Lotta di classe dall’alto, aumentano disuguaglianze e povertà

Lotta di classe dall’alto, aumentano disuguaglianze e povertà

di Roberto Ciccarelli

Il quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) pubblicato ieri dall’Istat conferma la relazione politica asimmetrica prodotta dalla crisi iniziata nel 2008. Nel 2015 in Italia le diseguaglianze sono cresciute mentre continua la concentrazione della ricchezza – non da lavoro, ma da capitale – in una parte ultra-minoritaria della popolazione. I dati Bes vanno letti in una cornice globale perché confermano l’esistenza dello squilibrio economico più grande dagli anni 1910-1920 a oggi. Per l’economista Thomas Piketty, questa è la premessa per la costruzione di una civiltà dominata da traders, super-ricchi, multinazionali che dominerà la scena globale da oggi al 2050-2100.

Il rapporto Bes aggiunge alcuni decisivi elementi alla lotta di classe dall’alto – la definizione è di Luciano Gallino. Anche se il Pil cresce, non modifica le diseguaglianze. La crescita c’è, ma non si vede, se non in un piccolo recupero del potere di acquisto. L’elemento che produce questa separazione tra i dati macroeconomici e la materialità delle condizioni di vita è il lavoro precario. L’11,7% delle persone vive in famiglie dove i redditi sono aleatori.

A Sud la percentuale quasi raddoppia: il 20,3%. Ci troviamo in una situazione paradossale: da un lato si riduce la quota di famiglie in condizioni di vulnerabilità finanziaria (da 4,8% nel 2012 a 3,6% nel 2014) e il numero degli indebitati; dall’altro lato aumenta la quota di persone a rischio di povertà dal 19,4% al 19,9%, mentre la povertà assoluta colpisce 4 milioni e 598 mila persone e interessa le coppie con due o più figli e le famiglie di cittadini stranieri.

La crescita che è tornata a fare capolino nell’economia – producendo grandi illusioni soprattutto nel governo Renzi travolto dal referendum del 4 dicembre – non produce occupazione stabile, né redditi duraturi. In altre parole non incide e, anzi, aumenta le disuguaglianze. Nel 2015 il loro valore è identico a quello del 2013, il più alto dell’ultimo decennio. Rispetto alla media europea, l’Italia è il paese dove le diseguaglianze sono cresciute di più da quando è iniziata la crisi: nel 2015 il rapporto tra il reddito percepito dal 20% della popolazione con i redditi più alti e il 20% con i redditi più bassi è pari a 5,8 in Italia, contro una media continentale del 5,2.

L’economista Andrea Fumagalli parla di «trappola della precarietà»: più aumenta il lavoro precario e senza tutele, più aumentano povertà e diseguaglianze. Questo circuito si auto-alimenta e crea i working poors, i lavoratori poveri. Per Chiara Saraceno sono di due tipi: chi lavoro con i voucher (1,380 milioni nel 2015) e tutti coloro che prendono un salario al di sotto di quello minimo. E poi ci sono i lavoratori poveri su base familiare. Le famiglie monoreddito sono numerose, non esiste un significativo sostegno per l’occupazione femminile, né servizi o trasferimenti universali per sostenere i costi dei figli. Manca un sistema di tutela universale contro il precariato e la disoccupazione di medio e lungo periodo.

E il governo Renzi ha follemente sprecato 10 miliardi all’anno per il bonus degli 80 euro che non è andato né ai precari, né ai lavoratori autonomi. Una misura concepita per discriminare i lavoratori (dipendenti contro precari e autonomi) e aumentare le diseguaglianze tra le generazioni. Lo stesso criterio ha ispirato il Jobs Act.

Com’è noto, la flebile crescita dell’occupazione è stata causata dagli 11 miliardi di sgravi pubblici triennali alle imprese. Soldi che hanno «drogato» un mercato dove non c’è domanda. Sono stati assunti, in maggioranza, lavoratori over 50 (+2%) – trattenuti al lavoro dalla riforma Fornero – e penalizzati gli under 49. L’occupazione è cresciuta tra i giovani 20-34enni (+0,2 punti) perché più intensa è stata la produzione di lavoro precario. Le mance renziane ai privati, i bonus populisti alle categorie, hanno contribuito all’aumento delle diseguaglianze.

Il Belpaese, società dell’incertezza permanente

Rapporto Bes/Istat. Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese in cui si parla di “benessere soggettivo”. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa

Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese ambivalente dove cresce il «benessere soggettivo» e l’incertezza per il futuro. Più che il timore di un peggioramento, cresce la quota di chi ritiene di vivere in una società dell’incertezza rispetto a quanto accadrà domani.

UN PAESE DIVISO I 130 indicatori del rapporto fotografano le diseguaglianze territoriali tra Centro-Nord e Sud. Nell’ultimo anno al Nord e al Centro è stato registrato un miglioramento nella gestione dell’ambiente, nella salute dei cittadini e nell’istruzione, mentre negli altri «domini» (sono dodici in tutto), come la «qualità dei servizi», il benessere economico o la sicurezza, si sta tornando ai livelli del 2010, l’ultimo anno di relativa stabilità prima che la crisi iniziasse a mordere davvero. Fatta eccezione per la qualità del lavoro, non a caso. Nel Mezzogiorno, invece, il 2010 è un anno lontano. Pesano condizioni economiche compromesse, peggiora la qualità del lavoro, insieme a un altro criterio dalla forte valenza simbolica: la «soddisfazione per la vita».

PARTECIPAZIONE La sfiducia rispetto ai partiti e alle istituzioni è alta, anche se quest’anno l’Istat sostiene di avere «avvertito» un’inversione di tendenza rispetto al Parlamento, al sistema giudiziario o alle istituzioni locali. «Ma il clima resta negativo», precisa. La partecipazione politica e civica è diminuita (dal 66,4% al 63,1%) nel 2015. In questo caso non esiste una differenza tra Nord e Sud: l’abbandono è diffuso, senza distinzioni territoriali. Interessa uomini e donne di tutte le fasce d’età e si fa sentire in particolare tra i 35 e i 59 anni.

Resta ancora stabile la quota delle persone che sostengono di svolgere attività sociali e partecipano a reti informali: l’81,7% degli interpellati conta su una rete potenziale di aiuto, il 14,8% ha finanziato associazioni, il 10,7% svolge attività di volontariato. Dal 2013, anno elettorale che ha segnato un’inversione di tendenza della presenza femminile negli organi legislativi ed esecutivi, è stato registrato un miglioramento della partecipazione delle donne alla vita istituzionale. Oggi la loro rappresentanza nel Parlamento europeo tocca il 37%, nel 2009 era il 35%. A livello nazionale supera la quota del 30%, un aumento di dieci punti dal 2009.

GIOVANI NEET Il peso delle diseguaglianze si fa sentire nell’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e all’economia della conoscenza. Il divario territoriale tra Nord e Sud è tradizionalmente stabile. Il tasso di abbandono scolastico è in diminuzione a livello nazionale: 14,7% nel 2015, ben al di sopra della media Ue (11%). La situazione assume tutta la sua gravità vista dai territori. L’abbandono si è attestato all’11,6% nel Centro-Nord e al 19,2% nel Mezzogiorno, dove la quota dei Neet – i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studiano né lavorano – è al 35,3%. Quasi doppia rispetto al Nord (18,4%).

Con la trasformazione dell’università nell’esamificio del «3+2» e l’enfasi sulla professionalizzazione dell’istruzione secondaria, il nostro paese è riuscito a ridurre solo leggermente il basso tasso di istruzione diffuso. Tra il 2004 e il 2015 è cresciuta la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con un diploma superiore (al 59,9%, +11%) e quella tra i 30 e i 34 anni con una laurea (25,3%, +10%).

DIPLOMATI E LAUREATI Rispetto alle medie europee, resta l’abisso. La quota di 25-64enni con almeno il diploma è di oltre 16 punti inferiore alle media europea, così come il tasso d’istruzione terziaria dei giovani 30-34enni è inferiore di oltre 13 punti e ancora molto lontano dall’obiettivo nazionale previsto da Europa 2020 (25-26%). È la prova del fallimento della ventennale strategia neoliberale che ha inteso aumentare il numero dei laureati. Oggi assistiamo a un fenomeno imprevisto per i «riformatori» del sistema: il calo degli iscritti all’università. Tra i pochi risultati positivi c’è la partecipazione alla scuola dell’infanzia che supera il 92% per i bambini tra i 4 e i 5 anni, una delle più alte in Europa.

Il taglio di 8 miliardi alla scuola e di 1,1 all’università, voluto dal governo Berlusconi nel 2008, ha prodotto conseguenze devastanti su un sistema dove gli investimenti sulla conoscenza e l’innovazione sono ben al di sotto la media Ue sulla spesa per ricerca e sviluppo, i brevetti, l’occupazione hi-tech e qualificata. Nel 2014 era all’1,38%, in aumento sul 2013, inferiore all’obiettivo dell’1,53%. Una percentuale raggiunta solo al Nord.

SERVIZI PUBBLICI Aumentano le differenze territoriali nell’erogazione dei servizi pubblici. Le politiche di austerità che hanno tagliato i fondi sociali agli enti locali, il blocco del turn-over, hanno inciso sull’offerta dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. La spesa impegnata dai comuni è in diminuzione dal 2011. L’obiettivo è garantire il 33% dei posti in strutture pubbliche ogni 100 bambini da 0 a 2 anni.

Il divario fra le regioni del Centro e del Nord e quelle del Mezzogiorno è rilevante. Questo significa che la conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della vita dei genitori diventa sempre più difficile man mano che si scende da Roma in giù.
Nei servizi di pubblica utilità si registra un aumento dei black out in Sicilia: sono state più di cinque nel 2015. Altrove ci sono state 2,4 interruzioni dell’elettricità per utente, erano due nel 2014.

BENI CULTURALI I tagli hanno inciso anche sulla capacità di gestire i beni culturali in un paese che conserva il primato nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco per numero di beni iscritti: 51, pari al 4,8% del totale. La spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale continua a diminuire: dallo 0,3% del 2009 allo 0,2% del 2015.

Cresce – a dispetto della crisi dell’edilizia – l’abusivismo. Nel 2015 sono state realizzate venti costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 17,6 dell’anno precedente e le 9,3 del 2008. Cresce anche la percezione del degrado paesaggistico: il 22,1% nel 2015 contro il 20,1% dell’anno precedente. E si registra anche il fenomeno opposto: diminuiscono gli italiani che considerano l’abusivismo tra i principali fattori della rovina del paesaggio: 15,7% nel 2015, 17,1% nel 2014.

SALUTE Il Belpaese resta uno dei paesi più longevi d’Europa, anche se la speranza di vita è sotto la media europea. Diminuisce l’età media, da 82,6 a 82,3 anni. L’aumento della mortalità ha fatto discutere. Per l’Istat le cause sono dovute a una combinazione di elementi: oscillazioni demografiche e fattori congiunturali di natura epidemiologica e ambientale che hanno comportato un aumento dei decessi nella popolazione più anziana. Lo stesso fenomeno è stato registrato in altri paesi europei.

L’incremento della mortalità non ha avuto conseguenze sulla qualità degli anni da vivere. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa.

fonte: il manifesto, 15 dicembre 2016


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