Umberto Terracini, il comunista che firmò la Costituzione

Umberto Terracini, il comunista che firmò la Costituzione

Il 6 dicembre 1983 moriva Umberto Terracini, uno dei fondatori con Gramsci dell’Ordine Nuovo e del Partito Comunista, uno dei padri della Repubblica nata dalla Resistenza. La Costituzione reca in calce la sua firma di Presidente dell’Assemblea Costituente. Lo ricordiamo attraverso gli articoli dello storico comunista Paolo Spriano e di due dirigenti del PCI come Giancarlo Pajetta e Aldo Tortorella pubblicati sull’Unità in tempi ormai lontanissimi, quando quel giornale difendeva la Costituzione.

Il grande politico che sapeva lottare controcorrente

di Paolo Spriano

 Ci soccorre, pensando a Umberto Terracini, alla sua personalità, quella vecchia battuta di Togliatti che paragonava il Partito comunista italiano a una giraffa, animale raro eppure reale, esistente. Terracini, lungo ben settanta anni di milizia rivoluzionaria, è di certo stato il dirigente comunista più atipico, – eterodosso per tanti aspetti; al tempo stesso in lui si impersonava una continuità di ispirazione, una trasmissione di tratti originari non meno inconsueta. Anche il carattere dell’uomo era difficilmente classificabile nella galleria dei quadri storici del Partito. Capace di straordinaria dedizione e confidenza con il singolo militante eppure riservatissimo, cordiale ma sempre un po’ distante, orgoglioso della propria indipendenza intellettuale e insieme legato a una tradizione che partiva per lui direttamente da Lenin e di cui si faceva a volte polemicamente il difensore. Piero Gobetti, parlando nel 1922 dei giovani dell’ Ordine nuovo» diede un ritratto psicologico di Terracini che ancora oggi pare vivido, fedele. “Il temperamento di Terracini è più di politico che di teorico…E’ antidemagogico per sistema, aristocratico, contrario alle violenze oratorie, ragionatore dialettico, sottile, implacabile, fatto per la polemica e per l’azione”.

Il suo stile oratorio, di grande avvocato, non prendeva mai in prestito una espressione dal consueto nostro gergo politico, si dipanava, proprio implacabilmente, lungo un sottile e tenace filo logico. Ma il suo intervento polemico – chi non lo ricorda dalla tribuna del XX Congresso, per citare la sua ultima memorabile sortita? – aveva anche la durezza  la unilateralità che egli ricavava dalle più infuocate battaglie dei primi eroici tempi del movimento. Persino Lenin, al III Congresso dell’Internazionale, nel 1921, aveva dovuto aveva dovuto esclamare “Plus de souplesse, più duttilità, compagno Terracini!”.

In verità, incontriamo Terracini protagonista di tante vicende storiche con connotati personali che lo fanno anche di volta in volta antagonista, oppure brillante comprimario, vuoi di Bordiga, vuoi di Gramsci, vuoi di Togliatti, di cui sapeva esprimere e portare a una ribalta più vasta linee, posizioni, esperienze, dal 1919 al 1928, dal 1946 al 1964 come negli ultimi venti anni, Sempre alla sua inconfondibile maniera.

Un dirigente, un combattente comunista come Umberto Terracini non l’abbiamo trovato e ritrovato soltanto nelle grandi pagine della storia, negli episodi cruciali che portano inciso il suo nome. L’impronta che egli lascia si ricava anche dal quotidiano duro lavoro, politico, legislativo, giudiziario a cui egli non si sottrasse mai. Quanti comizi ha fatto Terracini? A quante riunioni di partito ha partecipato? a quante sedute del parlamento? Quante arringhe defensionali ha tenuto in quei Tribunali della Repubblica la cui Costituzione porta la sua firma? Ci siamo sorpresii più di una volta a pensare negli ultimi tempi, leggendo che continuava ad andare a parlare a Matera o a Trento, a Palermo o a Pontedera: ma quanti anni ha adesso Umberto? Ottanta, ottantacinque? Era nato nel 1895, dal 1911 data la sua adesione al movimento operaio organizzato, dal 1916-’17, essendo soldato i primi guai per la sua opposizione socialista alla guerra che pure si fece al fronte, nel settore di Montebelluna.

Terracini rappresentò il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino nella direzione del PSI nel 1920. Parlò a Livorno al congresso della scissione sfidando bravamente anche una cane aurlante per avere osato dire cose sensate sulla funzione dei cattolici, sul partito Popolare (lui che altrettanto fieramente, cinquant’anni dopo avrebbe osteggiato la proposta del “compromesso storico”…).

Gli toccò, dopo la prima “battuta anticomunista” del governo Mussolini, dopo l’arresto di Bordiga e di grieco, di dirigere nel 1923 la Segreteria del partito, di reggere poi anche L’Unità e gli toccò di essere arrestato un anno prima di Gramsci, nel 1925, e di battere ogni primato come detenuto politico: dal 1925 al 1943, prima nelle carceri, poi nelle isole di deportazione fasciste.

C’è un episodio che basterebbe da sé a consegnare Terracini alla storia del partito. Fu lui, nel “processone” del 1928, a ergersi da imputato ad accusatore, dinanzi al Tribunale Speciale, ad usare tutto il sarcasmo rivoluzionario di cui era capace contro un regime tirannico trionfante che pure mostrava di avere paura di quella piccola “falange d’acciaio” di comunisti fuorilegge e perseguitati. Anche per questo Umberto Terracini ebbe la condanna più dura, a ventidue anni, due più di Gramsci, di Scoccimarro e di Roveda. Del periodo carcerario, dell’isolamento profondo in cui venne a trovarsi, messo a un certo punto – come egli stesso scrisse – al bando dal partito, tra il 1939 e il 1944, abbiamo fornito, con il suo aiuto, con quello di Alfonso Leonetti e di Camilla Ravera, tutta la documentazione precisa nel nostro lavoro sulla storia del PCI. Rammentiamo ancora l’emozione con cui guardavamo quelle lastre fotografiche tratte dai suoi appunti carcerari, gelosamente conservati, che sembravano incunaboli, scritti su cartine da sigaretta, con una calligrafia alta, diritta, regolare. E quando rinvenimmo tra le carte di polizia la sua risposta a una famosa lettera di grieco, nel 1928, ci colpì la sua serenità. Scriveva all’amico, Terracini: “sono restato fino a due settimane fa, e cioè per quindici mesi, in segregazione continua: energico collaudo della mia capacità di resistenza, della quale sono sortito senza eccessivo sbilancio. Sarei un fanfarone se ti dicessi che non sono mai stato così bene e che questo è il migliore tra i regimi desiderabili, ma resto nel vero affermando che sono contento di potere senza danni superare i molti anni che mi attendono”. Quella lettera era scritta poco prima della sentenza che egli sapeva dunque che sarebbe stata molto dura.

In sostanza, nella opposizione di Terracibi alla svolta settaria del 1929-’30, nel suo richiamarsi agli insegnamenti di gramsci, nel favore entusiastico con cui accolse i risultati del VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, nella fermezza con cui egli al confino, nel 1939-’42 contro il aprere del collettivo comunista di Ventotene – che giunse persino a espellerlo dal partito – difese la fondamentale distinzione tra il nazifascismo quale nemico principale e le democrazie borghesi, c’è una grande lezione politica e morale. Egli definiva settaria la svolta in base a due considerazioni essenziali (quelle che ribadì in una vivacissima polemica con Longo di qualche anno fa): che era stata errata la previsione di un’imminente fase rivoluzionaria e che non si poteva paragonare la socialdemocrazia al fascismo, oppure ritenere che la successione al fascismo non passasse attraverso la fase democratica. E se carcere e confino furono per lui più duri ancor ache per altri compagni, quando si vanno a rivedere le ragioni di fondo di quella sofferenza si avverte che essa si esprimeva con un rovello complesso: d’un canto, c’era la sua convinzione che anche Gramsci la pensasse come lui, dall’altro, non voleva staccarsi dal partito, ne accettava la disciplina per potere battersi meglio da posizioni che sentiva giuste, a cui non voleva rinunciare. Era lo stesso dramma di camilla ravera, sua amica carissima, che ne condivise anche la sorte.

Non si capirebbe nulla del Terracini presidente dell’Assemblea Costituente, del Terracini che si pose accanto a Togliatti come fautore della politica di unità nazionale seguita alla famosa svolta di Salerno, se non si vedesse come egli aveva maturato la sua convinzione sulla decisiva funzione dei partiti del movimento operaio italiano nella creazione di un regime di democrazia politica, in quei lunghi, dolorosi anni di solitudine, nel drammatico isolamento fattosi ancor più grave durante la guerra di liberazione. Uscito da Ventotene, Umberto Terracini prima in Svizzera, poi nella repubblica partigiana dell’Ossola, volle nonostante tutto fare la sua parte di combattente della Resistenza accanto al partito che egli aveva fondato e che pur lo teneva ancora fuori della porta, ai margini, finché Togliatti nel 1944 non sanò quell’ingiusta lacerazione.

Non si capirebbe neppure la coerenza dell’atteggiamento critico di Terracini nei confronti dello stalinismo, degli arbitrii e dei crimini del potere personale, delle contraddizioni profonde del sistema burocratico sovietico, lungo tutti questi decenni del post-liberazione, se non si cogliesse come tale critica alle degenerazioni staliniane fosse maturata in lui sino dagli anni del carcere. Allora egli misurava la rottura che si era provocata tra l’epoca leniniana e quella successiva e non lesinava la sua avversione per quello che riteneva un processo involutivo, pur non volendo distaccarsi dalla formazione storica in cui militava e che sapeva vitale per una prospettiva socialista.

Terracini fu l’unico dirigente comunista italiano che nel 1947 osò gettare l’allarme sui pericoli a cui si andava incontro con una contrapposizione frontale, nel clima della guerra fredda, dicendo che tale clima poteva essere alimentato da entrambe le parti. Umberto Terracini nel 1951 votò, ancora una volta solo nella direzione del partito, contro la richiesta di Stalin di poter avere con sé Togliatti a Mosca. E le sue battaglie in difesa dei diritti civili – che essi fossero colpiti in URSS oppure in Italia e altrove – le sue denunce contro le persecuzioni al dissenso intellettuale, contro le discriminazioni a danno degli ebrei come di altre minoranze nazionali ed etniche, portano lo stesso segno, anche la stessa misura.

La presenza nel dibattito politico di Terracini, i suoi interventi nella direzione del Partito, dalla tribuna del Comitato Centrale, sono troppo noti perché ci si debba soffermare a rievocarli. Capitava di condividere oppure di contrastare questa o quella posizione da lui assunta, di trovarla di volta in volta giusta, acuta, oppure troppo sommaria e schematica. Anche qui Terracini sfuggiva ad una catalogazione, di destra o di sinistra. Lasciava emergere ora un richiamo, per così dire antico, a certi netti discrimini di classe nella lotta politica (la DC, ad esempio, venne sempre da lui concepita come il partito della grande borghesia). Ora risaltava piuttosto nelle sue parole e nei suoi scritti la grande ispirazione democratica che aveva guidato molte delle battaglie intraprese dal movimento operaio nel secondo dopoguerra. Terracini era tenacemente attaccato alle regole, alle garanzie della democrazia politica, sia nell’ordinamento dello Stato italiano, sia nella condotta dei partiti della sinistra verso questo Stato, costruito anche da loro. Non per nulla negli ultimi tempi ricordò che bisognava far rivivere non solo la lezione di Gramsci bensì quella di turati, nel nesso tra democrazia e socialismo.

Il compagno che oggi se ne va, lascia un patrimonio di opere e di esperienza politica al suo partito, ci consegna un testamento di dignità, di dirittura morale, di costume rivoluzionario. Una volta, Vittorio Gorresio scrisse un articolo non di maniera su Terracini definendolo “il solitario del PCI”. Ma noi vogliamo ricordarlo in uno dei rari momenti di confidente abbandono che gli abbiamo conosciuto. Si era al Festival nazionale dell’Unità di Modena, per presentare con lui il suo volume sul carteggio di carcere e confino intitolato proprio “AL bando dal partito”. Terracini aveva ricevuto una accoglienza molto affettuosa dagli ascoltatori. Per nulla stanco, alla fine, sedutosi al tavolo di un ristorante del festival, aveva fatto grande onore alle tagliatelle e al lambrusco. Ogni tanto qualcuno veniva a farsi firmare la tessera del partito da lui, a stringergli la mano. Quando tornammo insieme all’albergo, gli dicemmo: “Hai visto, Terracini, come ti vogliono bene i compagni!”. Lui si fermò un istante e disse molto semplicemente: “Ma sia è proprio per questo che vado avanti!”.

Scompaiono con lui la presenza e l’opera instancabili di un combattente indomabile per la causa dell’emancipazione dei lavoratori e per la liberta, di una personalità politica quanto altre mai prestigiosa, di un intelletto di eccezionale acume, di uno spirito arguto, di un maestro del diritto, di un animo forte che ha impavidamente resistito alla lunga detenzione e segregazione nel carcere e nel confino fascisti. Ma non scompariranno l’esempio, la memoria, il patrimonio di sapienza, di moralità, di coraggio che egli lascia la partito e al paese.

da L’Unità, 7 dicembre 1983

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Umberto Terracini co-fondatore Ordine NuovoCosa dobbiamo a Terracini

di Giancarlo Pajetta

Terracini ha raccontato come ha visto sfilare in Domodossola liberata i partigiani di Moscatelli con il loro comandante in testa e con me allineato nella fila successiva. Moscatelli che pur lo sapeva allora ‘espulso’ dal partito per decisione dell’organizzazione di Ventotene, lasciò la testa della formazione, gli corse incontro, e si scambiarono un abbraccio. Io continuai a marciare, ci fu da parte mia e da parte di Terracini un cenno di saluto e non di più. A me la cosa va ancora bene così. Moscatelli era il comandante. fece bene e poteva anche permetterselo. Terracini ne fu certo contento e ancora adesso il ricordo mi rallegra e in qualche modo mi consola. Terracini ed io non eravamo uomini da rompere i ranghi per abbracciarci, a ognuno pareva impossibile rompere una non scritta disciplina che era regola di vita. Terracini non seppe mai che prima che la sfilata avesse luogo i dirigenti garibaldini erano stati in riunione e all’ordine del giorno era stato posto proprio il suo caso. Terracini era nel CLN della Valle, quello che poi si trasformò in governo della repubblica dell’Ossola, ma a che titolo a potesse stare era difficile da definire poiché nessun partito poteva considerarlo suo rappresentante. Tanto meno quei comunisti dei quali, a ragione, egli era convinto di far parte ancora. Io venivo da Milano,  rappresentavo il Centro del partito e i compagni chiesero il mio consiglio. Dissi loro più o meno quello che si aspettavano e si decise unanimi senza discussioni: non eravamo noi a dover complicare le cose del CLN e del comando con una questione interna di partito, non eravamo noi che potevamo autorizzare o vietare a Umberto Terracini di essere in prima fila come era stato sempre a combattere contro i fascisti. Se lo avevano nominato segretario del governo dell’Ossola lo rimanesse pure e cercassimo noi da parte nostra di fare in modo che ci sentisse dalla sua parte e che il suo lavoro fosse utile. Qualche mese dopo vennero a Roma gli antifascisti che avevano trovato rifugio in Svizzera e. tra questi, Terracini. A Roma mi accadde di parlarne con Togliatti al quale potei dire che delle vicende del confino non sapevo né ne avevo chiesto, stufo com’ero di storie carcerane, potevo soltanto dirgli del Terracini segretario del governo dell’Ossola che i garibaldini avevano riconosciuto come compagno, contenti di averlo fatto. La direzione del partito aveva allora la sua sede a Roma in via Nazionale e Terracini ci venne a lavorare subito. “Le carte, disse Togliatti. avremo tempo di vederle poi”. Al V Congresso fu eletto nella direzione del partito, sono sicuro che andò anche a leggersi le carte, non pretese che nessuno gliele spiegasse, forse pensò che ci sarebbe stato tempo, intanto ci fu la consulta, ci furono le elezioni e la Costituente e il presidente della Assemblea che appose la sua firma sotto la Costituzione repubblicana fu Umberto Terracini. Ci aiutò a capire, nella misura in cui ci riuscimmo, che essere se stessi e rimanere disciplinati é possibile per un  militante rigoroso e necessario per il partito della rivoluzione. Oggi dovremmo riflettere meglio e capire più di quanto non abbiamo fatto fin qui che il partito nuovo, la vita pulsante, la democrazia e la disciplina che ci fanno diversi da altri partiti nel mondo debbono molto a un uomo come lui. Non si lasciò ‘tollerare*. seppe essere maestro. Ricordandolo vorremmo ringraziare per le cose che abbiamo imparato da lui.

L’Unità 7 dicembre 1983

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Le ragioni di Terracini

di Aldo Tortorella

terracini 2Del compagno Umberto Terracini dell’uomo che egli era, la memoria per me più netta è quella del tratto ironico e cortese, espressione di una gentilezza interiore assai rara. Non lo ricordo perché viviamo in tempi in cui sembra che la rozzezza dilaghi e venga quasi assunta a valore. Ma perché mi parve sempre, da  quando lo conobbi, il segno forse più vero della sua personalità e della sua storia di rivoluzionario.

Certo, Terracini – come sanno tutti coloro che hanno avuto il piacere di ascoltarlo – aveva una straordinaria capacità di argomentazione, una visione netta e tagliente delle cose, una fermissima volontà.

Ma non era tutto questo che lo distingueva come uomo, per me, dagli altri compagni della generazione dei fondatori del Partito comunista. Quando, nel nostro sesto congresso, ebbi modo di assistere ad uno degli episodi delle sue molte battaglie politiche, Terracini era già un mito agli occhi di quei giovani che, come me erano entrati nel Partito durante la guerra di liberazione. L’appartenenza (e con quale rilievo) al gruppo di Gramsci, il processo, la carcerazione lunghissima sarebbero bastati da soli a farne una figura da rispettare e da ammirare. Ma, intorno al suo nome, vi era in più l’aura – che appariva allora quasi scandalosa – del dissenso e della eterodossia.

Terracini era l’uomo che aveva discusso con Lenin e da Lenin era stato criticato; era il dirigente che, per quel poco che se ne sapeva dai vecchi compagni, era stato isolato e allontanato dal Partito per l’opposizione alla linea sovietica al tempi del patto tra Unione Sovietica e Germania. Il fatto stesso che fosse passato attraverso quelle bufere, e che ora – nuovamente – fosse tra i massimi dirigenti del Partito, ne faceva una figura a parte. Anche se, ben si intende, la voce che correva era quella piuttosto del “torti” che dei meriti di Terracini.

Alla vigilia di quel lontano congresso (eravamo all’inizio del 1948, l’anno che sarà segnato dalla durissima sconfitta del Fronte popolare e, poi, dall’attentato a Togliatti) Terracini aveva rilasciato una considerazione critica su un qualche gesto dell’Unione Sovietica.

Non rammento, ora, il merito: ma rammento che il fatto appariva in sé stesso, allora, del tutto inaudito. Quando si parla dell’atteggiamento internazionale del nostro Partito di quel periodo non si deve mai dimenticare in che tempo fossimo- enorme era il prestigio dell’Unione Sovietica per il decisivo contributo dato alla sconfitta dei nazisti e dei fascisti, gli Stati Uniti avevano il monopolio della bomba atomica, la preoccupazione sovietica di una nuova guerra veniva apertamente dichiarata. In più, l’alleanza antifascista, rotta al livello internazionale, era stata spezzata anche in Italia. Comunisti e socialisti erano stati esclusi dal governo: si andava alle elezioni in un clima di scontro acuto.

Risuonò perciò nella commissione politica del congresso più di un attacco verso il fatto che Terracini avesse in qualche modo fatto sentire una sua critica all’Urss: e fu Togliatti (a proposito di tante grossolanità che contro di lui si dicono) che troncò quegli attacchi e prese le difese di Terracini, cosi com’era stato Togliatti a promuovere il ruolo nuovo di Terracini nel Partito e alla Costituente. Ma al giovane militante che assisteva a quel dibattito – e alla memoria di oggi – interessava particolarmente l’atteggiamento sereno, la pacatezza, l’assenza di ogni pur legittima asprezza del compagno che veniva criticato. E fu allora che iniziai a conoscere Terracini come poi sempre lo vidi.

La fermezza dei suoi convincimenti non assumeva l’aspetto della separazione dagli altri e meno che mai quello di una qualche rissosa contesa. Eppure, anche nel dopoguerra, le sue posizioni non solo non coincidevano ma talora si distinguevano nettamente da quelle della maggioranza: non unicamente per ciò che riguardava il giudizio sull’Unione Sovietica, che fu in lui sempre critico, ma, spesso, per la valutazione sul corso politico in Italia. Non fu un mistero la sua contrarietà, simile a quella di Longo, rispetto alla linea del «compromesso storico» o, almeno, rispetto alla concreta applicazione ch’egli potette conoscerne. Ma né allora, né prima di allora, venne meno la sua solidarietà politica e, prima ancora, la sua partecipazione attiva alla fatica dei compagni. Non vi era, in questo, un qualche mitico attaccamento al Partito. Anche se aveva contribuito a fondarlo e a dirigerlo sin dalle prime mosse, ben lo conosceva come costruzione umanamente concreta, e dunque aperta all’errore (e alla correzione dell’errore).

Vi era, nella sua lealtà e fedeltà di militante e di dirigente, un altro convincimento; o – meglio – un’altra dote dell’animo. Egli era convinto che le idee ch’egli considerava giuste avrebbero finito con l’affermarsi, così come, in realtà, più volle era avvenuto nel corso della sua esistenza.

Non si trattava, cioè, come pure può talvolta accadere, di quella fermezza che scade nell’ostinazione e che genera cosi lo scontro e la rissa. Era piuttosto il pacato convincimento sulla forza delle verità semplici, fondate sull’eloquenza delle cose.

Sì diceva di Terracini ch’egli aveva la sottigliezza del giurista: con la allusione, implicita, in questo riconoscimento, ad una sottigliezza un po’ causidica. In verità a me parve sempre – piuttosto – che prevalesse in lui l’amore per le idee chiare e distinte. Il che comporta di sfuggire alle illuminazioni ma anche ai possibili contorcimenti della dialettica e contribuisce a determinare una disposizione interiore verso una fermezza delle opinioni che sa evitare il limite della incomunicabilità e della incomprensione reciproca.

Per questo ho detto di quel che ha significato, per me, quell’assenza, in lui, di ogni superbia intellettuale, nonostante che tante volte le sue posizioni avessero dimostrato di anticipare ciò che altri non aveva ancora visto o riteneva fosse meglio non vedere. Non so se a determinare la complessa natura di una formazione umana – com’è anche un partito – valga di più il grido profetico o la pazienza di una convinzione profonda.

Certo è che a Terracini va dato il posto che gli spetta. Che non è solo quello di un fondatore, ma di una delle intelligenze determinanti per la storia del suo partito e del suo paese.

L’Unità, 6 dicembre 1988

Biografia Umberto Terracini sul sito dell’A.N.P.I.

Umberto Terracini sul portale storico della Camera dei Deputati e sul sito del Senato

Bibliografia:

Aldo Agosti (a cura di), La coerenza della ragione. Per una biografia politica di Umberto Terracini, Carocci 1998

Lorenzo Gianotti, Umberto Terracini. La passione civile di un padre della Repubblica, Roma, Editori Riuniti, 2005

Leonardo Pompeo D’Alessandro, Umberto Terracini nel “partito nuovo” di Togliatti, Roma, Aracne, 2012


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