Bella ciao e i partigiani del XXI secolo

Bella ciao e i partigiani del XXI secolo

Stefano Galieni*

Rincuora, in un pianeta che precipita nella barbarie della guerra e nel neoliberismo sfrenato – due facce della stessa medaglia – ascoltare le voci delle combattenti del YPG del Rojava, intonare come propria canzone “Bella Ciao”. Sono giovani, che ogni giorno rischiano la vita e che nel proprio bagaglio di combattenti portano con se una traccia di Storia che ci appartiene e che spesso è confinata in una retorica stantia.

Vengono da una parte vicina e lontana del pianeta, lontana perché le loro lotte spesso restano sullo sfondo, un panorama a cui mano mano ci stiamo assoggettando, vicina perché il Rojava, la Siria, La Turchia, il Medio Oriente, rimbalzano ogni giorno nei nostri notiziari sotto la forma scomoda e invadente dei richiedenti asilo, di chi cerca di salvarsi la vita e di progettarsi un futuro.

Siamo consapevoli che la loro Resistenza ha tanti punti in comune con quella che ad ogni 25 di aprile ci raccontiamo, come quella in Palestina, nel Donbass, in Eritrea. Paesi in cui si combattono i dominanti – spesso appoggiati da chi ci governa – e da cui contemporaneamente si è costretti a fuggire. Perché l’asimmetria del conflitto è troppo grande, perché quando a bombardarti sono contemporaneamente i caccia delle maggiori potenze mondiali e dove non arrivano i caccia intervengono i tagliagole del fascismo jahedista, salvare almeno i figli è un dovere e poi si cerca di pensare al futuro. Quante oggi sono le S.Anna di Stazzema, le Marzabotto che avvengono costantemente e senza che ne resti grande traccia.

Già ma non avvengono in Italia, neanche in Europa e le vittime, come al solito quasi sempre civili, sono vittime di serie B che non hanno un nome e una storia, per cui non ci sarà mai forse un monumento, una data per ricordarli, una giustizia in cui a sedere sul banco degli imputati dovrebbero essere tanti eleganti capi di Stato che si incontrano nelle nostre “civili” capitali occidentali.

E finché restano dall’altra parte del mare restano anche per la parte più sensibile “comodi eroi”, spesso da sostenere, per cui manifestare, a cui dedicare anche interventi umanitari. Ma non è sufficiente.

In Italia agli albori del fascismo, i pochi – all’epoca – oppositori, spesso fuggirono per salvare la propria vita. E nella diaspora ricostruirono organizzazione, gettarono le basi per quella che solo tanti anni dopo divenne Resistenza diffusa. Il loro pensiero, i loro giornali che circolarono clandestinamente, la loro stessa presenza, in Francia come in Unione Sovietica, divenne speranza per chi in silenzio non si era ancora arreso e adeguato alla maggioranza, quando ancora la guerra non aveva fatto pienamente comprendere la violenza dei regimi fascista e nazista.

E altri andarono a combattere in Spagna, laddove si poteva ancora resistere, ancora lottare, ancora impedire l’avanzata nazifascista. Ci fu anche chi andò a sostenere la resistenza in Etiopia, pochi certamente, quasi tutti comunisti, ma davano il senso di una scelta.

Oggi i richiedenti asilo, provenienti da mezzo mondo sono oltre 60 milioni, una dimensione che mai si è avuta nella Storia. Di questi, poco più di un milione cercano di entrare in Europa eppure prevale lo spavento, l’egoismo, il rifiuto, la crescita di forze politiche di chiara matrice xenofoba la cui cultura rimanda a quel fascismo così lontano e così vicino. Eppure in Austria come in Serbia, proprio in queste ore, si affermano partiti i cui richiami ad un sovranismo respingente sono inquietanti. Populismo, parole d’ordine in cui si mescolano promesse vane di misure di protezione sociale per “gli italiani”, in cambio del respingimento, peraltro impossibile, di coloro che cercano riparo dentro i templi della nostra opulenza.

Dichiarare la totale alterità a queste forze e agli schemi culturali e politici che tentano di imporre è oggi non solo necessario ma va praticato nelle mille forme in cui è possibile.

L’accoglienza è necessaria ma non basta, salva la coscienza e ci riduce unicamente a strumenti per lenire dolori sostituendoci ad uno Stato che in quanto a politiche di welfare e protezione sociale, continua a tagliare per tutti, autoctoni e non.

La solidarietà è altrettanto necessaria ma continua a permettere il permanere di un rapporto di subalternità fra chi solidarizza e chi resta comunque oppresso, in casa propria come qui, grazie ad un sistema legislativo, italiano ed europeo, che non prevede parità.

E allora, pur consapevoli che la fuga dalla guerra, dallo sfruttamento, da una dittatura, è soprattutto e all’inizio un percorso individuale e apparentemente privo di prospettive, dovremmo cercare di aggiungere altro.

Dovremmo contemporaneamente costruire legami con coloro che incominciano, anche da noi, a organizzare resistenza, a prospettare un futuro diverso che possa prevedere anche un ritorno nel proprio paese.

E nel frattempo riprendere battaglie troppo trascurate per una politica estera che sia contro la guerra, contro la vendita di armi a chi opprime i propri popoli, per affermare anche da noi la necessità di riaffermare un conflitto che veda come avversario chi sfrutta autoctoni e migranti.

Rompere l’immaginario collettivo dominante basato su semplificazioni reazionarie, imparare a dire la verità, anche se scomoda, anche se poco rassicurante anche per i nostri soggetti sociali di riferimento. Spiegare il perché la nostra dannazione non è rappresentata da una “casta” come vorrebbero i sostenitori del M5S, dagli immigrati, come afferma la Lega, dai fannulloni e dai magistrati come insiste nella nuova sacra unità il Partito della Nazione. Ma da chi detiene la gran parte delle ricchezze del pianeta, da chi toglie i diritti, da chi impone vecchie nuove oligarchie.

E in un quadro simile, avere il coraggio di dire che chi fugge dalla guerra, rompendo le frontiere, come chi lotta per impedire la dittatura 2.0 che si va imponendo, ha lo stesso valore e lo stesso potere di rivolta che ebbero allora i partigiani.

Oggi mura e frontiere rappresentano per i padroni lo stesso valoro che ebbero allora i regimi nazifascisti, decidono a quali popoli sia permesso vivere e a quali no, e fra entrambi quale sia l’intangibile ordine gerarchico che deve governarne l’esistenza. Ognuno al suo posto e guai a pretendere di rompere l’ordine prestabilito; chi sfonda un confine è un nemico di quest’ordine mondiale e di guerra.

Proprio per questo la frase che quest’anno appare sulla tessera del nostro partito, “Nostra patria è il mondo intero”, è ancora più valida.

*Responsabile nazionale immigrazione Prc-SE

Dedicato alla compagna Bianca Bracci Torsi 


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