Lucio Magri: «il fardello dell’uomo comunista»

Lucio Magri: «il fardello dell’uomo comunista»

I “partiti comunisti erano in grave difficoltà ovunque ma particolarmente in Occidente, indeboliti organizzativamente ed elettoralmente, messi fuori legge, in esilio, in carcere o sterminati. L’Unione Sovietica, malgrado il successo dei primi piani quinquennali, si sentiva esposta a un’aggressione militare che da sola non poteva reggere. Fece dunque, in meno di due anni, una svolta politica e ideologica radicale, ben sintetizzata più tardi dallo slogan: «risollevare dal fango la bandiera delle libertà borghesi». Stalin non solo accettò, ma promosse quella svolta, il VII congresso dell’Internazionale la sancì, Togliatti, Dimitrov, Thorez la tradussero nell’esperienza dei Fronti popolari. Sulle vicende dei governi di Fronte popolare, molto brevi e mal elaborate sul piano strategico, ci sarebbero molte cose da approfondire. Sottolineo solo alcuni punti essenziali.

a)    Nei loro obiettivi immediati (impedire una nuova guerra mondiale, avviare una “politica di riforme) furono sconfitti. Rappresentarono comunque in concreto il primo segnale di una grande mobilitazione democratica di popolo e di intellettuali contro il fascismo e a sostegno di nuove politiche economiche. In connessione, non pienamente consapevole, con il New Deal americano gettarono le prime pietre di un edificio che poi nella guerra fu costruito e portò alla vittoria: qualcosa più di un’alleanza militare.

 b)    Se furono battuti ed entrarono in crisi non lo si può imputare all’estremismo dei partiti comunisti. Malgrado essi mettessero al primo posto la difesa dell’Unione Sovietica, anzi proprio per questo, i comunisti vi parteciparono con piena convinzione (in Spagna con eroismo) ma anche con una prudenza perfino eccessiva. In Francia conquiste sociali importanti, e permanenti, furono il prodotto di un grande movimento rivendicativo dal basso, sul quale il Pcf intervenne «perché non si esagerasse». Il governo Blum, che i comunisti sostenevano dall’esterno ma lealmente, cadde rapidamente per le proprie incertezze in politica economica e finanziaria, la fuga dei capitali, lo sciopero degli investimenti. La vittoria di Franco in Spagna fu favorita dall’intervento esplicito e diretto del fascismo italiano e tedesco, e con la benevola neutralità degli inglesi, che si impose a Blum e fu “poi imitata da Daladier. I comunisti cercarono con durezza di arginare la spinta anarchica alla radicalizzazione, e l’Unione Sovietica fu sola nel portare alla legittima Repubblica un sostegno per quanto poteva. La critica che si può loro applicare sta nel fatto che quella politica restò per loro una scelta legata anzitutto a un’emergenza, non incise profondamente nella strategia di lungo periodo.

 c)    Il partito italiano, pur ridotto dalla repressione, costituì la maggioranza delle brigate internazionali in Spagna (insieme al piccolo Partito d’Azione), fu lì decimato ma formò una nuova leva di quadri che poi fu essenziale alla Resistenza in Italia, e lì cominciò a maturare, soprattutto in Togliatti, un primo abbozzo strategico di quell’idea della «democrazia progressiva», che riallacciava il tenue filo interrotto del congresso di Lione (guidato da Gramsci) ed era coerente con le sue originali Lezioni sul fascismo dei primi anni trenta. Al di là dei Fronti popolari, tanto più dopo la loro sconfitta, il vero elemento dirimente del decennio fu però la questione della guerra: come evitarla, come combatterla. Ed è su questo che oggi si sono riproposte tante reticenze, tante alterazioni dei fatti e del loro concatenamento. La follia aggressiva di Hitler poteva essere fermata in tempo. Un’amplissima documentazione storica testimonia che, malgrado il potere assoluto conquistato, la prospettiva della guerra, a tempi brevi, e apertamente esibita, trovava in Germania resistenze anche in poteri forti che potevano frenarla o rovesciarla. Innanzitutto il vertice delle forze armate, convinto che la guerra, almeno allora, la si perdeva, e lo faceva sapere. Militarizzazione della Renania, annessione dell’Austria, invasione dei Sudeti e occupazione di fatto dell’intera Cecoslovacchia: in ognuna di queste tappe di avvicinamento, una coalizione simile a quella che poi lo batté in guerra, anche solo mostrando determinazione, avrebbe interrotto il sogno hitleriano di dominio mondiale. Una tale coalizione difensiva fu ripetutamente proposta dall’Unione Sovietica e ripetutamente elusa o rifiutata dai governi occidentali. Perfino la Polonia, nuova vittima designata, negò un patto di difesa comune al governo di Mosca. Questi successivi cedimenti alimentarono il progetto nazista, Monaco ne è l’esempio (non a caso Mussolini fu rite“nuto un mediatore credibile, benché non neutrale). L’opinione pubblica tirava il fiato, perché non voleva rischiare una guerra. Ma già dopo poche settimane Hitler cancellò, indenne, il compromesso appena raggiunto. Viltà, incoscienza di chi doveva fermarlo? Non ci credo, e quasi nessuno successivamente ci ha creduto. Il fatto era che Chamberlain, e di rincalzo Daladier (Roosevelt era lontano, perché condizionato dall’opinione pubblica isolazionista, e da Wall Street che sempre più gli si opponeva), avevano un progetto, inconfessabile ma non privo di logica, quello di usare la Germania e indebolirla, deviando verso Est le sue pulsioni imperiali: due piccioni con una fava. A questo punto l’Urss siglò il patto di non aggressione con Ribbentrop, per evitare di diventare la vittima isolata, per guadagnare tempo, rovesciare il gioco. E le cose dimostrarono che aveva ragione; la Russia fu invasa poco dopo, ma come parte di una grande alleanza, militarmente adeguata. L’errore, semmai, fu quello di trascinare per un anno i partiti comunisti nella teorizzazione, ormai assurda, della guerra interimperialista, che oscurò il loro impegno antifascista e compromise in parte la stima conquistata sul campo. Errore a cui, più facilmente, il Pci poté sottrarsi. A confermare questa ricostruzione sta il fatto che anche dopo la dichiarazione di guerra e l’invasione della Polonia, inglesi e francesi non si mossero fino a quando il blitz tedesco attraverso il Belgio sfondò il fronte occidentale, la Francia crollò e il suo Parlamento (compresi ottanta deputati socialisti) concesse la fiducia al governo fantoccio Pétain. Olanda, Danimarca e Norvegia furono invase, la Svezia restò neutrale senza vietarsi neppure proficui commerci, Romania e Ungheria erano già al fianco della Germania, l’Italia, ingenua e furba come sempre, entrò in guerra per parteci“pare alla vittoria. L’Europa era in mano fascista, solo gli inglesi restavano intransigenti combattenti, protetti dal mare e sostenuti dagli aiuti americani, ma con prospettive incerte, e anche per merito di un conservatore intelligente e di carattere, Churchill. Le sorti del conflitto si rovesciarono nel momento in cui Hitler decise di invadere l’Urss. Col senno di poi è facile dire che, fra le tante, fu la maggiore tra le sue follie, ma spesso nella follia c’è una logica. Evidentemente Hitler era convinto che l’Unione Sovietica, al primo urto perdente, in breve crollasse, sul fronte interno più ancora che per debolezza militare, come era crollata la Francia, e come era crollata trent’anni prima la Russia dello Zar. Come poteva resistere una razza inferiore, male armata, dominata da un autocrate asiatico? Il suo crollo avrebbe assicurato alla Germania il controllo di un immenso paese, una riserva inesauribile di forza-lavoro e di materie prime. A quel punto l’Inghilterra non avrebbe potuto resistere, gli Stati Uniti avrebbero avuto nuove ragioni per tenersi alla larga. E infatti molti anche tra i suoi avversari temevano che andasse così come Hitler era sicuro che andasse. Il primo urto vincente ci fu, forse anche perché Stalin non se lo aspettava così presto; i tedeschi arrivarono alla periferia di Mosca e ai confini delle regioni petrolifere. Ma a quel punto, anche per la geniale intuizione della «guerra patriottica», l’Unione Sovietica si mostrò capace di una miracolosa mobilitazione popolare e di una sorprendente capacità industriale, gli alleati ne capirono l’importanza vitale e mandarono armi e risorse, Leningrado tenne duro accerchiata e affamata con mezzo milione di morti, i tedeschi furono fermati sulla strada di Volokolamsk, furono circondati e annientati a Stalingrado: cominciò la lunga marcia verso Berlino. Nel frattempo, Roosevelt incoraggiò e utilizzò l’attacco a Pearl Harbor dei giapponesi per portare finalmente gli Stati Uniti in guerra, una lotta partigiana efficace emerse in Grecia e in Jugoslavia. Dopo Stalingrado per Hitler la guerra era persa. E nella vittoria l’Unione Sovietica aveva avuto un ruolo decisivo, pagando con ventuno milioni di morti. Il comunismo stato un mito? Ammettiamo pure che in parte lo sia stato, ma a quel punto il mito trovava buone ragioni per crescere. Inscrivere la Seconda guerra mondiale come scontro tra i due «totalitarismi» è una pura stupidaggine: il fiume di sangue non l’avevano prodotto i comunisti, l’avevano versato.

d) Ma gli anni trenta, per i comunisti, ebbero anche un’altra faccia, di cui non si può tacere, e che nel lungo periodo si è dimostrata decisiva. Mi riferisco, ovviamente, all’esercizio del terrore interno, alla repressione massiccia e crudele di oppositori potenziali o supposti. Esso non solo rivelò senza veli la pratica autoritaria di un potere senza limiti ormai istituzionalizzato, ma rappresentò anche un vero salto di qualità nel contenuto, oltre che nel metodo, di cui Stalin portava una personale responsabilità, e innescò meccanismi difficilmente reversibili. Il salto di qualità non si misura solo sul numero dei morti e delle deportazioni, sull’arbitrio delegato a esecutori che spesso a loro volta rapidamente ne restavano vittime. Si coglie piuttosto in due nuovi aspetti che stabiliscono una differenza profonda rispetto al leninismo, sia pur estremizzato, e anche rispetto alle lotte brutali contro le opposizioni negli anni venti, perfino rispetto alla liquidazione dei kulaki, forma estrema di una lotta di classe. Primo aspetto: la repressione allora, soprattutto dal ’36 al ’38, si concentrò, oltre che sui resti di un’élite bolscevica ormai priva di influenza sulla società e sugli apparati, e sinceramente disposta alla disciplina, sul partito stesso e, nel suo insieme, su coloro cioè che avevano seguito e applicato le scelte di Stalin e gli restarono fedeli. Dato irrefutabile: dei delegati al XVII congresso del Partito bolscevico, il «congresso dei vincitori» del 1934, dopo pochi anni quattro quinti erano stati uccisi o deportati, come accadde a 120 su 139 tra i membri del nuovo Comitato centrale. Il terrore raggiunse il suo culmine quando ormai le scelte economiche e politiche erano state applicate con successo, il pericolo, seppure incombente, era del tutto esterno. Un terrore quindi privo di base razionale, di giustificazione plausibile, che non rafforzava ma indeboliva il sistema a tutti i livelli (esempio estremo: la liquidazione proprio alla vigilia di una guerra, del gruppo dirigente dell’Armata rossa, fedele e competente, tre generali d’armata su cinque, centotrenta su centosessantotto generali di divisione e così via, a cascata). Lo stesso Stalin era promotore e vittima di quell’insensatezza: nelle memorie della figlia si ricorda che a ogni ondata di epurazioni egli era spinto da un giudizio critico sulla qualità dei quadri e da un sospetto nevrotico sulla loro fedeltà, dal timore della stabilizzazione di una casta burocratica, che si autoproduceva, e di apparati repressivi che via via agivano in proprio, e alla fine constatava che l’epurazione ne aveva promossi di più pericolosi di cui liberarsi in fretta. Secondo aspetto della novità che definiva lo stalinismo in senso proprio, collegato al primo, ma che non basta a spiegarlo: le giustificazioni addotte come prove per i verdetti più crudeli, nei processi più importanti, e le confessioni estorte. Agenti provocatori, complotti terroristi, spie dei fascisti o addirittura dei giapponesi fin dall’origine. Appare assurdo e quasi futile chiedere, come tanto spesso si è fatto e si continua a fare, alle generazioni che seguirono: che cosa sapevate, quanto sapevate di tutto ciò? A ogni livello, infatti, allora e dopo, come poteva qualcuno credere effettivamente che quasi l’intero gruppo di uomini che avevano diretto la Rivoluzione di ottobre già lavorassero per farla fallire, o che la maggioranza dei quadri sui quali Stalin si era affermato e l’avevano seguito si preparassero a tradire? Così si creava una rottura non solo tra fini e mezzi, ma una deformazione culturale profonda e duratura, la riduzione della ragione entro i confini più o meno ristretti imposti da una fede. Il volontarismo e il soggettivismo, nella coscienza non solo dei vertici ma delle masse, gettavano nel lontano futuro i semi che avrebbero prodotto il loro contrario: l’apatia delle masse e il cinismo della burocrazia. E tuttavia la forza di un ideale, i sacrifici compiuti in suo nome, i successi ottenuti per sé e per tutti, e altri che si delineavano, portavano anche i consapevoli non solo a giustificare i mezzi, ma a considerarli transitori. Una catastrofe era stata fermata, uno spazio si apriva per conquiste democratiche e sociali e per la liberazione di nuovi popoli oppressi. Il mondo era effettivamente cambiato e “progredendo, avrebbe sanato quelle contraddizioni. Questa era l’eredità complessiva che il comunismo italiano raccoglieva. Le risorse che la storia gli offriva e insieme i limiti da superare per fondare un partito di massa e cercare di definire una propria strategia: non un modello da riprodurre, ma un retroterra necessario «per andare oltre». Non a caso, per tratteggiare questa eredità ho voluto riformulare l’espressione, volutamente ambigua, che Kipling rese famosa: «il fardello dell’uomo comunista».

da Lucio Magri, “Il Sarto Di Ulm”, Il Saggiatore

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