Monsignor Romero sarà santo

Monsignor Romero sarà santo

Vaticano. Promulgato il decreto sul martirio del porporato, ucciso in Salvador il 24 marzo 1980

di Luca Kocci

bergoglio-salvador

Papa Francesco con il compagno Presidente del Salvador Sanchez Céreno

Sarà pre­sto pro­cla­mato beato e mar­tire mons. Oscar Romero, l’arcivescovo di San Sal­va­dor ucciso dagli squa­droni della morte della giunta mili­tare che gover­nava il Paese, il 24 marzo 1980. Ieri papa Fran­ce­sco ha auto­riz­zato la Con­gre­ga­zione delle cause dei santi a pro­mul­gare il decreto del mar­ti­rio di Romero, ucciso «in odio alla fede» (e insieme a lui, in una sorta di par con­di­cio degli altari, quello di tre preti uccisi in Perù da Sen­dero lumi­noso nel 1991).

Non si cono­sce ancora la data della bea­ti­fi­ca­zione – forse la comu­ni­cherà que­sta mat­tina mons. Vin­cenzo Paglia, postu­la­tore della causa –, ma ormai è certo che ci sarà, a 35 anni dall’uccisione e a 20 dall’apertura del pro­cesso di cano­niz­za­zione, avviato nel 1994.
Un per­corso lungo e acci­den­tato che si spiega con la tenace oppo­si­zione che Romero ha avuto, da vivo e da morto, dai set­tori con­ser­va­tori delle gerar­chie eccle­sia­sti­che e dalla Curia romana, che lo con­si­de­ra­vano un “vescovo rosso”: bea­ti­fi­care Romero, per costoro, avrebbe signi­fi­cato rico­no­scere valore alla teo­lo­gia della libe­ra­zione, con­tro cui Woj­tyla (papa) e Ratzin­ger (pre­fetto della Con­gre­ga­zione per la dot­trina della fede, l’ex Sant’Uffizio) hanno con­dotto una duris­sima crociata.

Woj­tyla, del resto, con Romero ebbe un rap­porto piut­to­sto con­flit­tuale, tanto da inviar­gli, negli anni, tre visite apo­sto­li­che, ovvero “ispe­zioni”.
Nel 1979, quando le denunce dell’arcivescovo di San Sal­va­dor con­tro le vio­lenze della dit­ta­tura mili­tare erano all’apice, Gio­vanni Paolo II rice­vette Romero in Vati­cano, trat­tan­dolo con grande fred­dezza, esor­tan­dolo anzi ad andare d’accordo con il governo. «Non mi sono mai sen­tito così solo come a Roma», rac­contò lo stesso Romero ad una reli­giosa sal­va­do­re­gna (la testi­mo­nianza, pub­bli­cata dall’agenzia Adi­sta, è di Gio­vanni Fran­zoni, ex abate di San Paolo fuori le mura, durante la sua depo­si­zione giu­rata nella causa di bea­ti­fi­ca­zioni di Wojtyla).

Solo post mor­tem, nel 1983, durante un viag­gio in Sal­va­dor, Gio­vanni Paolo II si recò a pre­gare sulla tomba di Romero. Ma non andò oltre, nono­stante sia stato il papa che abbia “fab­bri­cato” il mag­gior numero di santi e beati della storia.

Sotto il pon­ti­fi­cato di Ratzin­ger le cose non cam­bia­rono. L’unica testi­mo­nianza resta una dichia­ra­zione di Bene­detto XVI nel 2007 sull’aereo che lo stava por­tando in Bra­sile: Romero è «un grande testi­mone della fede» ed è «degno di bea­ti­fi­ca­zione». Ma non accadde nulla.

Che il pro­cesso sia stato con­tro­verso lo ammette anche mons. Paglia: «Il pro­ce­di­mento è stato lungo, meti­co­loso e ha fugato ogni tipo di pro­blema e anche ogni tipo di oppo­si­zione», ha spie­gato a Radio Vati­cana.
Prima di lui lo aveva rico­no­sciuto lo stesso papa Ber­go­glio, l’estate scorsa, tor­nando dalla Corea del Sud: il pro­cesso era «bloc­cato per pru­denza» – nel les­sico eccle­siale signi­fica che c’erano nume­rosi pareri con­trari – ma «adesso è sbloc­cato» e «i postu­la­tori devono muo­versi per­ché non ci sono impe­di­menti», aveva rive­lato Fran­ce­sco.
E il primo papa suda­me­ri­cano è stato effet­ti­va­mente deter­mi­nante all’accelerazione di un iter impan­ta­nato e sabo­tato da anni.

Da tempo, e senza biso­gno di auto­riz­za­zioni eccle­sia­sti­che, i cat­to­lici lati­noa­me­ri­cani invo­cano l’ex arci­ve­scovo di San Sal­va­dor come “San Romero d’America”.
L’atto di Ber­go­glio avrà un grande impatto, che con­tri­buirà al con­so­li­da­mento della sua imma­gine di papa che guarda con atten­zione ai movi­menti popo­lari e che sogna una «Chiesa per i poveri».
Chissà se dopo la bea­ti­fi­ca­zione arri­verà anche la piena ria­bi­li­ta­zione, in vita, di tanti teo­logi, molti lati­noa­me­ri­cani, messi ai mar­gini o ridotti al silen­zio dai suoi predecessori.

«La deci­sione di papa Fran­ce­sco è di netta discon­ti­nuità con quella di Gio­vanni Paolo II e di Bene­detto XVI, che dif­fi­da­vano di un vescovo “in odore di teo­lo­gia della libe­ra­zione”», com­menta il movi­mento rifor­ma­tore Noi Siamo Chiesa, che esprime sod­di­sfa­zione per l’annuncio e mani­fe­sta una per­ples­sità: «Spe­ra­vamo che Romero fosse dichia­rato santo per­ché mar­tire per la giu­sti­zia e non per­ché in odium fidei. La sto­ria non può essere usata a pia­ci­mento. A San Sal­va­dor e dovun­que nel mondo tutti sanno quanto ha fatto e ha detto Romero e per­ché è stato assassinato».

 

La lunga «conversione» del vescovo conservatore

di  Geraldina Colotti, 

Un cammino. La voce degli ultimi contro i potenti

«In nome di Dio, di que­sto popolo sof­fe­rente… vi chiedo, vi prego, vi ordino in nome di Dio, cessi la repres­sione». L’ultima ome­lia di Mon­si­gnor Oscar Arnulfo Romero, arci­ve­scovo sal­va­do­re­gno, il 23 marzo del 1980. L’ultima denun­cia con­tro i cri­mini com­messi dall’esercito all’inizio della guerra civile che durerà fino al 1992. La sua defi­ni­tiva con­danna. Il giorno dopo verrà ucciso da un sica­rio degli squa­droni della morte, finan­ziati dalla Cia per com­bat­tere «il peri­colo comu­ni­sta» e agli ordini del colon­nello Roberto d’Aubuisson. Stava dicendo messa nella cap­pella dell’Ospedale La Divina Prov­vi­denza di San Salvador.

Romero era un con­ser­va­tore, ma negli ultimi anni il suo impe­gno aveva finito per coin­ci­dere con quello delle cor­renti più radi­cali della Teo­lo­gia della libe­ra­zione. Da tempo aveva aperto le porte della chiesa ai con­ta­dini per­se­gui­tati dalla repres­sione che orga­niz­za­vano la resi­stenza. Ave­va­scritto una let­tera all’allora pre­si­dente Usa, Jimmy Car­ter, per chie­der­gli di can­cel­lare gli aiuti mili­tari al governo del Sal­va­dor. Da allora, verrà ricor­dato come «la voce dei senza voce», capace di tener testa ai potenti. E, dal 1996, si è aperta a Roma la causa per la sua canonizzazione.

Nato il 15 ago­sto del 1917 in una fami­glia povera, era cre­sciuto nel Pon­ti­fi­cio col­le­gio Pio lati­noa­me­ri­cano — che ospita gli stu­denti del Lati­noa­me­rica — fino ai 24 anni, quando venne ordi­nato sacer­dote, il 4 aprile del 1942. Rien­trato in Sal­va­dor, eser­citò come par­roco e poi come segre­ta­rio del vescovo dio­ce­sano Miguel Angel Machado. Nel ’68 divenne segre­ta­rio della Con­fe­renza epi­sco­pale di El Sal­va­dor. Il 21 aprile del 1970, il papa Paolo VI lo nominò vescovo ausi­lia­rio di San Sal­va­dor. Della sua nomina, si ral­le­gra­rono soprat­tutto le com­po­nenti con­ser­va­trici del clero, ras­si­cu­rate dalle sue dichia­ra­zioni con­tro «i mar­xi­sti» della teo­lo­gia della libe­ra­zione. A feb­braio del 1970, disse in un’intervista: «Il governo non deve scam­biare il sacer­dote che si esprime a favore della giu­sti­zia sociale per un poli­tico o un ele­mento sov­ver­sivo, per­ché sta solo com­piendo la sua mis­sione nella poli­tica del bene comune». Pro­prio il giorno della sua nomina, assi­ste a un feroce mas­sa­cro di con­ta­dini da parte dell’esercito e alla morte di un cen­ti­naio di per­sone che si erano rifu­giate nella chiesa del Rosa­rio. E comin­cia a «vedere» con altri occhi le sof­fe­renze dei poveri e gli impe­di­menti al «bene comune».

Quella che lo stesso Romero rac­con­terà poi come la sua «con­ver­sione» avviene qual­che anno più tardi, quando viene ucciso il gesuita Ruti­lio Grande, il 12 marzo del 1977. Ruti­lio è mas­sa­crato dagli squa­droni della morte agli ordini dell’oligarchia che cer­cava di con­te­nere col ter­rore le pro­te­ste dei con­ta­dini. Da allora, Romero sce­glie il pro­prio campo: quello degli ultimi, e beve il suo calice fino alla fine.

«Sii patriot­tico, ammazza un prete», gri­dava allora l’estrema destra sal­va­do­re­gna. E faceva seguire alle minacce i fatti: 40 saranno i sacer­doti uccisi in quel periodo. Nel 1989, avviene il mas­sa­cro di Uca: sei gesuiti tru­ci­dati insieme alla cuoca e a sua figlia. La voce di Romero ha già il tim­bro forte e corag­gioso della denun­cia e risuona nel mondo. Nel 1979 è can­di­dato al Nobel. Ma la chiesa di que­gli anni sta sce­gliendo un altro campo.
A feb­braio del 1980, l’arcivescovo Romero com­pie un viag­gio in Europa per rice­vere la lau­rea Hono­ris Causa dall’università di Lova­nio. Ha por­tato con sé un volu­mi­noso fasci­colo in cui ha docu­men­tato i cri­mini degli squa­droni della morte e i pati­menti inflitti ai con­ta­dini sal­va­do­re­gni. Vuole con­se­gnarlo al nuovo papa Gio­vanni Paolo II. Dopo una lunga anti­ca­mera che pre­an­nun­cia il clima dell’incontro, Romero è rice­vuto da un Woj­tyla gelido che gli dà tutt’altro «con­si­glio»: quello di non occu­parsi degli oppressi, ma di tenere piut­to­sto in conto le buone rela­zioni con gli oppres­sori: «Lei, signor arci­ve­scovo, si deve sfor­zare di avere una migliore rela­zione con il governo del suo paese», lo ammo­ni­sce il papa, pronto alla cro­ciata con­tro «il comu­ni­smo» insieme al pre­si­dente Usa Ronald Rea­gan. Intanto, come risulta dagli archivi Cia, qual­cuno sta già ordinando l’omicidio dell’arcivescovo al colon­nello Roberto d’Aubuisson.

L’impegno estremo dei sacerdoti

di  Geraldina Colotti, 

America Latina. Ieri come oggi, una divisione tra la chiesa degli oppressori e quella dei perseguitati

 Il volto dell’America latina, oggi, è anche quello dei pre­si­denti che hanno preso le armi con­tro i dit­ta­tori cre­sciuti a Fort Ben­ning, in Geor­gia, la “Scuola delle Ame­ri­che” dove veni­vano adde­strati a par­tire dal 1946. E dove ogni anno con­ti­nuano a mani­fe­stare i soprav­vis­suti alla guerra civile sal­va­do­re­gna. Oltre a Fidel e Raul Castro, a Cuba, alla guida del Nica­ra­gua c’è il san­di­ni­sta Daniel Ortega, a quella del Bra­sile c’è Dilma Rous­seff e c’è stato in Uru­guay l’ex tupa­maro Pepe Mujica. E ora in Sal­va­dor — il secondo paese cen­troa­me­ri­cano che prova ad affran­carsi dalla tutela Usa — c’è Sal­va­dor San­chez Céren, ex diri­gente del Fronte Fara­bundo Marti per la libe­ra­zione nazio­nale (Fmln), eletto il 9 marzo del 2014. Céren ha vinto di misura al secondo turno con­tro Nor­man Qui­jano, can­di­dato del par­tito Arena: il rap­pre­sen­tante dell’estrema destra, fon­data da Roberto d’Aubuisson, lunga mano della Cia e man­dante dell’assassinio del vescovo Romero. Il nome di bat­ta­glia di Céren era allora Leo­nel Gon­za­les e fu uno dei coman­danti che fir­ma­rono gli accordi di pace, il 16 gen­naio del 1992.

Dopo un lungo nego­ziato sotto l’egida dell’Onu, l’accordo con­clude la lunga e san­gui­nosa guerra civile. La Com­mis­sione per la verità docu­menta che le forze armate, i para­mi­li­tari, i corpi di sicu­rezza e gli squa­droni della morte por­tano la respon­sa­bi­lità delle circa 80.000 vit­time e degli 8.000 scom­parsi. Fra que­sti, molti cri­stiani rivo­lu­zio­nari, preti e suore “ter­zo­mon­di­ste” come il sacer­dote Rafael Erne­sto Bar­rera, che decise di imbrac­ciare le armi con il nome di bat­ta­glia Neto e che venne ucciso il 26 novem­bre del 1978. A lui e a tutti quelli che — come Camillo Tor­res in Colom­bia — hanno scelto una coe­renza estrema in Ame­rica latina, con­ti­nuano a ren­dere omag­gio i rivo­lu­zio­nari del con­ti­nente. Nei quar­tieri poveri del Sal­va­dor, Romero era cele­brato come santo già subito dopo la sua morte. E in Cen­troa­me­rica si ricorda anche la figura del vescovo Juan Gerardi, ucciso il 26 aprile del 1998.

Durante il periodo di oscu­ran­ti­smo seguito alla caduta dell’Unione sovie­tica e al dila­gare del neo­li­be­ri­smo in Ame­rica latina, il peso della chiesa di base si è dra­sti­ca­mente ridotto. E i pre­si­denti che sono tor­nati a gover­nare, come Ortega in Nica­ra­gua, hanno dovuto fare i conti con le posi­zioni con­ser­va­trici dei vescovi, che inter­ven­gono pesan­te­mente nelle scelte poli­ti­che. Anche fra i capi di stato che gover­nano per il “Socia­li­smo del XXI secolo”, alcuni (come Cor­rea in Ecua­dor e prima Cha­vez in Vene­zuela) si dichia­rano cri­stiani. Ricor­dare la resi­stenza di preti e suore che, dall’Argentina al Cile, dal Bra­sile alla Colom­bia e al Vene­zuela si sono schie­rati a fianco degli oppressi, ieri come oggi, torna ad assume un signi­fi­cato poli­tico. Quando Ber­go­glio è stato eletto papa, la pole­mica sul suo ruolo di gesuita troppo silente ai tempi della dit­ta­tura ha ripro­po­sto la neces­sità di ricor­dare una figura di resi­stenza come quella di Romero. E la bat­ta­glia per la verità por­tata avanti in Gua­te­mala da chi non dimen­tica il vescovo Gerardi, si uni­sce a quella di chi non si ras­se­gna a paci­fi­care nei mede­simi mec­ca­ni­smi di domi­nio l’eredità della resi­stenza alle dit­ta­ture degli anni ’70 e ’80. I preti di base del Bra­sile, che con­tano nume­rose vit­time durante la dit­ta­tura, hanno accom­pa­gnato l’elezione e la vit­to­ria di Rous­seff. E fra i movi­menti popo­lari che hanno rispo­sto all’appello di papa Ber­go­glio, qual­che mese fa a Roma, la gran parte era cri­stiana e ha pero­rato la cano­niz­za­zione di Romero. Anche il Vene­zuela di Maduro ha inol­trato a Ber­go­glio la richie­sta di una cano­niz­za­zione: quella del medico dei poveri Gre­go­rio Her­nan­dez. Durante la visita in Vati­cano, Maduro ha pre­ci­sato il senso del suo rap­porto con la chiesa: «Sarebbe bello — ha detto — che papa Fran­ce­sco ci aiu­tasse a orga­niz­zare le Misio­nes in Africa». Le Misio­nes: non pro­getti di carità, ma auto-organizzazione poli­tica. Santi «di classe» con­tro i san­tini del potere, come quelli inal­be­rati dal sin­daco di San Sal­va­dor che ha dedi­cato una via a Roberto d’Aubuisson.

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