Lucio Magri: «il fardello dell’uomo comunista»

Lucio Magri: «il fardello dell’uomo comunista»

3. La Rivoluzione russa non ci sarebbe stata, né avrebbe retto, senza Lenin, il Partito bolscevico, il suo insediamento nella pur minoritaria ma concentrata classe operaia, il livello e la saldezza del suo gruppo dirigente, non diviso ma allargato dalla confluenza del gruppo trosckista e dal rientro di tanti esuli già formati in vari angoli dell’Europa. Ma ancor meno ci sarebbe stata senza la guerra mondiale. Furono la disgregazione dello Stato autocratico, la fame nelle città, i milioni di contadini semianalfabeti strappati ai loro villaggi per combattere, la loro insorgenza in un’armata in disfatta e la delegittimazione dei suoi vertici a renderla una scelta possibile. I soviet non furono l’invenzione di un partito, quanto una spinta organizzativa indotta dalla necessità e dalla rabbia, avevano alle spalle il 1905, e in essi si svolse un’effettiva lotta per l’egemonia nella quale si affermò un’autorità riconosciuta e prese forma un programma. Lenin, che pure aveva già elaborato la teoria dello sviluppo ineguale, e dunque della rottura a partire dagli anelli più deboli della catena, aveva resistito a lungo all’idea che essa potesse assumere un carattere socialista, tanto meno consolidarsi, in un paese economicamente e culturalmente arretrato (per questo aveva confutato l’idea trockista della rivoluzione permanente). Ancora all’inizio della guerra, era convinto che la Russia doveva e poteva essere il punto di innesto di una partita il cui esito si sarebbe giocato in Occidente, là dove il socialismo poteva contare su basi «più solide». La scelta di conquistare subito e direttamente il potere statale fu presa da lui, e contro molte esitazioni dei suoi compagni, quando non solo il potere esistente era in una crisi irrecuperabile. La maggioranza del popolo voleva fermamente la Repubblica, la terra, la pace immediata, che i partiti liberaldemocratici non volevano né potevano concedere. Il potere ai soviet e la conquista del Palazzo d’inverno avvennero su quel «programma minimo», cui si aggiungeva la nazionalizzazione delle banche, luogo e strumento del capitale estero. La rivoluzione non aveva alternative, se non la restaurazione del potere autocratico o la precipitazione nell’anarchia e nella dissoluzione dell’unità di uno Stato “multinazionale”. E infatti avvenne in forma relativamente incruenta (i feriti, nella presa del Palazzo furono meno numerosi di quelli che costò la ricostruzione successiva dell’evento per un film). E aveva, nel merito, un consenso nella popolazione larghissimo, per quanto poteva esserlo in un paese immenso, disperso, analfabeta, e mai unificato se non dal mito dello Zar e da una religione superstiziosa. Nulla a che fare con un atto giacobino, da parte di una minoranza che approfittando di un’occasione conquistava il potere. A quel programma ci si attenne, anche contrastando spinte più radicali, come nel caso della pace di Brest-Litovsk.

A dar però poi forma al nuovo potere (deperimento dei soviet, sistema monopartitico, limitazione delle libertà, esecuzione della famiglia imperiale, polizia segreta) fu la vocazione, come oggi si dice, autoritaria del leninismo, o la coerente ed estrema applicazione di alcuni concetti apertamente formulati da Marx («violenza come levatrice della storia», «dittatura del proletariato»)? A me non pare vero, o quanto meno mi pare una parte secondaria del vero. Basta rileggere e comparare due saggi di Lenin scritti a breve distanza tra loro per rendersene conto: Stato e rivoluzione, al cui centro c’è l’idea di una democrazia (che rimane pur sempre una dittatura come lo è ogni Stato) ma assume un carattere più avanzato perché fondato su istituzioni partecipative dirette, rappresenta la maggioranza del popolo e garantisce il contenuto di classe del nuovo Stato; e La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky in cui la dittatura proletaria appare invece «senza limiti» e l’istanza democratica viene assorbita nel partito che la rappresenta e l’organizza.

Il ruolo decisivo lo ebbero invece due fatti enormi. Anzitutto la lunga e tremenda guerra civile con una straordinaria partecipazione di massa che confermò la legittimità della rivoluzione ma devastò il paese in ogni angolo, quanto e ancor più della guerra mondiale. Quella guerra civile non fu provocata né combattuta contro forze liberali o borghesi ma, nel modo più spietato, da armate zariste in nome della restaurazione, prevalentemente con il reclutamento delle popolazioni che avevano sempre gestito le repressioni imperiali, e con il sostegno dei governi inglese e francese. E fu vinta dai bolscevichi al prezzo di una ferrea militarizzazione, e lasciò dietro di sé caos nella produzione in ogni settore, campagne costrette all’autoconsumo, ancor più fame nelle città, proletariato industriale decimato e disperso, emigrazione degli strati tecnicamente qualificati (salvo una parte che dalla rivoluzione era stata conquistata e l’Armata rossa integrò senza remore). Anche una semplice organizzazione della sopravvivenza spingeva ormai verso un esercizio centralizzato e duro del potere.

Seconda novità: l’esaurirsi del sommovimento di massa che in Occidente, soprattutto in Germania, per un breve momento sembrò annunciare una possibile rivoluzione, ma presto si dimostrò minoritario rispetto all’intera società. Non aveva obiettivi chiari, né una guida politica sicura, né quadri, si ripresentò a lungo, ma in rivolte disperse e occasionali, facilmente represse da apparati militari ancora in piedi e da corpi di volontari nazionalisti. Esecuzioni sommarie e assassini selettivi (da Rosa Luxemburg fino a Rathenau) vennero usati non solo per sbarrare la strada a una rivoluzione che non c’era, ma anche alla democratizzazione politica e a limitate riforme sociali. Già in quel momento pesò non poco l’insensata imposizione del trattato di Versailles e l’arroganza dei vincitori nel gestirlo.

Cambiava così tutto il quadro: la Rivoluzione russa, al di là dell’emergenza della ricostruzione, doveva affrontare insieme i problemi dell’accumulazione primitiva, dell’organizzazione di uno Stato quasi mai esistito, e ormai distrutto, della prima alfabetizzazione per un 80% della popolazione, in un totale e minaccioso isolamento. Lenin comprese, almeno in parte, la realtà. Liquidò seccamente entusiasmi e furori del comunismo di guerra, impose la Nep, che ebbe presto successo, avviò una politica estera prudente che poi portò al trattato di Rapallo. Giunse a proporre una collaborazione economica che garantisse a imprese capitalistiche estere la proprietà dei loro investimenti in Russia (subito rifiutata). Infine, quasi dal letto di morte, espresse la propria ostilità alla concentrazione del potere nelle mani di un capo.

Ma la gravità del problema restava in campo, il consolidamento di uno Stato e di una società socialista, con le proprie sole forze, per un periodo probabilmente lungo, in un paese arretrato. Voglio con ciò giustificare ogni aspetto della Rivoluzione russa come obbligata conseguenza di fattori oggettivi e soverchianti; negare analisi e teorie sbagliate, errori politici macroscopici ed evitabili, che la segnarono dall’origine e in modo permanente? Tutto il contrario. Cerco di spiegare, o forse solo di spiegarmi, con i fatti, la dinamica del processo, collocarla in un contesto, e di commisurare alle difficoltà i successi che dall’inizio e a lungo quell’azzardo invece ottenne (così come si è fatto, e anch’io feci, ricostruendo il decollo della modernità borghese, le sue conquiste e i suoi errori). In questo caso: uno sviluppo economico rapido e rimasto ininterrotto per molti decenni (anche nel periodo della grande crisi “mondiale degli anni trenta), un primo acculturamento di masse sterminate, la mobilità che promuoveva dal basso in alto, la redistribuzione del reddito pur nella dura povertà, la garanzia di elementari tutele sociali per tutti, una politica estera generalmente prudente e non aggressiva, tutto ciò insomma su cui in quegli anni non brevi si costruiva un alto grado di consenso e di mobilitazione all’interno, e, malgrado tutto, anche simpatia e prestigio all’esterno. E non voglio tacere alcuni errori fin dall’inizio evitabili che pesarono a lungo, che non furono recuperati anche quando potevano più facilmente esserlo e che oggi è utile, oltre che doveroso, riconoscere. Il primo errore, al quale lo stesso Lenin aprì la strada, fu quello dell’ossessione della «linea giusta», della centralizzazione delle decisioni nel vertice della Terza internazionale, fino al dettaglio della tattica, applicata a situazioni molto diverse. Esso portò dall’inizio l’Internazionale comunista a decisioni oltre che gravemente sbagliate, oscillanti, come per esempio la gestione estremistica della politica in Germania (di cui furono direttamente responsabili Zinov’ev e Radek); o in quella cinese, avviata d’intesa con il Kuomintang, fino al momento in cui passò allo sterminio dei comunisti. Col tempo portò alla consuetudine, accettata dai vari partiti nazionali, di applicare alla lettera, e senza mediazioni, le direttive del partito guida, come avvenne nel caso del patto Molotov-Ribbentrop. Ne risultava compromesso uno dei migliori insegnamenti strategici della Rivoluzione russa, ossia la capacità di analisi determinata di una realtà determinata.

Il secondo errore fondamentale riguarda la scelta, compiuta alla conclusione della Nep e per sostenere una pur necessaria rapida industrializzazione, della collettivizzazione forzata delle campagne. Anziché portare a una crescita produttiva agricola, da cui trarre, con mezzi accettabili e reciprocamente convenienti, risorse per l’industrializzazione, quella scelta, oltre “i tragici costi umani, trasformò per sempre l’agricoltura in una palla al piede dell’economia sovietica. Cosa necessaria potevano essere la pianificazione centralizzata o il contenimento dei kulaki, cosa diversa erano la pianificazione e la collettivizzazione frettolose anche della piccola proprietà o le deportazioni di massa.

Un terzo errore corretto in fatale ritardo, ma al quale lo stesso Lenin aveva aperto un varco, fu quello di additare come nemico principale, all’interno del movimento operaio, il cosiddetto «centrismo» (Kautsky e Bernstein in rotta con la loro destra, il socialismo austriaco, il massimalismo socialista in Italia). La socialdemocrazia aveva sicuramente contribuito a quell’errore: con impegni traditi, concessioni poi rinnegate, con alleanze senza princìpi; ma rifiutare di intervenire sulla vasta area di forze ancora incerte, a volte disponibili come interlocutori, imporre loro rapidamente «o di qua o di là», proporre esclusivamente un fronte unico dal basso che le escludeva, portò a un settarismo, a un’autosufficienza che neppure l’emergere del fascismo permise di superare prima che fosse tardi. Di tutti questi errori, Stalin non fu più responsabile dei suoi oppositori.

Se non si considerano entrambe le facce della Rivoluzione russa, e del primo decennio del suo consolidamento, è impossibile decifrare l’ancor più contraddittoria fase del decennio successivo, il momento della prova più dura, l’impresa più rilevante: la resistenza al fascismo e la Seconda guerra mondiale. La tesi centrale dell’attuale revisionismo storico, che è penetrata nella memoria diffusa e la altera totalmente, è quella che vede nel fascismo la risposta forsennata e delirante all’incombente minaccia del bolscevismo. Una tesi che non ha alcun fondamento. Il fascismo in Italia nacque sul tema della vittoria tradita e iniziò la sua campagna di violenza «contro i rossi» quando l’occupazione delle fabbriche, peraltro niente affatto orientata verso la «rivoluzione», si era già conclusa, rivolte contadine non ce n’erano o erano stati episodi isolati, il Partito socialista era nella confusione e si avviava a ripetute scissioni, il sindacato era guidato dallala più moderata. Trovò poi finanziamenti nel padronato e la complicità delle guardie regie, mentre la Chiesa aveva da poco concluso un patto con i liberali e guardava con diffidenza il nuovo partito di Sturzo. Mussolini si presentava dunque come definitiva garanzia dell’ordine. Arrivò infine al governo, senza alcuna situazione di emergenza, per investitura del re, e con l’appoggio diretto, in Parlamento, delle forze conservatrici tradizionali (in un certo momento perfino i Giolitti e i Croce) che pensavano di usarlo e domarlo semplicemente per restaurare il precedente e oligarchico assetto del potere.

In Germania il nazismo, marginale e sconfitto per tutto il periodo durante il quale le turbolenze della sinistra erano state represse da governi socialdemocratici, da un esercito ricostruito e tornato politicamente attivo e da una maggioranza parlamentare decisamente conservatrice, crebbe all’improvviso sull’onda del rinato nazionalismo e della crisi economica aggravata dalle perduranti riparazioni di guerra. La violenza selettiva delle SA e l’antisemitismo ricevevano espliciti appoggi dall’alto. Raggiunse l’apice dei voti nel 1932, ma era di nuovo in calo quando Hitler fu fatto cancelliere da Hindenburg, con la complicità di von Papen e di Brüning, e con il decisivo sostegno degli stati maggiori prussiani. In Ungheria Horty andò al potere quando già la «Repubblica dei soviet» di Béla Kun era stata repressa. Franco più tardi avviò in Spagna la guerra civile contro un governo democratico moderato, legittimato dal voto, e tra le masse, più dei «bolscevichi», pesavano gli anarchici.

Indubbiamente in tutti questi casi i comunisti avevano una qualche corresponsabilità, per non aver visto la gravità e la natura del pericolo e per non aver costruito, anzi per aver ostacolato, con la teoria del socialfascismo, l’unità delle forze che dovevano e potevano arginarlo. Ma le responsabilità delle classi dirigenti nella nascita del fascismo furono ben maggiori: per aver seminato culture, esacerbato ferite che ne avevano costituito le premesse, per averlo agevolato e legittimato mosse non dall’intento di fronteggiare un’altra e maggiore minaccia, ma da quello di sradicare ogni possibile contestazione futura dell’ordine sociale e imperiale esistente. Comunque sia, a metà degli anni trenta, quando a tutto ciò si aggiunse la grande crisi economica, il fascismo prevaleva in gran parte d’Europa e già manifestava chiaramente non solo la propria essenza autoritaria, ma la propria vocazione aggressiva. Qui si colloca il momento più tragico della storia del Novecento e qui ebbero origine sia la straordinaria e positiva ascesa dell’Unione Sovietica, sia i germi di una sua possibile involuzione.

(continua)

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