Il cinema per il Pd: mercato, mercato, mercato

Il cinema per il Pd: mercato, mercato, mercato

Stefania Brai, Responsabile nazionale cultura del Prc -

L’8 luglio è stato presentato dalla senatrice Di Giorgi del Partito democratico un progetto di legge di riordino del settore cinematografico. Era tanto che tutto il mondo del cinema chiedeva una nuova legge di sistema e quindi la notizia è stata colta con molta soddisfazione. Anche se non si capisce come mai un governo che espropria sistematicamente il Parlamento delle sue funzioni legislative, che decide con la fiducia la ristrutturazione – non riforma – della scuola e della formazione, per non parlare del lavoro e delle istituzioni democratiche, in un governo così la legge di riforma del settore cinematografico viene invece lasciata all’iter parlamentare. Vengono due sospetti: o non si dà nessun peso al settore, o il governo in realtà ha in testa un’altra legge.

Ma al di là dei sospetti veniamo al merito. Si dice che ci si ispira al modello francese, che finalmente si propone la creazione di un Centro nazionale per il cinema, che si istituisce la tassa di scopo, che si propongono regole antitrust. Che tutto questo è quello che il mondo del cinema ha sempre chiesto e che quindi è una buona legge, anche se ovviamente perfettibile.

Vorrei tra parentesi ricordare – perché penso che la memoria storica sia utile per il presente – che nel programma dell’Unione sulla cultura (2006) tutti questi punti erano presenti e che la rottura con il Governo (da parte non solo delle forze politiche, compresi alcuni esponenti dell’allora Ds, ma anche di diversi settori del mondo del cinema) si ebbe quando la legge proposta dall’allora ministro per la cultura Rutelli in nulla rispecchiava le proposte elaborate da tutte le forze politiche che sedevano al tavolo programmatico sulla cultura. Ma ovviamente tutti possono ravvedersi e se succede è un bene per tutti.

Ma è davvero così? A leggere il testo di legge mi pare proprio di no.

Non mi soffermo sul fatto che per esempio nei “principi generali” della legge si scrive che “il cinema e l’audiovisivo rappresentano un fattore di attrazione di investimenti industriali e favoriscono il connubio tra turismo e cultura” perché in realtà rispecchia la filosofia di tutta la legge. Mi soffermo invece solo su alcuni punti – che però sono centrali – mettendoli a confronto con quello che la parte creativa del cinema e gli autori hanno sempre chiesto, anzi elaborato dettagliatamente in un seminario durato mesi insieme a tutte le categorie del settore e alle forze politiche che allora si resero disponibili. Anche se ovviamente la legge andrebbe analizzata punto per punto e andrebbero capite bene tutte le conseguenze delle norme in essa contenute.

1. Il Centro nazionale per il cinema (Cnc). La richiesta degli autori era che fosse un istituto di diritto pubblico (e questo finalmente è stato recepito), che fosse completamente autonomo dal governo e dalle forze politiche, che fosse gestito da chi del mondo del cinema fa parte (autori, produttori, critici, esercenti distributori, associazionismo, lavoratori, eccetera). Bene, nella proposta di legge Di Giorgi il Cnc è talmente autonomo dal governo che il consiglio di amministrazione è formato esclusivamente dai rappresentanti dei ministeri della cultura e del turismo, dello sviluppo economico, dell’istruzione, dell’università e della ricerca, dell’economia e delle finanze. Ma se non era autonomo chi ci mettevano? Non c’è commissione, organismo, “momento”, nel quale siano presenti – ma neanche “sentite” – le forze creative e produttive del cinema. La massima concessione sono i cosiddetti “esperti”.

2. Norme antitrust. È vero, la legge contiene un articolo intitolato “concentrazione di impresa”, che prevede che “chiunque svolga la propria attività nell’industria del cinema e dell’audiovisivo non può essere, in forma individuale o associata, titolare di aziende che operino in più di due dei seguenti settori: produzione, distribu-zione, esercizio, edizione o distribuzione di servizi televisivi, anche on line o telefonici”. Bene è un passo avanti, rispetto alle precedenti proposte di legge del Pd anche se una reale normativa antitrust “in senso verticale” dovrebbe impedire ad una stessa azienda di operare contemporaneamente nel settore cinematografico e in quello televisivo. Ma la cosa più grave è che manca completamente una norma che agisca sulle concentrazioni di posizioni dominanti in “senso orizzontale”. Vuol dire che non si impedisce la concentrazione in poche mani di tutto l’esercizio cinematografico e della distribuzione. Vuol dire la marginalizzazione delle distribuzioni indipendenti e la “non visibilità” della maggior parte delle opere italiane ed europee.

3. Finanziamento. Questo è forse il punto più grave di tutta la legge e rappresenta uno stravolgimento totale non solo delle leggi in vigore fino ad oggi, ma di tutte le battaglie che gli autori e le forze creative del cinema e dell’audiovisivo hanno sempre fatto. Sono previsti due tipi di contributi: automatici e selettivi.

Quelli automatici sono attributi alle società che abbiamo già operato nei settori della produzione, distribuzione ed esercizio e vengono dati in percentuale rispetto agli incassi in sala per la produzione e la distribuzione, in base al fatturato annuo per l’esercizio. Piccolo dettaglio: “le società hanno la facoltà – non l’obbligo – di investire nella produzione e nella distribuzione di nuove opere cinematografiche di nazionalità italiana le somme maturate purché esse siano utilizzate entro cinque anni dalla loro assegnazione”.

Quelli selettivi sono attribuiti ai soggetti che non beneficiano di quelli automatici (chi sono? quelli che non hanno mai operato nei diversi settori?). La legge però non dice né quali sono i criteri in base ai quali si concedono i contributi selettivi né la proporzione rispetto a quello automatici. Ed è molto grave perché sono regole che devono essere stabilite in modo chiaro, trasparente, definitivo e per legge e non essere lasciati alla discrezionalità di una commissione che oggi può decidere una cosa e domani un’altra.

Tutto questo vuol dire che non si finanziano più le “opere” ma le imprese, che i contributi arrivano quando l’opera è stata già prodotta anzi distribuita e non prima, che l’unico criterio di finanziamento è il mercato: i “film di Natale” che già si ripagano con incassi milionari prenderanno anche moltissimi soldi pubblici, i distributori e le sale che proietteranno ad esempio “Terminator” avranno la maggior parte dei finanziamenti dello Stato.

In tutta la legge non c’è la minima traccia neanche dell’idea di dover incentivare la produzione e la circolazione delle opere italiane ed europee. Quelle che fino ad oggi si definiscono “di interesse culturale nazionale”.

Ma il senso e la stessa ragion d’essere del sostegno pubblico alla produzione culturale non è proprio quello di consentire – anzi di promuovere – la nascita e la circolazione di quelle opere che attraverso i soli meccanismi di mercato non vedrebbero mai la luce? Non è quello di garantire in questo modo il pluralismo culturale e produttivo e l’accesso di tutti a tutte le opere e a tutte le espressioni artistiche? In questo modo invece non solo si esercita – attraverso il cda – un controllo governativo su tutta l’attività del Centro nazionale per il cinema, ma attraverso la censura del mercato si esercita un controllo reale sulla produzione culturale ed artistica.

In questo modo davvero si tenta di chiudere il cerchio. Con la legge del governo sulla televisione in discussione in questi giorni che riporta la Rai sotto il controllo del governo (come era addirittura prima della riforma del 1975); con la fine di qualunque sostegno all’editoria libraria e alla carta stampata; con una controriforma della scuola che lega la formazione alle esigenze delle imprese e al mercato invece che alla crescita individuale e collettiva come sancito dalla Costituzione; con lo smantellamento degli studi di Cinecittà e con una legge cinema che mette la produzione culturale sotto il controllo del governo e ne sancisce la mercificazione, con tutto questo si mette porta pericoloso mante avanti il tentativo di chiudere qualunque spazio alla libertà d’espressione e alla costruzione di una coscienza critica individuale e collettiva. Ora come non mai c’è bisogno che tutte le forze culturali, come ha già fatto e sta facendo il mondo della scuola, riprendano a lottare davvero.

15 luglio 2015


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