Bolivia: le sfide dello scenario post referendum

Bolivia: le sfide dello scenario post referendum

di Hugo Moldiz Mercado

 In Bolivia la compagine sociale che ha reso possibile questa rivoluzione ha raggiunto un pericoloso livello di passività

A cosa si deve il fatto che la continuità della rivoluzione boliviana, dall’orizzonte emancipatore socialista e comunitario, sia ora seriamente minacciata, a poco più di tre anni dalla conclusione del mandato costituzionale del lider indigeno contadino?
D’altro canto, anche se non con la stessa intensità né con uguale pericolo, la Rivoluzione Democratica e Culturale condotta dal presidente Evo Morales attraversa anch’essa un momento difficile e la continuità del processo più profondo della storia di questo paese, incastonato nel cuore del Sud America, non ha ormai le stesse garanzie su cui poteva contare fino al 2014. La Bolivia è cambiata radicalmente negli ultimi dieci anni: possiede un modello economico capace di generare attivi e ridistribuirli a beneficio della società attraverso vari meccanismi; negli ultimi tre anni (2013-2015) ha raggiunto il primo posto per crescita economica nella regione sudamericana e il secondo in America Latina; su poco più di dieci milioni di abitanti, circa due milioni di persone sono uscite dalla povertà estrema e un milione ha raggiunto la condizione di “classe media” (1); ha sperimentato un’espansione della democrazia per il quale la gente ormai non solo vota ma anche elegge (prima il Presidente era designato dal Congresso), partecipa e decide; e infine, esiste un processo inoccultabile di ampliamento di diritti cittadini e comunitari.
In Bolivia la compagine sociale che ha reso possibile questa rivoluzione ha raggiunto pericolosi livelli di passività. È evidente che non vi è una sola causa. Sarà forse opportuno sottolineare, parafrasando Marx, che la realtà è la sintesi o l’espressione di molteplici determinazioni e non di una sola. Nelle prossime righe cercherò di sintetizzare le cause che spiegano la situazione del’attuale processo politico boliviano.

Elementi esterni

Se analizziamo i fattori esterni, la Bolivia non è isolata rispetto agli effetti provocati dalla controffensiva generale dell’imperialismo statunitense e delle oligarchie locali nel loro obbiettivo di ristabilire il controllo sull’America Latina. Controffensiva che ha come condizione sine qua non l’espropriazione a beneficio delle transnazionali delle risorse naturali strategiche della regione, in maniera da rafforzare la loro strategia di contenimento della Cina e della Russia sullo scacchiere mondiale in lizza.
La controffensiva imperialista non è nuova. Le sue origini risalgono quasi alla fine del secolo XX in una chiara e aperta reazione alla prima vittoria della sinistra nelle urne in mezzo all’universo capitalista – fatta eccezione per l’eroica resistenza cubana in America Latina – nella quale si scorgeva, tuttavia, un prematuro logorio e fallimento del modello neoliberale. Il trionfo di Chávez in Venezuela nel 1998 segnava non solo il punto di discesa del consenso di Washington, ma anche l’inizio della costituzione di governi progressisti e rivoluzionari in America Latina.
Nel giro di sedici anni i governi rivoluzionari di Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua, ma anche quelli progressisti di Brasile, Argentina, Honduras e Salvador hanno affrontato, in diverso grado, un sistematico accerchiamento da parte delle forze oligarchico-imperialiste con alcune o tutte le caratteristiche della guerra non convenzionale: boicottaggi economici, campagne per privare i negozi dei generi di consumo, uccisioni di dirigenti politici e sociali, minacce di strappi costituzionali e di divisione territoriale, sovversione ideologica attraverso ONG finanziate dagli Stati Uniti direttamente o attraverso reti europee, accerchiamento mediatico e tentativi di attentati ai Capi di Stato. Ciò che è cambiato dal 5 marzo 2013, dopo la morte del Comandante Chávez, è l’incremento dell’onda controrivoluzionaria contro i processi di cambiamento che ha portato all’estromissione dal governo del “kirchnerismo” in Argentina e alla destituzione mediante un golpe parlamentare di Dilma Rousseff in Brasile.
Eppure, nonostante il cambiamento dei rapporti di forza e la difficile situazione regionale, i governi rivoluzionari della Bolivia, del Venezuela e dell’Ecuador possiedono ancora un capitale politico che apre la condizione di possibilità di resistere e di invertire la complessa situazione che si trovano ad affrontare, ciascuno con la propria specificità. Questo significa che la sconfitta del “chavismo” nelle legislative del dicembre 2015 e di Evo Morales nel referendum del 21 febbraio 2016 per aprire la Costituzione alla possibilità di una nuova candidatura nel dicembre 2019, così come la creazione di una candidatura presidenziale di Alianza País senza Rafael Correa in Ecuador, non implicano automaticamente la cancellazione di questi processi rivoluzionari né tanto meno vittorie strategiche della destra e dell’imperialismo. Non lo sono perché, a differenza dei paesi nei quali si sono instaurati governi progressisti, in Bolivia, Venezuela ed Ecuador si sono avute rivoluzioni nelle quali si è verificata la sostituzione di un blocco di potere da parte di un altro, nelle quali si è prodotto un cambiamento parziale del sistema di valori legato al neoliberismo e nelle quali si è andato costituendo un nuovo sistema istituzionale statale. Tutto ciò dà ai governi rivoluzionari la condizione di possibilità di invertire il momento sfavorevole.
È inoltre prudente ricordare che l’imperialismo e la destra boliviana hanno applicato con successo una strategia sovversiva per il referendum del 21 febbraio. Anche se si è trattato di una vittoria di Pirro, non è meno vero che il governo del presidente Evo Morales stava attraversando un momento complesso e che, utilizzando un metodo diverso rispetto a quello usato dieci anni prima per sconfiggere il processo di cambiamento, sono riusciti a raggiungere l’obbiettivo. Contro la rivoluzione boliviana è stata sferrata la cosiddetta Guerra di Quarta Generazione sulla base di una “narrazione” (2) ben costruita con la quale si è ottenuto di danneggiare l’immagine, fino ad allora intoccabile, del lider indigeno Evo Morales. In un decennio non hanno avuto successo con la guerra economica, la guerra politica, le battaglie elettorali e la guerra militare, ma hanno ottenuto quello che volevano – evitare l’approvazione della modifica della Costituzione Politica dello Stato per una nuova candidatura alle elezioni del 2019 – sulla base di una strategia di menzogna, manipolazione e paura e con le armi dei mezzi di comunicazione e delle reti sociali che il governo aveva sottovalutato.

Sfide future

Ebbene, da che punto di vista interpretare le difficoltà che la Rivoluzione Boliviana sta attraversando? Per rispondere a questo interrogativo svilupperò il mio discorso approfondendo più le prospettive che l’analisi delle cause. Ciò non significa che si fingerà di non vedere le cause, ma che esse sono implicite nello svolgimento dei compiti che la Rivoluzione Boliviana dovrà affrontare.
Un primo fattore da risolvere è il ristabilimento dell’equilibrio o la “relazione di corrispondenza armoniosa” tra la Società Politica e la Società Civile, cioè tra potere ed egemonia. A differenza della prima gestione (2006-2009) nella quale sono state affrontate anche minacce reali di colpo di Stato, separatismo territoriale a partire dal controllo dell’ultradestra di cinque dei nove Dipartimenti del paese e un attentato alla vita del Presidente, la rivoluzione boliviana riflette negli ultimi anni un pericoloso iato tra lo Stato e la società, più a causa delle debolezze e degli errori del gruppo al potere e dei movimenti sociali che dei risultati e della forza dell’opposizione di destra.
I rapporti di potere, esistenti in ogni tipo di Stato, si costruiscono a partire dallo Stato stesso attraverso il suo apparato statale e i suoi meccanismi istituzionalizzati. L’egemonia si costruisce e si amplia a partire dalla società. A entrambi i livelli – Stato e società – si producono rapporti di forza che definiscono il corso storico dei processi in evoluzione. Questa è una realtà teorica e pratica innegabile.
Da questo punto di vista, vi sono congiunture nelle quali il potere è predominante rispetto all’egemonia, ma è particolarmente preoccupante il caso in cui si attribuisca allo Stato il ruolo di soggetto e, conseguentemente, di unico organizzatore dell’egemonia nella società. È preoccupante perché in generale, come dice Álvaro García Linera, lo Stato tende alla concentrazione e al monopolio delle decisioni, mentre la società tende a una maggior democratizzazione delle decisioni quando c’è un soggetto storico che la dirige.
Nell’attuale situazione politica boliviana, a causa di una certa “feticizzazione” del potere, forse più nella società che un tempo era condotta dalla forza organizzatrice e attivatrice delle organizzazioni social ma anche a certi livelli dello Stato, ciò che risulta evidente è la diminuzione o forze anche la scomparsa della capacità di direzione di coloro che sono chiamati a costruire l’egemonia. Vale a dire, quel blocco indigeno-contadino-operaio e popolare che era già alla guida prima di vincere le elezioni del dicembre 2005 e poi divenne dominante dopo aver espulso dal potere il vecchio blocco oligarchico-borghese legato agli Stati Uniti, ha smesso di essere tale producendo un vuoto di guida nella società che ha aperto la strada alla nascita e allo sviluppo di una corrente controegemonica conservatrice contraria al progetto emancipatore di orizzonte post-capitalista.
Un secondo fattore, causa ed effetto del primo, che la Rivoluzione Boliviana dovrà risolvere urgentemente, è la ricostituzione del soggetto storico che ha reso possibile resistere e sconfiggere il neoliberismo ed aprire l’esperienza rivoluzionaria più profonda della storia di questo paese. Quel soggetto indigeno-contadino-operaio e popolare non esiste nella Bolivia di oggi. Per varie ragioni, che vanno dall’illusione di “prendere il cielo d’assalto” al ritorno agli interessi corporativi a breve termine, passando per la “feticizzazione” o “alienazione” del potere, i movimenti sociali, particolarmente quelli urbani, hanno abbandonato i loro interessi strategici a lungo termine e, di conseguenza, la loro prospettiva universale.
Quando questo accade, il “senso comune” intorno al quale si articolano le lotte, le resistenze e i progressi del gruppo delle classi subalterne elevate alla condizione di gruppo al potere si debilita e corre il rischio di frammentarsi in modo irreversibile. In altre parole, si producono vari “sensi comuni” specifici, di prospettive limitate e spesso in contraddizione con gli altri, fino al punto di poter arrivare ad essere antagonisti.
Il soggetto storico si costituisce nella lotta, non è predestinato né tanto meno si configura nella passività. Il livello di coscienza per affrontare i compiti richiesti dal momento storico, nella laboriosa e irrinunciabile missione di costruire una nuova società, si acquisisce o no a seconda del ruolo protagonista o secondario che si ha nella lotta quotidiana. Il soggetto storico non solo esiste quando resiste, ma quando resiste in articolazione con altri settori sociali da una prospettiva nazionale e quando incarna l’agenda o il programma del cambiamento. Resistere-costruire-resistere è un triangolo permanente nella lotta contro il capitale e nella sfida di costruire una società che vada oltre il capitale.
Ciò premesso, in Bolivia la compagine sociale che ha reso possibile questa rivoluzione ha raggiunto pericolosi livelli di passività. È cioè passata dall’essere artefice della propria storia a costituirsi in attore passivo di ciò che si fa o no a partire dallo Stato. Questa passività e questo ritorno agli interessi privati denotano un indietreggiamento nel livello di coscienza ed esprimono un processo destituente del soggetto storico. Tenuto conto dell’oggettiva sussunzione reale e formale al capitale nella globalizzazione capitalista odierna, quando si verifica questo indietreggiamento, quegli uomini e donne acquisiscono solo la condizione di “capitale variabile” e non quella di soggetti storici di una rivoluzione post-capitalista.
Un terzo fattore è la ricerca di uno “sdoppiamento articolato del soggetto storico”. Questo significa che il blocco indigeno-contadino-operaio e popolare veda se stesso e si comporti secondo la sua doppia condizione:
Da una parte, come “gruppo che detiene il potere politico dello stato” e che ha pertanto l’enorme responsabilità di essere portatore di una concezione universale dello Stato e di rappresentare l’interesse generale di tutti e tutte, di superare le visioni corporative o settoriali al momento di progettare ed approvare le politiche pubbliche e di generare le condizioni istituzionali necessarie per una effettiva partecipazione alla costruzione del potere. Il soggetto storico è il più interessato a raggiungere livelli di efficienza e produttività nella gestione delle imprese pubbliche, dato che da ciò dipende l’assicurare la produzione di utili da ridistribuire con vari meccanismi.
Dall’altra, come protagonista o attore politico e sociale strategico nella costruzione dell’egemonia riguardo all’orizzonte di visibilità del progetto storico. Questo gruppo pertanto deve essere portatore di una visione universale del mondo e di un “senso comune” che articoli gli altri “sensi comuni” dei popoli che si guardano, da diversi livelli di sviluppo della coscienza sociale, al superamento dei rapporti di antagonismo e di subordinazione creati dal capitale. Come suggerisce Gramsci nei suoi scritti, la costruzione dell’egemonia è l’accoglimento di quelle idee altrui che non alterano o cambiano il percorso del progetto che si sta realizzando.
Il comportarsi solo da gruppo che detiene il potere politico lo aliena e lo separa dalla società nella quale si apre anche la discussione contro il sistema di valori del capitalismo, cosa che lascia aperto uno spazio alle forze conservatrici per ricompattarsi e costruire le condizioni di un progetto controegemonico a quello in corso dal 2006. Analogamente, il solo comportarsi da attore politico e sociale strategico, senza nessuna partecipazione nelle strutture statali o livelli decisionali, apre la strada allo sviluppo delle correnti opportuniste generalmente abili a penetrare nelle alte sfere, ma allo stesso tempo spinge l’attore politico a migrare o rifugiarsi progressivamente nei suoi interessi corporativi a breve termine.
In tal senso, un corretto ed adeguato “sdoppiamento articolato del soggetto storico” implica mantenere ininterrotta l’iniziativa strategica e cambiare la logica conservatrice del potere, in quanto ciò conduce “dall’alto” e “dal basso” alla costruzione di un potere radicalmente diverso da quello di cui si circonda il capitale.
In quarto luogo vi è la sfida di raggiungere un equilibrio tra la gestione e il lavoro politico a partire dallo Stato e meglio ancora da fuori di esso. Non c’è alcun dubbio sul fatto che Evo Morales abbia cambiato radicalmente la Bolivia in quanto è riuscito a materializzare le agende pendenti dei secoli XIX e XX e ad affrontare l’agenda del secolo XXI. Non vi sono precedenti di un impulso così forte al processo di modernizzazione del paese e allo stesso tempo al processo di ampliamento dei diritti collettivi e di costruzione plurinazionale.
Tuttavia, i risultati della gestione, altamente apprezzati dalla popolazione, non si traducono ora automaticamente in un aumento dell’appoggio politico al governo, in intenzione di voto per il MAS e ancor meno in una presa di coscienza del fatto che solo un processo dall’orizzonte socialista e comunitario è stato capace di ottenere cose che non sono state fatte o sono rimaste da fare dalla fondazione della Repubblica e di garantire inoltre il futuro del paese. Le grandi e piccole opere che il Presidente Evo Morales presenta ogni giorno sono stata una novità ampiamente valutata fino al 2014 che si traduceva in voti e sostegno politico, ma ora non accade la stessa cosa. La gente pensa che sia un obbligo dello Stato fare quello che sta facendo e sono i giovani quelli che maggiormente ignorano quanto si è dovuto lottare per rendere possibile questo processo di cambiamento.
Una quinta sfida consiste nell’accelerare la costruzione dello Stato come istituzione plurinazionale. Con la nuova Costituzione Politica dello Stato, sorta dopo il processo costituente, si è avuto un cambiamento parziale dell’organizzazione dello Stato. Dal concepire i “poteri” come “organi – in quanto il potere è unico e risiede nel popolo – fino al cambiare i nomi dell’Esecutivo, Legislativo, Giudiziario ed Elettorale. La Rivoluzione ha iniziato a “bagnare” tutti gli ambiti della realtà con il suo “senso comune” tra il 2009 e il 2014. Ma l’opera è rimasta inconclusa dato che la dinamica, la tecnica, parte della normativa e la logica delle vecchie istituzioni si mantengono ancora inalterate. Anche dopo aver incorporato la “plurinazionalità” nelle diverse istanze dello Stato, cosa che non è di piccolo conto dal punto di vista simbolico e politico, resta ancora molto da cambiare e riformare nella struttura statale.
Una delle caratteristiche centrali del lavoro che resta da fare in termini di costruzione delle istituzioni è che il nuovo blocco storico – inteso come quegli intellettuali e tecnici che organizzano l’amministrazione pubblica e rappresentano il vincolo tra la struttura e la sovrastruttura – subisce la resistenza e a volte il sabotaggio da parte del vecchio blocco storico. Questo fenomeno è comprensibile in quanto anche le rivoluzioni giunte al potere per mezzo della violenza rivoluzionaria si sono viste costrette a servirsi dei burocrati del vecchio stato. Dalla rivoluzione bolscevica a quella cubana, al principio si è dovuto far ricorso a intellettuali e tecnici di governi del passato per amministrare la cosa pubblica. E i tempi politici nelle rivoluzioni nate dalla lotta elettorale sono molto più lunghi e pieni di complicazioni, anche se allo stesso tempo complessi per la necessità rutinaria a breve termine di rivalidare la propria legittimità con le urne ogni cinque anni. E in Bolivia è stato ancora più difficile, a motivo di una popolazione maggiormente esclusa dalla scolarizzazione e da un ceto intellettuale altamente funzionale al vecchio ordine. Ma a dieci anni dall’inizio del processo di cambiamento, non avere quadri politici e tecnici capaci di guidare le diverse istanze dello Stato Plurinazionale riflette una gran debolezza.
Dunque, portare avanti una nuova struttura degli “organi” dello Stato e completare la sostituzione della burocrazia delle vecchie istituzioni per sostituirla con il nuovo blocco storico è un compito centrale dalla prospettiva rivoluzionaria boliviana.
Infine, un sesto fattore da risolvere favorevolmente da parte della rivoluzione boliviana, che è anche un compito da affrontare per le rivoluzioni del secolo XXI, è trovare la formula per eludere la camicia di forza rappresentata dalla democrazia rappresentativa che sussume le ricche e dinamiche democrazie diretta e partecipativo-comunitaria che sono state incorporate nella Costituzione Politica dello Stato da parte del soggetto costituente (soggetto storico) nel quadro del processo costituente.
Il riconoscimento delle democrazie diretta, partecipativa e comunitaria quali spazi di costituzione, organizzazione, presa di coscienza e mobilizzazione del soggetto storico delle rivoluzioni post-liberali e post-capitaliste non implica che la democrazia rappresentativa abbia smesso di essere lo spazio principale di disputa tra la dominazione e l’emancipazione. Questo non è un male in sé, ma non si deve perdere di vista il fatto che in questa disputa le forze sociali rivali interessate a stabilire la loro visione di organizzazione della vita sociale non entrano nel campo di battaglia ad armi pari. Le forze rivoluzionarie devono fare uno sforzo maggiore per conoscere e gestire meglio le regole di una democrazia forgiata a immagine e somiglianza della borghesia, ma anche per non lasciarsi bloccare dalla sua tendenza alienante, In realtà, si deve acquisire la democrazia rappresentativa per poi trasformarla radicalmente in uno spazio di concretizzazione delle altre democrazie.
Due sono le caratteristiche centrali della democrazia rappresentativa sollo la conduzione liberal-conservatrice: da una parte, l’esistenza di una linea di separazione tra governanti e governati a partire da interessi di classe, cosa che in Bolivia implicava, fino a prima del governo di Evo Morales, un’esclusione dal potere e una lotta di classe su base etnica; dall’altra, il meccanismo dell’alternanza – pregiudizio liberale che ha in qualche modo influito nel risultato del 21 febbraio – e non dell’alternativa. Per due decenni in Bolivia l’alternanza si era avuta tra i partiti politico della stessa alternativa: il neoliberismo.
Dunque, da un punto di vista rivoluzionario la sfida è come le democrazie partecipativa, diretta e comunitaria si proiettano attraverso la democrazia rappresentativa. Questo vuol dire che il soggetto storico deve produrre sempre la sua condizione di maggioranza sociale, di maggioranza politica e di maggioranza elettorale anche prima del rituale del voto. E questa sua condizione viene esercitata costruendo egemonia nella lotta con idee per rendere il cambiamento più profondo, proposte, strategie, percorsi, eccetera.
La Rivoluzione Boliviana conta, per affrontare queste sfide e rettificare gli errori e gli sbagli commessi, su di un lider straordinario, Evo Morales, che fa parte del triangolo vittorioso – forza organizzatrice del popolo, lider e progetto alternativo – di cui c’è bisogno per avanzare. L’imperialismo non fa altro che svolgere la sua funzione quando cerca di sconfiggere e distruggere i nostri processi, non smetterà mai di farlo. Il nostro compito è fare un bilancio quanto più possibile obbiettivo di ciò che abbiamo fatto in dieci anni di rivoluzione al fine di correggere quello che è venuto male, consolidare quello che stiamo facendo bene e costruire una nuova soggettività che sia forza materiale rivoluzionaria per continuare la strada vittoriosa dell’emancipazione.

1 La definizione di “classe media” dev’essere analizzata all’interno della sinistra, specialmente nei governi rivoluzionari e progressisti. Senza negare che questa classe media si sia ampliata, si corre il rischio di confondere maggiori entrate per i lavoratori con il loro “trasferimento” in un’altra classe sociale. Forse senza rendercene conto, quello che facciamo è trasformare ideologicamente lavoratori che hanno maggiori entrate in classe media, con tutto ciò che a volte significa in termini di modificazione della posizione politica e culturale, per cui più che rafforzare il campo della rivoluzione la si indebolisce.
2 A due settimane dal referendum, un giornalista ed ex direttore di intelligence del governo di Jaime Paz Zamora, nonché fonte permanente dei servizi segreti degli Stati Uniti a quanto risulta dai cablogrammi resi pubblici da WikiLeaks, ha lanciato una denuncia di traffico di influenze contro il presidente Evo Morales. La strategia, demistificata nel maggio 2015, si basava su contratti che sarebbero stati firmati tra una società cinese e lo Stato tra il 2013 e il 2015, nonché su una ex partner del presidente nel 2007 e sull’esistenza di un figlio. Non vi fu mai traffico di influenze e non esiste prova fisica del bambino

fonte: Resumen Latinoamericano/La Época/ 02 de Julio 2016.

traduzione di Barbara Fiorellino

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