 Sono insufficienti i palliativi sperimentati per aumentare la partecipazione degli organismi di base nella distribuzione degli alimenti. Ci sono provvedimenti radicali che non possono essere rimandati.

 In qualsiasi caso non sarà facile far ripartire l’economia dopo tanti fallimenti sul terreno del debito, della creazione di zone speciali di spesa o della tolleranza alla fuga dei capitali.

 Chávez ha realizzato una grande redistribuzione del reddito con metodi inediti di politicizzazione popolare, ma non è riuscito a cementare un processo di industrializzazione. Si è scontrato con i capitalisti oppositori e con la “boliborghesia” interna e non ha saputo disattivare la cultura della rendita che minava tutti gli intenti di forgiare un’economia produttiva. I tentennamenti nel rompere con la struttura capitalista spiegano tutti questi risultati negativi.

 Il contesto attuale è più difficile a causa del prezzo ridotto del petrolio e del blocco che incontrano i progetti di integrazione regionale sotto la restaurazione conservatrice. Ma conviene ugualmente ricordare che tutti i processi rivoluzionari sono decollati nelle avversità e la Costituente offre un terreno per riprendere l’iniziativa.

 Alcuni critici di questa convocazione contestano la modalità settoriale e comunale di elezione. Affermano che con questo formato l’assemblea “sarà finta, corporativa e illegittima”. Anche qui ripetono l’irrigidimento che fa la destra (quando le conviene) del costituzionalismo convenzionale. Questa rivendicazione non sorprende tra comunicatori dell’establishment, ma inquieta tra gli entusiasti della rivoluzione russa.

 Nel giro di tre decenni di regimi post-dittatoriali molti hanno dimenticato le ipocrisie della democrazia borghese. Converrà ricordare come Lenin e Trotskij difesero nel 1917 la legittimità dei loro soviet, disconoscendo un’Assemblea Costituente che rivaleggiava con il potere rivoluzionario.

 La congiuntura venezuelana attuale è molto diversa. Ma la rivoluzione bolscevica non ha solo insegnato a indagare lo sfondo sociale, i conflitti di classe e gli interessi in gioco. Ha indicato anche un cammino per superare l’ipocrisia del liberalismo borghese e ha confermato che gli atti di forza contro la reazione fanno parte del conflitto contro la barbarie della destra.

 La sinistra dovrà decidere se convergere con l’opposizione nel boicottaggio o partecipare alla Costituente. Vi è anche una terza opzione per un minuscolo uditorio, con messaggi di “sì, no e tutto il contrario”.

 Nel resto della regione urge la solidarietà. Così come successo con Cuba durante il periodo speciale bisogna dare una mano nelle situazioni difficili. Occorre aspettare che molti compagni assumano questo atteggiamento prima che sia tardi.

 AGGREGAZIONE INTELLETTUALE

 Il Venezuela non suscita soltanto intensi dibattiti. Ha determinato anche significative aggregazioni di intellettuali che hanno sottoscritto appelli contrapposti. Questo posizionamento è stato più rilevante dei controversi dettagli delle distinte dichiarazioni. Si è consumata una grande divisione di campi.

 L’appello socialdemocratico impugnato dal testo della REDH è stato integrato da altre risposte incisive. La distinzione politica è stata vertiginosa.

 Di fronte alla tensione creata dai manifesti, diversi firmatari hanno chiesto di preservare il dialogo fraterno. Questo rispetto è indispensabile, ma le reazioni indignate si spiegano per la posta in gioco. Se la destra riesce a imporsi rimarrà molto tempo per le lamentele e i seminari di analisi su quanto successo.

 Dal momento che la prima dichiarazione contiene un appello alla pace, molti intellettuali hanno aderito in forma spontanea per porre un freno alle violenze. A un’analisi più dettagliata del contenuto del testo, alcuni hanno ritirato la propria adesione e altri l’hanno mantenuta con argomenti difensivi. Evidenziano la loro continua solidarietà con il processo bolivariano o rimarcano le loro distanze da altri firmatari.

 Ma la cosa più significativa è stata la reazione rapida e generalizzata che ha suscitato il documento antichavista e il gran rifiuto che ha generato la posizione socialdemocratica. Questo impulso ha comportato una rapida convergenza di intellettuali di sinistra e del nazionalismo radicale. Se questo legame si consolida, il Venezuela avrà suscitato un nuovo incontro del pensiero critico con le tradizioni rivoluzionarie dell’America Latina.

 RIASSUNTO

 I mezzi di comunicazione tacciono la violenza dell’opposizione venezuelana e la repressione imperante nei governi di destra della regione. La strategia del golpe istituzionale incontra seri limiti, ma la sinistra deve confrontarsi con questa minaccia, sostenendo decisioni antimperialiste e distinguendo il boicottaggio capitalista dall’inefficienza ufficiale.

 Seguendo gli orientamenti socialdemocratici, il post-progressismo contesta lo chavismo, sottovaluta il pericolo golpista e identifica erroneamente l’autoritarismo. I dogmatici ignorano quale sia il nemico principale e convergono con i conservatori o scivolano verso un passiva neutralità.

 La destra pretende soltanto elezioni che le assicurino la vittoria. In condizioni molto sfavorevoli la Costituente riapre opportunità e suscita un nuovo incontro degli intellettuali radicali.

articolo pubblicato su Rebeliòn

traduzione di Mauro Azzolini – brigata traduttori

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