
Per discutere di Donbass, presente e passato
Pubblicato il 4 apr 2016
Giovedì 7 aprile, alle ore 17.30 presentiamo a Roma, in Via Flaminia 53, Sala Bianca il volume Donbass, i neri fili della memoria rimossa, di Silvio Marconi. Saranno presenti oltre all’autore, Giovanni Russo Spena, che ne ha scritto la prefazione, Paolo Ferrero, segretario del Prc e Vincenzo Bellantoni, della Carovana Antifascista.
Una recensione di Stefano Galieni
Comprendere la complessità del conflitto in atto nel Donbass è impossibile se non si prova a conoscere alcuni elementi di Storia contemporanea. È questo il percorso che ha seguito l’antropologo Silvio Marconi nel realizzare l’interessantissimo “Donbass, i neri fili dellla memoria rimossa”, (Edizioni Croce, pp.240, 18 euro). Il testo è frutto di una accuratissima ricerca che parte dal voler dare una risposta più netta alle ragioni di un conflitto che vede come protagonisti una parte del popolo ucraino e le popolazioni russofone di varie aree orientali, fino a pochi anni fa considerati territorio ucraino e oggi contese. Ci sono ragioni di natura geopolitica: l’interesse dell’UE e in generale dell’occidente di tenere sotto il proprio controllo quello che è storicamente il “Granaio d’Europa”, quello altrettanto netto della grande Russia di Putin che non accetta tale spostamento degli equilibri e poi la memoria, il presente e le aspirazioni dei popoli.
Non è possibile certo generalizzare ma il governo di Kiev, nato sulla base di una delle tante rivolte pacifiche e della cui natura sarebbe necessario interrogarsi con maggiori strumenti di quelli offerti dai nostri media, si è rapidamente spostato a destra, costruendo una propria identità in chiave anti russa e anti sovietica. Ma il ricordo di quanto subito ai tempi dell’Unione Sovietica, non è certo adeguato a giustificare una deriva propriamente filonazista. Come ben racconta Marconi nel suo testo, il sentimento patriottico di una parte consistente di chi governa oggi in Ucraina ha recuperato come eroi i tanti collaborazionisti che durante la Seconda guerra mondiale, provarono a sostenere i tedeschi nell’avanzata, fallita verso Mosca. Non solo criminali nazisti considerati oggi come grandi difensori dell’Ucraina, non solo una simbologia inquietante che rimanda ai periodi più bui ma, come fa ben notare Giovani Russo Spena nella prefazione, anche quegli elementi di nazionalismo razzista, xenofobo, antisemita, antitzigano, che non è mai morto nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. L’autore racconta la teoria e poi la prassi che portarono le armate del terzo reich ad occupare l’Ucraina. Nella teoria il territorio sarebbe dovuto divenire una parte dello spazio vitale germanico, dove si sarebbero dovuti eliminare ebrei, rom, slavi e comunisti e affidare ai “bravi ucraini” (quelli che accettavano il comando di una “razza superiore”) un compito di servitori di rango maggiore. Avrebbero servito il popolo tedesco se la guerra si fosse svolta secondo i sogni hitleriani, non sarebbero stati un popolo certamente libero. Ma se nei territori occidentali forti furono le spinte collaborazioniste, incrementate anche dal sostegno di filonazisti di mezza Europa, ad oriente, in quelle aree ormai note come Donbass prevalsero altre spinte. Il Donbass si considerava, secondo quanto analizzato dall’autore, parte integrante e attiva dell’Unione Sovietica, si era sviluppata una forte coscienza di classe e antinazista, c’era un coinvolgimento popolare più forte nella lotta partigiana.
E questa parte della storia ci riguarda da vicino, è una memoria rimossa tanto dall’Occidente intero, quanto più dalla storia italiana. Una parte consistente del Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, che poi diventerà ArmIR (Armata Italiana in Russia), viene inviata da un Hitler che non intende dare troppo spazio al ruolo italiano, proprio nelle regioni di quello che chiamiamo Donbass. Nella memorialistica che poi ne esce, ovviamente tutta di stampo militare, si impone anche lì il mito “italiani brava gente”, quelli che vengono accolti bene dalle popolazioni locali, che mostrano umanità e fraternizzano, che vengono sostenuti e con cui ci si allea contro il comune nemico “bolscevico”.
Ovviamente un falso: gli ufficiali formati per tale missione, che partivano volontari, erano secondo Marconi, imbevuti dell’ideologia di dominio razziale del Mein Kampf e a tratti emergono i racconti di una presenza partigiana forte e combattiva con cui anche i soldati italiani debbono frequentemente scontrarsi.
È guerra di occupazione e come tale viene combattuta infierendo sui civili, commettendo crimini che solo ultimamente si sta tentando di ricostruire per portare se non gli autori almeno la loro memoria, sul banco degli imputati. Così come per decenni si sono negati i crimini scellerati commessi in Libia e in Etiopia, poi si è continuato a rimuovere quanto commesso nei paesi dell’ex Yugoslavia, in Albania, in Grecia e nell’ex URSS.
Ma tirare fuori queste memorie è sconveniente, porterebbe anche a comprendere almeno in parte l’ostilità profonda riemersa con la nascita delle repubbliche popolari autonome che si sono staccate dall’Ucraina. Un’ostilità che comprende una complessità di fattori, politici, sociali, linguistici, persino religiosi e che ha favorito che la sola soluzione proponibile nel presente diventasse la guerra civile. Come in ogni guerra nessuno si può preservare come innocente ma alcuni fatti sono acclarati e l’autore li pone in rilievo. L’oggettivo dominio delle destre in Ucraina ha favorito anche le collusioni con tutte le forze della destra estrema europea al fianco di Kiev. Un paese che rende illegale i partiti comunisti, che parla di patria ad ogni occasione, che vuole una Ucraina “di chi ha sangue ucraino nelle vene”, è il modello ideale per chi continua a rimpiangere i fasti del periodo nero della storia europea. E sono anche tante le testimonianze di combattenti appartenenti a formazioni di estrema destra europea e anche italiana, che si sono recati a sostenere il governo ucraino. Ma è improponibile, proprio perché si tratta di un conflitto complesso, immaginare una logica campista per cui dall’altra parte, nel labirinto del Donbass, esiste come collante un antifascismo con cui schierarsi. Anche lì per odio verso gli USA e capacità attrattiva dell’imperialismo autoritario russo, una parte di destra guarda con attenzione e fascinazione, anche fra i ribelli del Donbass, sono andate persone di dubbia fama provenienti dai paesi UE nonché nostalgici della grande Russia e del passato staliniano: cosacchi, ceceni, uzbeki, in una riproposizione del confronto est- ovest che ha perso gran parte dei connotati ideologici che portava con se nel passato, con tutte le sue orrende contraddizioni.
Ad avviso di chi scrive, questo ottimo volume serve a uscire da una semplificazione inutile per affrontare i temi che abbiamo davanti. Nel Donbass, anche dai nomi scelti per definire le entità statuali provvisorie che si sono andate delineando, soprattutto due anni fa, emerge forte il richiamo a valori socialisti ma, in uno stato di guerra guerreggiata è pressoché impossibile che il nome si traduca in una nuova modalità di intendere lo Stato e i rapporti sociali. Nulla a che vedere, se si vuole fare un paragone, anche questo in condizioni di guerra, con le prospettive del “confederalismo democratico” del Rojava. Diversa è la storia. Impossibile per le popolazioni russofone accettare i vessilli di chi è ancora ricordato come il demone sterminatore e oggi siede prepotentemente in parlamento, difficile, anche per chi in Ucraina non vuole la riproposizione di uno Stato su base etnica, rimuovere il passato sovietico con tutti i retaggi liberticidi e di oppressione che questi hanno significato. Ed ovviamente non è possibile alcuna equiparazione fra occupazione nazista e periodo sovietico. Non solo due ideologie antitetiche ma due vicende agli antipodi, da una parte la volontà teorizzata e praticata di sterminio e di sottomissione di ogni popolo non tedesco, dall’altra il sogno irrealizzato di una società nuova e libera per tutti, indipendentemente dalle proprie origini nazionali, religiose, sociali e culturali. I fili neri di cui parla Marconi fanno ben comprendere la distinzione radicale esistente e come la loro rimozione non sia affatto casuale. Se negli anni della Seconda guerra mondiale era considerato anche dalle potenze “democratiche” occidentali, scontato, normale privo di qualsiasi connotazione etica negativa, assoggettare popoli ritenuti inferiori, soprattutto extraeuropei, si pensi ai tanti crimini delle diverse fasi del colonialismo, la Germania nazista compie di fatto un salto di livello, considerando altrettanto naturale la soppressione delle popolazioni slave e la conquista dei loro territori, delle loro risorse.
Nonostante non possa essere trovata alcuna giustificazione al terrore staliniano e al social imperialismo che ne è seguito, le prospettive per cui resisteva l’utopia comunista erano forti e radicate. Tanto forti da permettere ad un Paese immenso lasciato da solo a combattere il nazismo, di resistere, di perdere 20 milioni di persone in combattimento e di vincere prima a Stalingrado per poi giungere fino a Berlino. Non è banale dire che in questo revisionismo semplificatorio, operato da chi ha vinto nell’egemonia culturale del liberismo, questa parte della storia non è contemplata, non può esistere. E allora, proprio compito dei comunisti è quello di rileggere bene la storia, di ritrovarne le mille contraddizioni, di analizzarla non come una partita di calcio ma come un continuo modificarsi dei rapporti sociali, economici, materiali e divenire capaci di leggere così anche il presente, un presente complesso e frammentato ma in cui dobbiamo reimparare a orientarci.
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