I giorni felici. La campagna di Melenchon
Pubblicato il 23 apr 2017
di Ramón Luque
Come è possibile cue in solo un mese si possa passare dal 9% al 20% nei sondaggi e mobilitare migliaia di persone ecc.? Sul giornale spagnolo eldiario il compagno Ramon Luque, dirigente di EUiA e membro dell’esecutivo del Partito della Sinistra Europea, tra i promotori del nuovo soggetto unitario della sinistra catalana nato a Barcellona nelle scorse settimane, racconta dal di dentro la campagna di Melenchon.
Quando i cittadini francesi si recheranno alle urne questa domenica avranno esercitato qualcosa di più della libera scelta di dotarsi di un nuovo presidente della Repubblica. Assisteremo, con ogni probabilità, a una mutazione profonda del sistema dei partiti caratteristico della V Repubblica. E ciò accade, contro ogni previsione di sondaggi, analisti e salotti, nel confronto più combattuto che si ricordi per il primo turno.
Sono lontani i giorni in cui il duello a destra Le Pen-Fillon sembrava lo scenario semplice di alternanza prevedibile e controllata dagli stessi di sempre. Finchè è arrivato Mélenchon e ha convocato per il 18 marzo (sono passati davvero pochi giorni!) la marcia per la sesta repubblica. Quando gli oltre 130.000 manifestanti hanno cominciato a gridare “Mélenchon, président!” lui li ha fatti tacere e gli ha detto: «non gridate più il mio nome, gridate: Résistance». Creava un immaginario, oltre che uno slogan da campagna elettorale. Cominciava, così, la marcia che ha scompaginato il panorama politico francese. Parallelamente le primarie del Partito Socialista avevano visto vincere Hamon dalla sinistra del partito, sconfiggendo Valls contro ogni previsione. Ai baroni del PS bastò, poi, poco tempo per lasciare da parte il legittimo vincitore delle primarie e puntare sull’operazione di marketing di Macron: lo spazio socialista ne usciva sconvolto. Dall’altra parte gli scandali sul tema della corruzione riguardanti Fillon hanno lasciato la destra senza un candidato sicuro.
Tuttavia, prima di lanciare la piattaforma della Francia Ribelle, Mélenchon ha dovuto prendere una decisione fondamentale: prendere atto dei limiti che il Front de Gaucheaveva in questa situazione per rompere il contesto politico e andare oltre su un terreno di battaglia di maggioranza sociale. Non tutti l’hanno capito né nel Front de Gauche, né nel suo stesso partito che, senza confronto, è stato lasciato da parte. È ciò che distingue i politici di razza dai meri gestori della politica. Sanno leggere il momento e hanno una connessione naturale con il popolo. È così che la candidatura di Mélenchon contiene, nel suo DNA costitutivo, una possibilità per dare un profilo organizzativo nuovo a quello che lui definisce come la ribellione di ampi settori del popolo che oggi sono coloro i quali soffrono maggiormente le politiche neoliberiste. Questa possibilità, per avere basi reali, dovrà avere continuità nel futuro, forse già nelle legislative di giugno.
La marcia della Francia Ribelle di marzo ha segnato senza dubbio un prima e un dopo nelle presidenziali francesi. Ha collocato Mélenchon nella griglia di partenza, ha posto la discussione sulla VI Repubblica al centro del dibattito elettorale e la mobilitazione ha generato illusioni di una lotta possibile per sconfiggere Le Pen a fronte di un atteggiamento perdente ampiamente diffuso a sinistra. E, a sua volta, ha generato una dinamica di appoggio alla campagna elettorale da parte di migliaia di volontari che l’hanno sostenuta fino ad oggi. Com’è possibile, si chiedono oggi i potenti, che in appena un mese si possa passare dal 9 al 20% nei sondaggi, mobilitare migliaia di uomini e di donne di ogni provenienza e condizione, vincere nei dibattiti televisivi, innovare la campagna elettorale, elaborare il programma presidenziale più solido, coerente e di rottura che sia stato presentato in queste elezioni, ecc.? Ho seguito da vicino per una settimana la campagna di Jean-Luc Mélenchon e ho potuto essere testimone di questo movimento in cammino. Proverò a descriverla così come l’ho vissuta.
In primo luogo, non è possibile comprendere la campagna di Mélenchon senza tenere in considerazione la forza della sua leadership. Siamo davanti ad un politico dalla cultura profonda, un oratore incommensurabile, di grande esperienza e, nel quadro delle elezioni presidenziali, dalla profonda connessione popolare. Nonostante tutto, ciò in Francia non basta, e Mélenchon ha saputo intuirlo. Ha deciso di lanciare una sfida storica: proporre alla società francese un processo costituente verso una nuova repubblica. Con una volontà in equivoca di profondo cambiamento nei confronti della società francese che punta al XXI secolo. E per sostenere questa proposta ha elaborato un programma profondamente trasformatore (niente mezze misure) e a tutti i livelli (quello istituzionale, quello della transizione verso un nuovo modello economico sostenibile, quello del recupero del ruolo del pubblico e dello Stato in aree oggi contaminate dal pensiero unico, quello di una Francia pacifista e internazionalista – uscendo dalla NATO senza se e senza ma – ecc.). Senza leadership è probabile che non ci sarebbe stato programma alternativo, e il programma alternativo d’altra parte, ha oggi in Mélenchon un candidato credibile. In definitiva, ciò che Mélenchon ha offerto ai cittadini francesi è un nuovo orizzonte di società, che è qualcosa di più di un programma elettorale.
Con queste basi di partenza mancava solo la campagna elettorale, e questa si è situata in un ambito di rottura con l’eccellente campagna dello stesso Mélenchon alle presidenziali del 2012. In che senso? In primo luogo Mélenchon questa volta non ha fatto appello alla sinistra, ma direttamente al popolo (la forza del popolo, il suo slogan) cosciente di una sfida storica. Questa è stata una campagna dell’ottimismo contro il sentimento di sconfitta, della fiducia nelle proprie forze contro il pessimismo, delle proposte in positivo e, elemento decisivo, di immaginario di un nuovo tempo che dovrà venire. Come si può non pensarla così quando la stessa radio di Mélenchon è stata battezzata Les jours heureux (i giorni felici)?
Così come non si può non tenere in considerazione che un candidato stigmatizzato dalle destre come politico professionista, brusco e noioso, è stato il più innovativo e creativo delle presidenziali quando a Lyon ha realizzato per la prima volta un meeting apparendo in ologramma o quando, con questa stessa tecnica, ha realizzato un’iniziativa simultanea in sei città (attraversando i mari per una di esse, La Reunión, isola francese nel sud dell’Africa). O quando ha saputo trasformarsi da politico dotato ma aggressivo a persona estremamente ironica con i suoi avversari politici e vicina a chiunque gli si avvicinasse per salutarlo. Quando ha rotto le relazioni standardizzate con il mondo della stampa e dei mezzi di comunicazione. O quando, per iniziativa dei circoli, ha lanciato il “melenphone”, uno strumento per moltiplicare la propaganda nelle zone più astensioniste della Francia.
D’altra parte, le iniziative di massa sembravano più cerimonie repubblicane che meeting, delle vere messe laiche man mano che la campagna elettorale si trasformava in un susseguirsi di pienoni. Non ho visto mai Mélenchon fare appello a una rimonta. Al contrario l’ho visto insistere sulla possibilità e le potenzialità di una primavera francese legata alla certezza che ogni persona che lo ascoltava aveva già in sé la capacità di essere protagonista di un cambiamento storico. Li poneva davanti alla loro forza, chiamava in causa la loro intelligenza collettiva e la loro responsabilità. Non è strano, dunque, che decine di migliaia di persone, ovviamente meticce come la società francese di oggi, l’abbiano ascoltato in intima comunione, in silenzio o esultanti, a seconda del caso, per ore. I suoi interventi non sono mai durati meno di un’ora e mezza. Qualcosa di inaudito per noi.
Mélenchon ha discusso, durante la campagna elettorale, in modo convinto e aggressivo i simboli e gli elementi centrali d’aggregazione della comunità francese, che tempo prima la destra aveva voluto fare propri: il repubblicanesimo e il concetto di nazione, la sovranità, mentre faceva appello alla difesa delle idee dell’illuminismo e della società dell’uguaglianza, del meticciato e della fraternità, in uno scontro frontale con Le Pen lì dove Le Pen aveva fatto più danno alla sinistra: nelle banlieues o nelle città operaie.
Attenzione però, Mélenchon non ha fatto leva su un popolo privo di contenuti. È stato protagonista di una campagna e di un discorso profondamente ideologici, oltre che di una narrazione dal contenuto filosofico. Ideologico perché in ogni momento ha alzato la bandiera dei ribelli contro un mondo immorale, quello del potere di pochi singoli contro le immense maggioranze, quello della globalizzazione della finanza, quello di un’Europa senz’anima, facendo appello a un popolo francese che deve reggersi sulla sovranità, il ruolo forte dello Stato, la protezione sociale e la Francia cosmopolita. Sono stati giorni eroici e fondamentali per recuperare la speranza tanto repressa in questi anni in Francia, e ora questa ha un nome: Jean-Luc Mélenchon e il suo programma L’avenir en commun (il futuro in comune), qualcosa di cui cominciamo a sapere anche noi.
Se Mélenchon passa al secondo turno le possibilità di vittoria e di ottenere la presidenza sono certe contro tutti gli altri candidati. Un terremoto politico fenomenale in Europa e una possibilità di rifondare il progetto europeo. Per questo credo che oggi non siano solo i francesi a giocarsi il futuro in queste elezioni. Anche milioni di europei se lo giocano con loro. Anche noi speriamo nei giorni felici.
traduzione di Mauro Azzolini – brigata traduttori
articolo su eldiario: http://www.eldiario.es/tribunaabierta/dias-felices_6_635946409.html
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