Il comunismo di Pietro Ingrao

Il comunismo di Pietro Ingrao

Maria R. Calderoni -

E’ morto “giovane”. Nel “gorgo”, come diceva lui, fino all’ultimo. Pietro che aveva «l’alta febbre del fare».  Sempre presente, scrutatore, affilato. Corrono le regionali, ed eccolo, esattamente il 28 marzo 2010, dare giudizi taglienti e precisi in una intervista all’Unità. «La prova delle regionali è importantissima. E il Lazio e la Capitale sono decisivi per portare a Berlusconi un colpo di portata nazionale. Berlusconi, «questo reazionario», al quale, purtroppo, «non si oppone un soggetto collettivo antagonista».

Ha 95 anni quando dà questa intervista, e il suo sguardo è come sempre, lucido, sicuro e dovutamente pessimista. «Non vedo l’avversario in grado di contrastarlo», Berlusconi, perché ha contro «un avversario troppo debole, malgrado le tante forze generose in camp»; e perché la sinistra di oggi – lo vede benissimo lui, che ha 95 anni – è immersa «nella divisione politica e nell’insufficiente radicamento nei luoghi strategici, cioè nei luoghi di lavoro». Non senza esortare: «Muoviamoci per allestire uno schieramento unitario. E in fretta!» (era il 2010, ma potrebbe essere oggi…).

Una settimana dopo, il 2 aprile, eccolo al telefono con gli operai della Tetris in lotta sull’ “isola dei cassintegrati”, all’Asinara. «Chiamatemi compagno Pietro, datemi del tu. Se posso fare qualcosa per voi, chiamatemi. Io ho sempre un cuore operaio».

Pietro Ingrao. Mai lontano. Mai indietro di un millimetro, mai fuori. Basta scorrere il percorso che passa attraverso i lunghi, intensi, speciali anni della sua vita di uomo e di politico, così intrecciati insieme, praticamente inestricabili. Così ci pare giusto cominciare da lì: Pietro Ingrao come un pezzo di storia comunista. Un “bel” pezzo.

Attivo nei gruppi studenteschi dell’Università di Roma allo scoppio della guerra in Spagna, nel 1940 è nell’organizzazione comunista clandestina; ricercato dalla polizia e denunciato al Tribunale speciale, deve riparare in Calabria; poi il partito lo manda a Milano, all’Unità clandestina; nel luglio ’43, alla caduta di Mussolini, è lui che insieme a Vittorini tiene in piazza Oberdan il primo comizio antifascista. Da subito nella Resistenza dopo l’armistizio, nel ’44, tornato nella Capitale, è nel Comitato clandestino della Federazione comunista romana; dopo la Liberazione è direttore dell’Unità dal 1947 al 1956; membro del Comitato centrale del Pci dal VI congresso (1948); membro della Direzione dalla IV Conferenza nazionale (1955); ed è deputato ininterrottamente dal 1948 al 1992, «quando chiesi di non essere ricandidato». Aveva 77 anni, preferiva <tornare a studiare>, lì al Crs, il Centro per la riforma dello Stato, di cui era presidente.

Per dieci anni (1956-1966) nella segreteria del Pci; presidente del gruppo parlamentare comunista a Montecitorio (1968); e, succedendo a Pertini, presidente della Camera per tre anni, dal 1976 al 1979, quando chiede, ancora una volta, di non essere confermato.

Dieci anni dopo, nell’ “incredibile 89″, Pietro Ingrao è combattivamente in campo tra chi si oppone alla svolta di Occhetto; e tuttavia, nel suo sempiterno odio per le scissioni, nel ’91 si iscrive al Pds, partito che decide di lasciare definitivamente due anni dopo, nel 1993. Già, commenterà la sua amatissima moglie Laura (Laura Lombardo Radice, comunista come lui, ex partigiana come lui, dalla quale avrà cinque figli), «dovevamo diventare vecchi per essere dei senza-partito>. Poi, nel 2004, dopo le elezioni europee, Ingrao aderisce a Rifondazione comunista.

Politico a tempo pieno (anche lui, come Giorgio Amendola, chiama “una scelta di vita” la sua dedizione al Pci) e intellettuale a tempo pieno, studioso, ricercatore, scrittore, giornalista. E poeta. Sempre “nel gorgo”, tutto intero dentro la sua agitata vita di “rivoluzionario di professione” (ebbene sì, si diceva così), dentro il Palazzo e dentro Botteghe Oscure, e anche su e giù per l’Italia, dal Nord al Sud; ma anche scrittore e saggista, con all’attivo numerosi libri (da “Masse e potere”,1977, a “Appuntamenti di fine secolo”, 1995, a “Volevo la luna”, 2006, all’ultimo “Indignarsi non basta”, 201. E tre raccolte di poesie, “Il dubbio dei vincitori” (1986), “L’alta febbre del fare”,1994, “Variazioni seriali”, 2000.

In una memorabile celebrazione dei suoi 90 anni nella sede del Crs, in data 31 marzo 2005, è Mario Tronti a sottolineare la “peculiarità” di Ingrao: proprio questo, <che in lui la vocazione intellettuale precede quella politica. Da qui la sua attenzione agli “strumenti del linguaggio”; da qui l’Ingrao poeta, che <non é un particolare della sua persona, un accessorio da aggiungere al resto>.

Ingrao politico e poeta, mai guru, mai “patriarca”. E nemmeno mai eretico, bensì eterodosso, anima critica dentro «la pur pesante ortodossia marxista>; per cui <sono due le parole che definiscono la persona Ingrao: il dubbio e l’organizzazione. Il dubbio come atteggiamento critico nei confronti della realtà e di se stessi. E organizzazione come politica collettiva strutturata, preparata e guidata>. Vale a dire, «politica come fare insieme. Non come la propria faccia su un manifesto. Come bisogno umano di partito».

Partito, questa parola che fu tanto cara, quasi sacra, all’Ingrao politico-intellettuale-poeta-comunista>, sottolinea sempre Tronti. Il partito da lui inteso < come comunità, non di destino, ma di volontà e decisioni collettive>. Come costruzione di quella “giraffa” togliattiana, quell’ animale strano che era il partito nuovo, non più di quadri ma di massa, popolare alla base e centrale al vertice>.

Quel partito che ha molto amato e che anche lo ha fatto soffrire, lui, Pietro Ingrao, il capofila dell’ “ingraismo”, quel revisionismo di sinistra uscito sconfitto nel congresso anno 1969 (si sa – ha ammesso – <io come capo corrente valgo un fico secco>).

Elogio di Pietro Ingrao politico-intellettuale-poeta-comunista: uno <di quegli uomini di parte con il senso dello Stato, una combinazione difficile, una sorta di stato d’eccezione permanente, che ti obbliga a coltivare un quotidiano equilibrio>. Per reggerla, questa difficile combinazione, < ci voleva Beruf>, secondo Weber, vale a dire <politica come professione e come vocazione>; con l’aggiunta, secondo Gramsci, di <buona cultura, molta buona cultura>.

Pietro Ingrao lo ebbe, Beruf. È sempre Mario Tronti a ricordarlo, non senza un piccolo atto d’orgoglio: <Montanelli ha detto una volta che, nella deprecata Prima Repubblica, non c’era stato un ceto politico migliore di quello comunista. Ingrao è prima di tutto esponente di questo ceto>.

Qualcuno ha visto nelle sue poesie – <la luna è uno spento cratere di sale, la luna é il crollo, l’erranza…> – l’opposto dell’apologetica sovietica e anche di quella togliattiana; e certo anche questo é Ingrao. Ma “l’Ingrao per sempre”, resta quello di “appuntamento di fine secolo”. Il libro in cui “riconosce” il Novecento, il suo secolo grande e drammatico, quello <indelebilmente segnato dal movimento operaio che diventava soggetto politico portatore di una ipotesi rivoluzionaria di modo di produzione e di società, ispirata al socialismo>; a partire «da quello Stato sovietico che avrebbe cambiato i rapporti sulla scena mondiale>.

Pietro Ingrao, cuore operaio. Era nato a Lenola, provincia di Latina, da una famiglia non operaia, ma di media borghesia, un nonno garibaldino. L’amata Lenola, così vividamente e poeticamente evocata nelle pagine di “Volevo la luna”, il suo libro autobiografico, pubblicato nel 2006, a novantunanni. «Qui comincia la favola». Non nasconderà nulla; racconterà tutto, nitido, appassionato, visionario, critico, severo soprattutto con se stesso. Qualcuno ha addirittura visto questo libro come un rendez vous, un faccia a faccia con quelli che lui stesso chiama <i miei errori>.

Il “bruciante” errore del ’56, quando appoggiò l’invasione ungherese; l’ “assurdo” errore del 1969, quando votò la radiazione degli eretici “figli” suoi, quelli del Manifesto (fu più forte il richiamo della chiesa comunista>).

Il libro è molto altro. La testimonianza dell’amore per Laura («una lunga vita insieme…Provai un dolore assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò»); gli incontri ravvicinati con Togliatti («da gran rompiscatole, non mancava di  farmi avere continuamente i suoi bigliettini, più o meno di questo tenore, “ma che cavolo volevi dire?”); i giorni passati dentro il Bottegone («mi perdevo nel saliscendi dell’immenso palazzo»); i tanti colloqui coi compagni di tutte le federazioni d’Italia.

Una frase chiude le pagine dell’autobiografia: «I prati mi hanno incantato sempre, nel loro assoluto trascorrere silente. Oggi i prati della città in cui vivo sono mischiati al tumulto della corsa e dell’affanno. L’isola non esiste. Ed è giusto. Perché chiedere di salvarsi da soli?».

No, non si può chiederlo. Lo dice ancora lui. Come sa fare lui, al modo di Ingrao: con le parole-messaggio del suo ultimo libro. «Ho imparato in questo secolo l’indicibile dell’umano, di ognuno di noi e della relazione con l’altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo. La mia paura è che mi venga tolto non tanto il pane e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell’umano. Vi prego, non permettete che la domanda dell’essere umano venga cancellata».

Pietro Ingrao.

Anche lui, come Mark Twain, potrebbe dirlo: «La notizia della mia morte è una esagerazione».

 


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