Una vita da “intruso”. IN RICORDO DI  BRUNO AMOROSO

Una vita da “intruso”. IN RICORDO DI BRUNO AMOROSO

«Un letterato insigne, che il nostro paese può permettersi il lusso d’includere tra i grandi dimenticati, Giuseppe Antonio Borgese, ha scritto che il protagonista di un suo importante romanzo, Giuseppe Rubé (1921), aveva per padre il segretario comunale Calinni, il quale conoscendo bene l’Eneide in latino e la vita di Napoleone in francese, giudicava che tutti, a cominciare da sé medesimo, fossero intrusi in questo mondo fuorché i geni e gli eroi».

[Federico Caffè, L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi. 1981]

Una vita da “intruso”

Il 20 gennaio si è spento Bruno Amoroso, economista e saggista italiano, allievo di Federico Caffè. Il suo lascito è quello di una voce autorevole e insieme misurata, risoluta nel suo campo d’indagine e orizzonte di ricerca – le scienze sociali, le teorie keynesiane e l’economia del benessere –, e tuttavia mai vittima dell’ottundimento ideologico, da cui solo le menti più fulgide e fascinose sanno sottrarsi.

Amoroso nasce nel ’36 a Roma da una famiglia comunista di origini abruzzesi. Il padre, Pelino, è un sindacalista convinto e un antifascista, e negli anni che precedono di poco la liberazione, tutta la famiglia di Bruno condivide la casa con Pietro Benedetti, un amico storico del padre, attivo nella resistenza a Roma, che nel ’44 verrà fucilato dai nazifascisti a Forte Bravetta. È un frangente che lascia il segno nella vita di Bruno, che a quei tempi ha solo otto anni, e tuttavia vive a contatto diretto e nelle strade quei momenti drammatici fino al giorno della Liberazione.

La precocità, Bruno, ce l’ha iscritta nel destino, fin da subito.

In Memorie di un intruso (Castelvecchi, Roma 2016) racconta di come fin dall’infanzia la sua vita è animata dall’ingaggio politico e sociale, un’altalena tra i banchi di scuola e la sezione del Pci, una di quelle sezioni ancora popolata da gente comune, aliena ai burocrati e tecnocrati d’apparato:

«Inserirmi in quell’ambiente fu facile. […] Le persone che incontravo, membri del partito, attivisti e dirigenti, erano artigiani, operai, qualche impiegato e insegnante».

All’età di dodici anni Bruno è già tesserato al Pci, fa parte dei “pionieri” e poi, nel ’49, partecipa attivamente alla fondazione della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Sono anni pieni di entusiasmo e sconfinata fiducia nel ricostruire, dopo l’incubo del ventennio nero, una società più giusta ed egualitaria. Ma i tempi incalzano, e nel giro di un decennio Amoroso assiste in prima linea al diffondersi, anche in Italia, di burocratizzazione e tecnocrazia partitica.

Secondo me era troppo facile ridurre lo “stalinismo” ad un fatto di costume politico e leadership, e l’eventuale deviazione stalinista del Pci non era attribuibile ad una clonazione, ma al parallelo procedere, in Italia come in Unione Sovietica, di una scissione tra classe dirigenti e partito da una lato e masse popolari dall’altro.

Negli anni Sessanta e Settanta, da studente universitario e militante politico, vive poi la doppia segnatura di quel periodo: i morti e gli eccidi nelle piazze ma anche «la forza trasmessa da quell’ottimismo nella bontà della Storia che aveva un forte effetto mobilizzatore più che spingere all’avvilimento ed alla rinuncia».

Sempre stretto tra più forze – la passione politica, le derive ideologiche che spesso la minano e l’inquietante repressione del potere attraverso i suoi vari strumenti, in primis quello economico –, Amoroso non si defila mai dalla breccia ma comincia anche a maturare un senso di spaesamento, il cui unico antidoto sarà una sempre rinnovata lucidità d’analisi e apertura dialettica in un altrui e in un altrove.

In questo senso il suo incontro con Federico Caffè, forse, avviene sotto il segno di una confluenza predestinata, fondata sicuramente su affinità elettive ma anche su quel comune ed empatico sentirsi degli “intrusi” e, affascinante rovescio, voler continuare ad esserlo ovunque.

L’approdo in Danimarca e il “cosmopolitismo accademico”

Amoroso è stato allievo, amico e sicuramente il più autorevole biografo di Federico Caffè.  L’incontro tra i due avviene all’Università di Roma, quando Bruno è ancora un giovane tesista, molto coinvolto dagli studi economici ma non solo:

«Credo che avesse capito che ero un bufalo staccatosi dalla mandria e che il mio universo era anche fuori dall’università. Fu così che ci conoscemmo».

Per questo le loro conversazioni spaziano dalle teorie economiche alla letteratura – entrambi condividono da subito la duplicità attitudinaria tra cultura scientifica e umanistica – fino a fronti più intimi e personali, come le comuni origini abruzzesi. Parlano anche, ovviamente, di politica:

«Iniziò a incuriosirlo (Amoroso parla di Caffè, ndr) la mia interpretazione sulla deriva “riformista” del Pci e dei sindacati, dei quali prevedevo l’imminente abbandono politico e sociale per cui erano nati. “Dopo l’abbandono di Marx, ci sarà quello di Keynes, e la fine del sogno del socialismo”, questa era la mia predizione».

Ed è proprio nel segno di Keynes e su consulto di Caffè, che Amoroso sceglie di partire alla volta della Danimarca, per approfondire studi e teorie di economisti nord-europei e scandinavi, che più di tutti, ormai, si pongono nel solco del pensiero keynesiano: l’olandese Jan Tinbergen, il danese Frederik Zeuthen, il norvegese Ragnar Frisch, ma su tutti lo svedese Gunnar Myrdal. D’altronde anche in Italia comincerà ad arrivare l’eco di quella profilassi che, a partire dai governi di Reagan e della Tatcher, siglerà gli anni dell’amara e inquietante controrivoluzione liberista:

«Ridotta la “democrazia socialista” a “democrazia borghese”, o democrazia tout court, la conversione al pensiero liberale – o liberal-socialista, come si amava ripetere senza preoccuparsi del brutto ossimoro che esprimeva – era ormai alle porte».

Di contro, al Centro Studi Roskilde, in Danimarca, Amoroso trova un ambiente aperto, in cui si può godere di una certa autonomia di pensiero e in cui fioriscono ricerche, studi e proposte che orbitano intorno ai temi del social spirit, del welfare state e dell’economia del benessere, nella prospettiva di una continua e virtuosa dialettica tra supervisione statale e iniziativa privata.

«L’idea era che il futuro apparteneva allo Stato del benessere e quindi a una crescita del ruolo della funzione pubblica autogestita dal basso. Criteri simili erano applicabili anche nel settore privato dell’economia. La crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra economia, ambiente, sanità e formazione, rendeva necessario anche per il settore privato un cambiamento, con figure capaci di pensare e operare in questo nuovo contesto. Per queste ragioni i principi posti a base del Centro Universitario Roskilde avevano obiettivi politici legati alla costruzione del nuovo Stato del benessere».

La Roskilde, dunque, diventa per Amoroso un campo base dove far maturare e arricchire i suoi studi, dove importare gli insegnamenti di Caffè – lì fonderà un Centro Studi intitolato a suo nome –, e tuttavia i suoi oltre quarant’anni sul fronte della docenza e della ricerca si sostanziano di un vero e proprio “cosmopolitismo accademico” che lo vede impegnato in quasi tutti gli atenei italiani ed europei, in Libia e nei paesi del maghreb, in Vietnam, in Corea, e ancora altrove.

Bruno Amoroso è stato una figura, insieme a quella di Caffè, dalla fondamentale lucentezza scientifica ma anche, sul versante dell’ingaggio militante dal quale mai si è sottratto, un lucido osservatore e un appassionato dissidente rispetto alla svolta neoliberista ed alla pericolosa destituzione delle teorie keynesiane e del social spirit dal dibattito economico e dalle misure politiche.

E vogliamo chiudere questo suo ricordo su I diavoli con un suo invito a persistere nell’essere “intrusi” e al non sottrarsi dall’ingaggio concreto.

«Le rivoluzioni sono state sostituite dalle controrivoluzioni, e dopo tanto parlare di pacifismo e non violenza, la guerra è diventata la forma normale della politica. […] Per noi, pensare di cavarcela con gli appelli e le “buone pratiche” non è più possibile. Quello che ci resta da dire per questa guerra non voluta e da sempre contestata è lo slogan not in my name».

Fonte: I diavoli

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