La Magnifica Illusione, Giorgio Gaber e gli anni 70

La Magnifica Illusione, Giorgio Gaber e gli anni 70

Stefano Galieni

Per chi ha avuto, come chi scrive, il privilegio, di andare più volte nei teatri in cui si è esibito il Signor G, Giorgio Gaber, nel leggere La magnifica illusione, (Volo Libero Edizioni, pp 204, 18 euro), ben scritto dal compagno e amico Nando Mainardi, credo scatti una reazione immediata resa oggi possibile dalle nuove tecnologie. Andarsi a rivedere frammenti dei suoi spettacoli, ascoltare alcuni monologhi e canzoni che hanno accompagnato la vita di varie generazioni e riassaporarne, anche con nostalgia, il peso e il valore. Il racconto di Mainardi, puntuale e pignolo dal punto di vista filologico, parte di fatto dal presente. Un presente in cui anche su Gaber, come su tanti altri “intellettuali” ormai non più in grado di rispondere, si è operato un vero e proprio revisionismo. Si cita ancora il Gaber degli esordi, quello delle canzoni milanesi da cabaret, argute ma considerate leggere, da, La ballata del Cerutti Gino a Barbera e Champagne e poi si compie un salto enorme, di 20 anni almeno, per raccontare la disillusione di un uomo amareggiato, sconfitto, divenuto populista e forse qualunquista, accusato di simpatie destrorse o comunque figlio di quella che oggi chiamiamo “antipolitica”. Mainardi non esclude nella sua scrittura il Gaber degli esordi, lo inserisce in quel mondo culturale vivace e pieno di spunti che oggi è assente, in cui la distanza fra chi era sul palco e chi ascoltava era minima, in cui serio e faceto si incontravano in cui i dubbi rispetto al futuro all’esistenza, i sogni di un Paese ancora in crescita avevano un humus culturale diffuso. La canzone era uno degli spazi, come lo era il teatro, la stessa televisione in cui potevano condurre programmi, persone poco inclini ad accettare il conformismo come Dario Fo e in cui i nascenti “cantautori” partecipavano senza problemi al Festival di Sanremo, perché rappresentavano una porzione rilevante, anche se minoritaria, di sensibilità. Quel mondo secondo l’autore si ferma, non solo simbolicamente con il suicidio di Luigi Tenco, forse era già entrato in profonda crisi da una parte a causa di un potere censorio che allontanava i temi e le persone poco consoni dal grande pubblico e dall’altra dall’esplodere del lungo 68 italiano, come stagione di liberazione.

E in quel periodo il Signor G, dal nome del primo spettacolo di quello che chiamerà “teatro canzone”, Gaber esce dagli schemi, sceglie il teatro come spazio comunicativo, mantiene il ruolo portante della canzone ma emerge nelle sue grandi potenzialità di attore, alternando monologhi a volte tragici, spesso grotteschi e crudeli e incontra quello che è allora, il movimento. E c’è una rottura anche col mercato discografico, consumata con razionalità. Non più dischi ma registrazioni live dei suoi spettacoli, Lp doppi che molti ancora conservano gelosamente. Il “movimento” lo incontra e lo racconta, in maniera singolare. È dentro le dinamiche della politica – di fatto il suo è un vero teatro politico – ma contemporaneamente riesce ad essere osservatore partecipante esterno, in grado di anticipare e mettere in mostra anche i vizi, i limiti, le difficoltà di chi tentava di produrre cambiamento. radicale

Almeno fino al 1978, anno fondamentale, provoca ma non respinge, utilizza il “noi” pur avvertendo la difficoltà di una solitudine difficile da spezzare. Vive un periodo di fermento culturale appassionandosi anche a temi complessi, dall’antipsichiatria di Laing e Cooper, alle riflessioni sul corpo, sulla sessualità, sulla vita di coppia, sempre mantenendo uno sguardo duplice, in cui convivono passione e distacco, critica severa e internità alle questioni sociali. E scorrono come in una carrellata canzoni note e meno note, da I reduci, che rende in poche strofe un percorso collettivo degli anni Settanta a C’è solo la strada, sulle difficoltà della vita di coppia, da La peste, sul fascismo latente della Strategia della Tensione, a l’Uomo che perde i pezzi, a L’odore, La nave, Le elezioni, dove la relazione fra le miserie dell’individuo si mescolano ai fallimenti delle speranze collettive. Su una canzone Mainardi torna più volte e non a caso, Chiedo scusa se parlo di Maria. Un’altra di quelle canzoni poco ricordate ma il cui senso resta eterno: «Come posso parlare di rivoluzione, Vietnam, Cambogia se non so parlare di “Maria”, della realtà di un rapporto, di una persona?». Anche in quegli anni di certezze il Signor G non cessa di porre dei dubbi, delle domande.

Nel 1978 il meccanismo che avvicinava movimenti e Gaber si rompe in maniera durissima. Gaber, che fino al 1974 aveva votato Pci non aveva poi accettato la prudenza e il farsi Stato del partito, si era avvicinato, ma sempre restandone ai margini al “Gruppo Gramsci e alla rivista Re Nudo di Valcarenghi, ma fu un legame che durò poco. L’accrescersi della violenza da una parte, le ritualità e la disillusione verso una generazione che si andava omologando nella contestazione produssero un rigetto violento. Giorgio Gaber e Sandro Luporini, con cui ha condiviso gran parte del percorso artistico non accettarono accomodamenti e mediazioni e ne parlarono senza remore. Il frutto fu lo spettacolo splendido e rabbioso Polli d’allevamento”. Venne contestato in quasi tutti i teatri d’Italia, – ero presente ad una di queste tremende serate – al grido di “venduto” e “traditore” e per capirlo basta ascoltare l’acida Quando è moda è moda, che non lascia scampo, tanto da indurlo, dopo 8 mesi a chiudere con le tournee. Ci vorranno decenni per dire che tutti i torti non li aveva, decenni in cui si son visti i più duri contestatori di quegli spettacoli e del potere costituito, passare senza pudore, al servizio dei potenti di turno. Come ben racconta Mainardi, Gaber a quel punto lascia per alcuni anni il palco, nel 1980 pubblica, solo con una piccola casa discografica a causa di censure verso il testo, un lungo monologo, Io se fossi Dio, in cui non lascia scampo a niente e a nessuno, in cui il nichilismo diviene il tutto. Un monologo in cui, due anni dopo la strage di Via Fani, osa insultare non solo tutti i partiti, i giornalisti, le tante persone dalla doppia morale ma lo stesso Aldo Moro. Torna a calcare poi i teatri, riproponendo antologie e riportando il teatro canzone ai suoi fasti con Anni affollati ma tutto è cambiato. Nonostante le effervescenze politiche internazionali e nazionali non c’è più quel tessuto culturale capace di proporre una spinta al rinnovamento radicale, Gaber e Luporini ne sono ben consapevoli. E le canzoni, come i monologhi si prestano ad una ambiguità interpretativa che ben viene accolta da chi vuole dimenticare le prospettive rivoluzionarie. Canzoni splendide come Il dilemma, vengono percepite come reazionarie. Una canzone che parla di fedeltà e di famiglia, di suicidio in nome della fedeltà, è reazionaria? Difficile dirlo e forse anche ingiusto. Eppure, ancora in quegli anni si scalda sul palco come un adolescente, se incontra un pubblico attento resta in scena anche 4 ore tirando fuori la chitarra e riappropriandosi della sua antica storia, è capace di riadattare i testi facendo divenire canzoni che chiudevano con la rassegnazione, il ritiro in canzoni che incitano a tornare a lottare. Difficile incasellare questo anarchico individualista che non disdegnava il migliore Celine e il miglior Pasolini, che raccontava con un rigore etico faticoso da digerire il proprio soffrire di assenza dell’appartenenza. In un altro brano celebre degli anni novanta, Qualcuno era comunista, Gaber e Luporini la disvelano in pieno questa fragilità che forse è propria di tante e tanti di noi.

Mainardi – e questo forse rende il suo testo ancora più utile come guida – non giudica e non cataloga ma racconta le contraddizioni di un percorso come quello del Signor G che è insieme individuale e collettivo, fatto di sconfitte ma anche di dignità mantenuta.

Non a caso anche le sue canzoni, da quelle ormai di senso comune come La libertà o Un’idea a quelle seminascoste nella memoria, I soli, Una donna e tante altre, continuano ad accompagnarci come gran parte della produzione culturale, non solo musicale di oggi, non riesce, dopo pochi mesi dal suo divenire pubblico, a fare. Va da se che questo non può essere considerato “soltanto” il testo su un grande uomo di teatro. Il Signor G è in fondo per Mainardi il pretesto per raccontare, da un punto di vista particolare quasi 50 di storia sociale italiana, mezzo secolo in cui la musica che cerca di essere non commerciale, diviene veicolo di maturazione e di circolazione di idee e chi la scrive e porta sul palco potente costruttore di una identità collettiva, frammentaria ma che costruisce appartenenza, senso condiviso. Lo è agli albori, quando svela le meschinità e le ipocrisie di una borghesia in disfacimento valoriale, lo è alla fine degli anni magnifici, quando divora anche se stessa, in un cannibalismo che non porta futuro ma produce solo omologazione.

 


Sostieni il Partito con una



 
Appuntamenti

PRIVACY







o tramite bonifico sul cc intestato al PRC-SE al seguente IBAN: IT74E0501803200000011715208 presso Banca Etica.