Victor Serge, rivoluzionario malgrado la rivoluzione

Victor Serge, rivoluzionario malgrado la rivoluzione

di Vittorio Giacopini

Le atrocità staliniste non gli fecero abbandonare il sogno di un radicale cambiamento sociale. Mentre torna un suo celebre saggio, ritratto di un ribelle ammirato da Susan Sontag

Alla fine, “il vecchio” l’aveva scomunicato, e a brutto muso. Una lettera dall’esilio di Coyoacán, a Città del Messico, una sparata senza mezze misure, definitiva. «Mi dispiace dirtelo: il tuo atteggiamento è troppo artistico e psicologico, non sei abbastanza politico». E poi aveva rincarato la dose, puro veleno: «sei un nemico che vorrebbe essere trattato da amico». Che si sentisse così, in allarme e livido di sospetto, era normale. Nel ’36 Leon Trotsky aveva i suoi buoni motivi per stare in guardia ma il tono era quello consueto, pontificante (lo chiamavano “il vecchio” da una vita, mica per caso). Peccato che Victor Serge fosse uno degli ultimi compagni veri che gli restasse.

Peccato che almeno su un nodo essenziale lui e Serge andassero ancora d’accordo, e perfettamente. La rivoluzione era stata “tradita” ma quel “sogno di una cosa” restava intatto e quindi nessuna abiura, nessun rimpianto, e meno che mai la resa, il disfattismo, un cauto accomodarsi alle cose, il “filisteismo”.

Il segreto del “caso Victor Serge”, come l’ha chiamato Susan Sontag, sta probabilmente qui, in questo dettaglio. Come spiegare l’oscurità di uno «dei più affascinanti eroi dell’etica e della letteratura novecentesca»?

Per quale motivo Victor L’vovic Kibal’cic – figlio di esuli anti-zaristi, nato «per caso a Bruxelles sulle vie del mondo», saggista, traduttore e romanziere ma soprattutto rivoluzionario, cospiratore, militante in almeno sette paesi diversi, non è stato canonizzato e assunto nel Pantheon degli Orwell e dei Silone, dei Koestler, dei Camus? Immagino basti leggere le prime righe di questo saggio molto bello, Da Lenin a Stalin, per farsene una ragione, o  almeno intuirlo.«Oggi mi sembra di poter affermare che tutta la prima fase della rivoluzione russa sia stata caratterizzata dall’estrema onestà di Lenin e dei suoi seguaci». Ecco: chi mai potrebbe “usarla” un’affermazione così, piegarla alla propaganda più o meno edificante, edulcorarla?

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FOTO SEGNALETICA DI VICTOR SERGE. VICINO ALLA BANDA BONNOT, GRUPPO DI RAPINATORI ANARCHICI AI PRIMI DEL NOVECENTO. IN FRANCIA SCONTÒ CINQUE ANNI DI CARCERE PER NON AVER VOLUTO DENUNCIARE I COMPAGNI.

Checché ne dicesse Trotsky, la pensavano uguale, erano in “linea”. La rivoluzione era stata tradita, semplicemente, e proprio in quel passaggio abissale: da Lenin a Stalin. Victor Serge sapeva quello che diceva, c’era passato. Da ragazzo era stato anarchico, aveva scritto e cospirato in Belgio, in Francia e in Spagna ma poi era arrivato l’Ottobre e, nel ’19, per la prima volta era sbarcato nella terra dei suoi avi, per unirsi alla lotta, e in prima linea. «Noi non eravamo marxisti, ma nell’eco distorta delle parole di Lenin che ci giungeva riuscivamo a ravvisare una notevole dose di onestà». Perché, checchè ne dicesse Trostky, Serge aveva il senso della politica, e aveva fiuto. L’importanza del partito, l’importanza di una dirigenza consapevole, la volontà: in Da Lenin a Stalin esalta questo ruolo della politica come azione che forza il corso della Storia, genera il “nuovo”. Se la Comune di Parigi non avesse avuto una leadership inadeguata, avrebbe vinto. Se il proletariato tedesco nel ’33 avesse «potuto disporre della chiara intelligenza di Rosa Luxemburg e della passione rivoluzionaria di Karl Liebknecht» avrebbe fermato il nazismo, battuto Hitler.

Non sono “se” oziosi, modi di dire. Quando arriva in Russia nel ’19 è tutto ancora possibile, e in movimento. «Noi volevamo una rivoluzione libertaria, democratica – meno l’ipocrisia e la debolezze delle democrazie borghesi – tollerante, egualitaria». In un breve arco di anni, proprio in quel passaggio di consegne da Lenin a Stalin, questo sogno si oscura, diventa un incubo. Ancora una volta Serge è tra i più pronti a rendersene conto, e a dirlo apertamente, senza remore (la pagherà con il Gulag, anni in galera). La sua ricostruzione di questi venti anni terribili (1917-37) diventa la «cronaca di una rivoluzione tradita», semplicemente.

Ma, appunto, in politica, è questione di lucidità, scelta dei tempi. All’inizio degli anni Trenta Serge era stato il primo a usare l’aggettivo totalitario per definire l’Urss (Arendt e Aron non avevano ancora scritto una riga in materia, tanto per dire). Una pagina di Memorie di un rivoluzionario (il più bel libro politico del Novecento, in italiano l’ha pubblicato e/o, postfazione di Goffredo Fofi) non lascia adito a dubbi, è fulminante:  «Già da lunghi anni la rivoluzione è entrata in una fase di reazione. Oggi noi siamo in presenza di uno stato totalitario, castocratico, assoluto, ebbro della sua potenza…».

Parole taglienti come il diamante, affilatissime, ma senza nessuna concessione al buon senso borghese, o alla furbizia. Il fatto è che restando sempre dalla parte della Rivoluzione, Victor Serge non poteva (e non può) essere “usato” da nessuno, e non consola. La disillusione obbligata, la denuncia di una politica risolta in pura e semplice “paura” e in delirio di potere, in paranoia, non ne avevano fatto un reazionario (la differenza lampante con Koestler e con altri futuri campioni dell’anticomunismo è tutta qui). Il tradimento della rivoluzione non lo aveva portato a abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai l’aveva esasperato, reso più urgente.

Con una formula all’apparenza di Trotsky (lui però l’aveva presa dall’anarchico Reclus) credeva nell’indissolubilità del legame «fra trasformazione individuale e azione rivoluzionaria», e in permanenza («finchè durerà l’iniquità sociale resteremo in stato di rivoluzione permanente»). E questo era restato: un rivoluzionario. Da ragazzino si era chiesto che senso potesse avere la vita e, pur ammettendo di non averne la benché minima idea, aveva risposto: «penserai, lotterai, avrai fame». E sino alla fine continua a pensare e a lottare, e a avere fame. Nei primi anni quaranta, quando scrive le sue Memorie Serge azzarda ancora un bilancio aperto, guarda al futuro: «Io ho subito un po’ più di dieci anni di prigionie diverse, militato in sette paesi, scritto venti libri. Non posseggo nulla. Sono stato parecchie volte coperto di fango da una stampa a grande tiratura perché dico la verità. Dietro di noi: una rivoluzione vittoriosa che ha preso una cattiva piega, diverse rivoluzioni mancate, un numero così grande di massacri che dà un po’ le vertigini. E dire che non è finita…».

Serge - Da Lenin a Stalin cop.inddPer il resto, si era sempre confrontato con la Storia, immerso nei tempi. «Chi legge Serge oggi» scrive Susan Sontag, «deve riandare con il pensiero a un tempo in cui di norma si accettava che il corso di una vita fosse determinato dalla storia, più che dalla psicologia». In Da Lenin a Stalin quest’intuizione è un metodo di lavoro (o la bacchetta di un rabdomante, un faro nel buio). Di Lenin, Serge aveva apprezzato questa qualità assoluta, oggi impensabile: «Il merito di Lenin consistette nell’essere un rivoluzionario in un periodo di rivoluzione». La questione, semmai, per lui era capire che “periodo” si aprisse adesso, dopo quel sogno. La rivoluzione «aveva preso una cattiva piega», alle spalle infinite rivoluzioni mancate, e mille massacri. E, nel presente – oltre «all’iniquità» che non cessa – un’avvisaglia di stasi, il presentimento inquietante di un tempo morto. Nei suoi ultimi giorni, Victor Serge non è un uomo deluso, però è smarrito. C’è una pagina del suo diario messicano che, al netto dell’ironia, è quasi profetica. «I problemi non hanno più la bella semplicità di un tempo: era comodo vivere sulla scorta di antinomie come socialismo e capitalismo». Che genere di mondo potesse nascere dopo e al di fuori di quella tragica, grandiosa, “comoda” contrapposizione non gli sarebbe stato concesso di scoprirlo. La vita di Victor L’vovic Kibal’cic, alias Victor Serge, si conclude il 17 novembre del 1947 su un taxi a Mexico City, per un infarto. Non ha documenti con sé. Muore da esule.

 

Fonte: il venerdì di Repubblica, 20 gennaio 2017


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