Romero era un conservatore, ma negli ultimi anni il suo impegno aveva finito per coincidere con quello delle correnti più radicali della Teologia della liberazione. Da tempo aveva aperto le porte della chiesa ai contadini perseguitati dalla repressione che organizzavano la resistenza. Avevascritto una lettera all’allora presidente Usa, Jimmy Carter, per chiedergli di cancellare gli aiuti militari al governo del Salvador. Da allora, verrà ricordato come «la voce dei senza voce», capace di tener testa ai potenti. E, dal 1996, si è aperta a Roma la causa per la sua canonizzazione.
Nato il 15 agosto del 1917 in una famiglia povera, era cresciuto nel Pontificio collegio Pio latinoamericano — che ospita gli studenti del Latinoamerica — fino ai 24 anni, quando venne ordinato sacerdote, il 4 aprile del 1942. Rientrato in Salvador, esercitò come parroco e poi come segretario del vescovo diocesano Miguel Angel Machado. Nel ’68 divenne segretario della Conferenza episcopale di El Salvador. Il 21 aprile del 1970, il papa Paolo VI lo nominò vescovo ausiliario di San Salvador. Della sua nomina, si rallegrarono soprattutto le componenti conservatrici del clero, rassicurate dalle sue dichiarazioni contro «i marxisti» della teologia della liberazione. A febbraio del 1970, disse in un’intervista: «Il governo non deve scambiare il sacerdote che si esprime a favore della giustizia sociale per un politico o un elemento sovversivo, perché sta solo compiendo la sua missione nella politica del bene comune». Proprio il giorno della sua nomina, assiste a un feroce massacro di contadini da parte dell’esercito e alla morte di un centinaio di persone che si erano rifugiate nella chiesa del Rosario. E comincia a «vedere» con altri occhi le sofferenze dei poveri e gli impedimenti al «bene comune».
Quella che lo stesso Romero racconterà poi come la sua «conversione» avviene qualche anno più tardi, quando viene ucciso il gesuita Rutilio Grande, il 12 marzo del 1977. Rutilio è massacrato dagli squadroni della morte agli ordini dell’oligarchia che cercava di contenere col terrore le proteste dei contadini. Da allora, Romero sceglie il proprio campo: quello degli ultimi, e beve il suo calice fino alla fine.
«Sii patriottico, ammazza un prete», gridava allora l’estrema destra salvadoregna. E faceva seguire alle minacce i fatti: 40 saranno i sacerdoti uccisi in quel periodo. Nel 1989, avviene il massacro di Uca: sei gesuiti trucidati insieme alla cuoca e a sua figlia. La voce di Romero ha già il timbro forte e coraggioso della denuncia e risuona nel mondo. Nel 1979 è candidato al Nobel. Ma la chiesa di quegli anni sta scegliendo un altro campo.
A febbraio del 1980, l’arcivescovo Romero compie un viaggio in Europa per ricevere la laurea Honoris Causa dall’università di Lovanio. Ha portato con sé un voluminoso fascicolo in cui ha documentato i crimini degli squadroni della morte e i patimenti inflitti ai contadini salvadoregni. Vuole consegnarlo al nuovo papa Giovanni Paolo II. Dopo una lunga anticamera che preannuncia il clima dell’incontro, Romero è ricevuto da un Wojtyla gelido che gli dà tutt’altro «consiglio»: quello di non occuparsi degli oppressi, ma di tenere piuttosto in conto le buone relazioni con gli oppressori: «Lei, signor arcivescovo, si deve sforzare di avere una migliore relazione con il governo del suo paese», lo ammonisce il papa, pronto alla crociata contro «il comunismo» insieme al presidente Usa Ronald Reagan. Intanto, come risulta dagli archivi Cia, qualcuno sta già ordinando l’omicidio dell’arcivescovo al colonnello Roberto d’Aubuisson.
L’impegno estremo dei sacerdoti
di Geraldina Colotti,
America Latina. Ieri come oggi, una divisione tra la chiesa degli oppressori e quella dei perseguitati
Il volto dell’America latina, oggi, è anche quello dei presidenti che hanno preso le armi contro i dittatori cresciuti a Fort Benning, in Georgia, la “Scuola delle Americhe” dove venivano addestrati a partire dal 1946. E dove ogni anno continuano a manifestare i sopravvissuti alla guerra civile salvadoregna. Oltre a Fidel e Raul Castro, a Cuba, alla guida del Nicaragua c’è il sandinista Daniel Ortega, a quella del Brasile c’è Dilma Rousseff e c’è stato in Uruguay l’ex tupamaro Pepe Mujica. E ora in Salvador — il secondo paese centroamericano che prova ad affrancarsi dalla tutela Usa — c’è Salvador Sanchez Céren, ex dirigente del Fronte Farabundo Marti per la liberazione nazionale (Fmln), eletto il 9 marzo del 2014. Céren ha vinto di misura al secondo turno contro Norman Quijano, candidato del partito Arena: il rappresentante dell’estrema destra, fondata da Roberto d’Aubuisson, lunga mano della Cia e mandante dell’assassinio del vescovo Romero. Il nome di battaglia di Céren era allora Leonel Gonzales e fu uno dei comandanti che firmarono gli accordi di pace, il 16 gennaio del 1992.
Dopo un lungo negoziato sotto l’egida dell’Onu, l’accordo conclude la lunga e sanguinosa guerra civile. La Commissione per la verità documenta che le forze armate, i paramilitari, i corpi di sicurezza e gli squadroni della morte portano la responsabilità delle circa 80.000 vittime e degli 8.000 scomparsi. Fra questi, molti cristiani rivoluzionari, preti e suore “terzomondiste” come il sacerdote Rafael Ernesto Barrera, che decise di imbracciare le armi con il nome di battaglia Neto e che venne ucciso il 26 novembre del 1978. A lui e a tutti quelli che — come Camillo Torres in Colombia — hanno scelto una coerenza estrema in America latina, continuano a rendere omaggio i rivoluzionari del continente. Nei quartieri poveri del Salvador, Romero era celebrato come santo già subito dopo la sua morte. E in Centroamerica si ricorda anche la figura del vescovo Juan Gerardi, ucciso il 26 aprile del 1998.
Durante il periodo di oscurantismo seguito alla caduta dell’Unione sovietica e al dilagare del neoliberismo in America latina, il peso della chiesa di base si è drasticamente ridotto. E i presidenti che sono tornati a governare, come Ortega in Nicaragua, hanno dovuto fare i conti con le posizioni conservatrici dei vescovi, che intervengono pesantemente nelle scelte politiche. Anche fra i capi di stato che governano per il “Socialismo del XXI secolo”, alcuni (come Correa in Ecuador e prima Chavez in Venezuela) si dichiarano cristiani. Ricordare la resistenza di preti e suore che, dall’Argentina al Cile, dal Brasile alla Colombia e al Venezuela si sono schierati a fianco degli oppressi, ieri come oggi, torna ad assume un significato politico. Quando Bergoglio è stato eletto papa, la polemica sul suo ruolo di gesuita troppo silente ai tempi della dittatura ha riproposto la necessità di ricordare una figura di resistenza come quella di Romero. E la battaglia per la verità portata avanti in Guatemala da chi non dimentica il vescovo Gerardi, si unisce a quella di chi non si rassegna a pacificare nei medesimi meccanismi di dominio l’eredità della resistenza alle dittature degli anni ’70 e ’80. I preti di base del Brasile, che contano numerose vittime durante la dittatura, hanno accompagnato l’elezione e la vittoria di Rousseff. E fra i movimenti popolari che hanno risposto all’appello di papa Bergoglio, qualche mese fa a Roma, la gran parte era cristiana e ha perorato la canonizzazione di Romero. Anche il Venezuela di Maduro ha inoltrato a Bergoglio la richiesta di una canonizzazione: quella del medico dei poveri Gregorio Hernandez. Durante la visita in Vaticano, Maduro ha precisato il senso del suo rapporto con la chiesa: «Sarebbe bello — ha detto — che papa Francesco ci aiutasse a organizzare le Misiones in Africa». Le Misiones: non progetti di carità, ma auto-organizzazione politica. Santi «di classe» contro i santini del potere, come quelli inalberati dal sindaco di San Salvador che ha dedicato una via a Roberto d’Aubuisson.
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