Lucio Magri: «il fardello dell’uomo comunista»

Lucio Magri: «il fardello dell’uomo comunista»

2. Nel giro di pochi anni, però, quel movimento che sembrava avviato a essere una «potenza» precipitò in una crisi verticale, si ruppe in molti frammenti. Perché? Perché si scontrò con un evento tanto sconvolgente quanto difficile da leggere e da governare: la Prima guerra mondiale.

Sembra ben strano, se non fosse rivelatore, che, ancor oggi, l’acceso dibattito sul Novecento, e in particolare sui suoi aspetti tragici, abbia trascurato o marginalizzato quel passaggio storico fondamentale e «costituente» per l’intero secolo. A dire il vero, l’incapacità di elaborare una convincente spiegazione di quella guerra, delle sue cause, della sua portata e delle sue conseguenze non è sorprendente in sé. L’intera generazione che la visse e vi partecipò con convinzione, presto ne misurò concretamente la tragedia: milioni e milioni di morti e di invalidi, economie demolite, stati e imperi che si dissolvevano, particolarmente nei paesi perdenti ma ovunque in Europa, colpirono l’intera società, quasi tutti gli strati sociali, certezze e culture che sembravano consolidate. La sorpresa era stata grande per tutti, perché ragioni e responsabilità di un tale disastro sembravano, in quel momento, inspiegabili, non c’era una crisi economica o sociale che spingesse a un conflitto militare di quelle dimensioni e a quei costi, la spartizione coloniale del mondo si era quasi conclusa con mediazioni accettate, la competizione tra le potenze per l’egemonia, pur evidente, si svolgeva sul terreno finanziario e tecnologico. Le stesse classi dominanti, pur da tempo impegnate in un riarmo a scopo dimostrativo, non prevedevano e non auspicavano una guerra mondiale, le alleanze tra loro apparivano casuali e contraddittorie al loro interno, fino all’ultimo riluttavano al passo decisivo. Ma poi, la scintilla di Sarajevo e una concatenazione quasi casuale di provocazioni fatte alla leggera avevano portato al precipitare di una guerra mondiale, alla quale i nuovi armamenti davano il carattere mai conosciuto di «guerra totale». E masse enormi vi parteciparono con la piena convinzione di «difendere la propria patria e la propria civiltà», sopportando il ruolo di «massa da macello». Questa duplice e contraddittoria coscienza («la guerra come incidente» o la «guerra di difesa dall’aggressore») segnò a lungo la memoria collettiva, cui concorse anche la grande intellettualità. Più tardi intervenne, critica ma altrettanto limitativa, la teoria – Croce ne è un esempio – della «parentesi di irrazionalità»; infine, prevalse stabilmente la lettura della Prima guerra mondiale come lotta tra le «democrazie» occidentali (che però erano al momento anche le maggiori potenze coloniali) e gli imperi autocratici (peccato che il Kaiser e lo Zar combattessero in campi diversi e gli americani fossero intervenuti solo all’ultimo momento). È quest’ultima la lettura oggi codificata: la Prima guerra mondiale come anticipazione di uno scontro che poi si ripropose nella Seconda guerra mondiale e nella guerra fredda (non a caso un presidente della Repubblica italiana, brava persona, è di recente arrivato a chiamare «quarta guerra di indipendenza» quel primo conflitto che un papa aveva definito giustamente «inutile strage»). Sarebbe interessante approfondire questo discorso, dedicandolo ai tanti che assolvono il capitalismo e il liberalismo dalla responsabilità della faccia oscura del Novecento, compresi i legami che lo uniscono all’attuale teoria della guerra preventiva. Ma ci porterebbe lontano da ciò che ci interessa: le conseguenze della Prima guerra mondiale sul movimento operaio marxista, sulle sue divisioni e metamorfosi, sulla nascita del comunismo. Onestamente non si può dire che il movimento operaio sia stato sorpreso. Al contrario, già a cavallo tra i due secoli, non solo si sviluppò una discussione in cui il tema della guerra via via acquistava maggior rilievo, ma si andava direttamente al cuore del problema, se ne indagavano le cause, la si collegava a una lettura generale della fase storica, con una serietà di analisi e un impegno teorico di cui rimpiangere il livello.

Chi ritualmente ripete che il marxismo è sempre stato prigioniero di uno schema e per sua natura sempre incapace di cogliere le continue trasformazioni del sistema che avversava, può qui trovare una delle possibili smentite: parlo del grande dibattito sull’imperialismo, nel quale il problema della guerra era parte e conclusione proprio di diverse analisi della grande trasformazione del capitalismo intervenuta negli ultimi decenni. Questa trasformazione già obbligava a rivedere molte delle previsioni contenute nel Manifesto di Marx, e delle strategie a esso legate, investiva e collegava fenomeni diversi e contraddittori. Tanto per citare i più importanti: il salto tecnologico, allora rappresentato dall’introduzione sistematica delle nuove scienze nella produzione (chimica, elettricità, comunicazioni a distanza, meccanizzazione agraria); la nuova composizione sociale, per la concentrazione del lavoro operaio in grandi impianti industriali e le differenziazioni nelle sue capacità professionali, cui si affiancava il declino del ceto artigianale e commerciale, ma anche la crescita di un nuovo e non meno numeroso ceto medio legato a funzioni impiegatizie e ancor più a funzioni pubbliche; lo spazio maggiore per concessioni salariali, in parte offerto dai proventi di uno sfruttamento coloniale meno primitivo; la finanziarizzazione dell’economia con le società azionarie e i grandi trust sostenuti dalle banche. E poi l’istruzione generale, che riduceva l’analfabetismo ancora dominante ma creava barriere di classe non meno rigide; la rapida accelerazione degli scambi commerciali mondiali e l’esportazione “di capitali anche oltre i confini degli imperi, che riapriva una competizione per l’egemonia, spingeva al riarmo e accresceva il peso politico delle caste militari per sostenerla; infine, l’allargamento del suffragio che imponeva e permetteva di cercare, e spesso di ottenere, il consenso con nuovi strumenti ideologici come il nazionalismo e il razzismo.

Molto di tutto ciò fu avvertito dai gruppi dirigenti del movimento operaio con una serietà e un impegno scientifico invidiabili, ma li spingeva a interpretazioni diverse e a conclusioni, all’inizio non cristallizzate ma via via divaricanti (Lenin, Luxemburg, Hilferding, Kautsky, Bernstein e dietro di loro, partecipi, intellettuali e operai, partiti e loro frazioni, sindacati). Da una parte il nuovo capitalismo fu visto come conferma della possibilità di una via graduale, tutto sommato indolore, al socialismo, quasi un esito naturale dello sviluppo, da cui si deduceva la priorità affidata al parlamentarismo e al tradeunionismo: autoritarismo e guerra potevano intervenire nel percorso, ma erano evitabili e non l’avrebbero comunque interrotto. Da un’altra parte l’imperialismo fu visto come fase suprema e putrescente del capitalismo, l’avvio di una degenerazione: concentrazione del potere effettivo dietro la maschera di un parlamentarismo screditato e corrotto, sviluppo sempre più ineguale del mondo, antagonismo tra grandi potenze, proteso a cercare all’esterno risposte alle ricorrenti crisi di sottoconsumo, a raccogliere intorno a sé ceti medi oscillanti con il furore patriottico, e a isolare la classe operaia e i contadini. La guerra in questo caso era nel conto, ne andava denunciato il carattere imperialistico e poteva offrire un’occasione rivoluzionaria o sprofondarsi in una inutile strage. Entrambe le parti “però non ritenevano la guerra imminente e, per ragioni opposte, non pensavano che avrebbe cambiato profondamente il corso delle cose. Perciò fu possibile per tutto il movimento socialista assumere un solenne impegno contro la guerra, ma non sviluppare una campagna di mobilitazione di massa che forse, data l’incertezza dei governi, avrebbe potuto almeno rinviarla o permettere di non esservi coinvolti.

Ma quando la guerra, quel tipo di guerra, scoppiò, travolse il mondo e travolse la Seconda internazionale. La maggioranza dei più importanti partiti che la componevano (con la timida eccezione di quello italiano) tradì l’impegno a opporvisi e a denunciarla. Lenin rimase solo. La parola tradimento non mi piace, e la sua ripetizione ossessiva rappresentò un ostacolo grave, successivamente, a ogni tentativo di dialogo o di convergenza, possibile e necessaria; in quel momento però era fondata. Non mi riferisco solo al voto dei parlamentari socialdemocratici sui crediti di guerra e al sostegno dei governi belligeranti, né solo alla passività e anzi allo stimolo con i quali i gruppi dirigenti contribuirono al furore patriottico dei loro militanti e dei loro elettori, all’equivoco della difesa della patria che ormai diventava volontà di vittoria. Mi riferisco al fatto che anche quando – di fronte ai morti, alla fame, all’uso cinico della «carne da macello» da parte delle caste militari – i popoli, non solo nei paesi perdenti, cominciarono ad aprire gli occhi e si produssero delusione, rabbia, diserzione, scioperi (anzi, anche dopo la conclusione della guerra), quei gruppi dirigenti mantennero ferma un’intesa con gli apparati burocratici e con la casta militare, per garantire la loro continuità e chiamarli a «garantire l’ordine». Rifiutarono sia un’improbabile rivoluzione sia un serio tentativo di democratizzazione politica e di riforme sociali, ruppero cioè con le proprie stesse radici. E ne pagarono il prezzo: come forza politica e come pensiero quella che ancora si chiamava socialdemocrazia rimase per decenni marginale, dispersa, impotente, e ritrovò un ruolo importante solo dopo la Seconda guerra mondiale, modificando in sostanza la propria identità socialista in liberaldemocratica, ala sinistra, nel bene e nel male, nel campo occidentale.

Dall’altro lato chi sulla guerra aveva avuto ragione, e dalle insorgenze popolari sperava di intravedere l’esito di una rivoluzione socialista, dovette constatare la propria minorità, cercare scorciatoie e subire sconfitte e repressioni nell’Occidente europeo, si raggruppò intorno al pensiero leninista (convinto richiamo e insieme revisione profonda del marxismo originario) e intorno alla sola eredità effettiva che la guerra aveva lasciato: la rivoluzione, in un grande paese arretrato e destinato a un lungo isolamento, la Russia. Qui dunque nacquero la forza e il richiamo, e altrettanto le difficoltà e i limiti, di un nuovo soggetto politico che decise di chiamarsi comunista, che ambiva a un ruolo mondiale, ed effettivamente lo esercitò per molti decenni.

Arriviamo così al tema più controverso ma ineludibile di una vera nuova riflessione sulla questione comunista. Quello che segna il limite estremo tra revisione, critica e abiura e, paradossalmente, è rimasto marginale e implicito nel dibattito storico e politico degli ultimi anni: la lettura e il giudizio sulla Rivoluzione bolscevica e il suo consolidamento in un grande Stato e in una organizzazione internazionale.

È stata una scelta sciagurata che portava già dall’origine in sé i cromosomi delle peggiori degenerazioni, e alla fine si è autodissolta dopo aver fatto danni pesanti? Allora non occorre spaccare il capello, ricostruire un processo storico nel suo contesto: basta individuare quei cromosomi, far parlare il fatto della sconfitta finale, lasciarlo al solo lavoro accademico, politicamente archiviarlo. La «spinta propulsiva» dell’Ottobre non si è mai esaurita, semplicemente non c’è mai stata. Oppure la Rivoluzione russa è stata un grande evento propulsivo per la democrazia e l’incivilimento, successivamente tradito dal potere personale e dalla burocratizzazione, senza rapporto con il contesto storico dal quale era “originato e in cui si collocava? Allora basta una robusta denuncia dello stalinismo, una franca critica di chi non lo ha condannato in tempo, la fierezza dell’antifascismo, per sentirsi liberi di cominciare da capo, in «un mondo nuovo».

La mia indagine sul comunismo italiano nella seconda parte del secolo vorrebbe appunto contribuire a una valutazione più seria e circostanziata di quel che la Rivoluzione russa ha avviato. Ma non potrebbe neppure cominciare, e risulterebbe falsata, senza un breve accenno alle vicende di quella fase: gli anni tra le due guerre. Perché proprio su quelli si sono accumulate nella memoria censure ed equivoci di cui occorre sbarazzarsi. E perché in quella vicenda il comunismo italiano ha poi trovato sia le risorse, sia i limiti, per la costruzione di un grande partito di massa e la ricerca di una propria «via al socialismo».

(continua)

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