I comunisti e la Costituzione. Per il 94° anniversario della fondazione del PCI

I comunisti e la Costituzione. Per il 94° anniversario della fondazione del PCI

di Dino Greco

Mi sono chiesto cosa potesse essere più utile per fare della ricorrenza dell’anniversario della nascita del Partito comunista italiano, nel lontano 1921, il motivo di una riflessione per nulla reclinata sulla pura retorica d’occasione ma, al contrario, carica di presente e di futuro.

Fra le tante opzioni possibili, la più convincente ( forse perché la meno conosciuta) per parlare ai giovani e per tornare a farlo ai non più giovani, gli uni e gli altri disillusi e sconfortati di fronte alla miseria del tempo presente, mi è parsa quella di raccontare come, all’indomani della vittoriosa rivoluzione democratica e antifascista, nel 1947, il Partito comunista italiano impegnò tutto se stesso, la propria forza e il proprio prestigio – conquistati nella lunga lotta al fascismo e nella guerra di Liberazione – per la costruzione della “Legge delle leggi”, per l’edificazione di quella Carta costituzionale oggi oggetto di una totale manomissione da parte della cultura liberista divenuta tratto costitutivo non soltanto della Destra tradizionale ma, certo non di meno, del Partito democratico.

L’obiettivo tenacemente perseguito dal Pci fu quello di incardinare la sovranità nazionale sul lavoro e creare le condizioni, anche di carattere normativo, perché il compromesso raggiunto fra le forze popolari rappresentasse un terreno sempre più avanzato per la lotta di classe e per uno sviluppo progressivo della democrazia, tale da rendere possibile una trasformazione radicale della società in senso socialista.

Lo scontro che nella prima sottocommissione dell’Assemblea costituente si sviluppò intorno ai principi che dovevano informare i rapporti economico-sociali (che si sarebbero materializzati nei 14 articoli del Titolo III della Carta) fu di grande durezza.

Protagonista di quella memorabile battaglia fu il segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti.

Ricapitolarne i tratti salienti farà scoprire (o riscoprire) al lettore la formidabile attualità (e, nello stesso tempo, la siderale distanza) di quell’ingaggio politico e del respiro politico e morale di quel pensiero, rispetto alla supina subordinazione al capitale di tutte le forze che compongono l’attuale arco parlamentare.

Togliatti, in contrasto aperto con l’altro relatore della sottocommissione, Roberto Lucifero, pone subito, in apertura, la questione cruciale.

Il tema è quello della libertà di iniziativa economica privata (la libertà d’impresa) rivendicata da Lucifero …“nomen omen”… come la condizione perché ad ognuno sia garantita un’esistenza libera e dignitosa.

Togliatti non ci sta e replica secco, letteralmente, che “tutto questo suona irrisione”. Perché in un sistema capitalistico ove regna la pura libertà economica, i rapporti sociali, cioè i rapporti di proprietà che nel suo seno si generano, tendono a concentrare la ricchezza nelle mani di ristretti gruppi privilegiati, mentre dall’altra parte aumentano povertà e diseguaglianza.

Togliatti prende cioè di petto l’intera cultura economica, l’intera impalcatura del dottrinarismo liberale per dire che se si resta alla superficie, se non si va alla radice della contraddizione fra il carattere sociale della produzione e quello privato dell’appropriazione, si riproduce fatalmente l’ordine di cose esistente:

“La proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza – dice Togliatti – si concentrano nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il Paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per sostenere movimenti politici reazionari, per mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della nazione”.

Merita qui rilevare come per Togliatti gli interessi della classe operaia, a differenza di quelli della borghesia capitalistica, coincidono con gli interessi generali (che non sono mai, dunque, in questa accezione, la media aritmetica, il luogo geometrico, degli interessi di tutte le classi).

Togliatti non usa artifizi o giri di parole. Dice, esplicitamente: “Bisogna colpire i gruppi privilegiati!”.

Questo è il nesso vitale, teorico e pratico, con quello che diverrà, a fine percorso, l’articolo 1 della Costituzione.

Per fare questo – prosegue Togliatti – occorre “un’ampia e radicale riforma della struttura della società”. Perché soltanto così è possibile difendere le istituzioni democratiche che le classi al potere hanno portato alla rovina.

Insomma, non basta declamare aulicamente gli immarcescibili princìpi: “Vano sarà avere scritto nella nostra Carta il diritto di tutti i cittadini al lavoro, al riposo e così via, se poi la vita economica continuerà ad essere retta secondo i princìpi del liberalismo”.

A questo punto, Togliatti pone una seconda questione decisiva. E cioè: quale carattere deve avere la Carta? Soltanto quello prescrittivo di una Costituzione o piuttosto quello di un programma fondamentale?

Nella sua argomentazione, Togliatti prende in prestito la costituzione sovietica del ’36, per dire che “quella poteva essere una costituzione in senso proprio perché registrava e sanzionava in formule giuridiche trasformazioni economico-sociali (cioè rapporti di produzione) già avvenute o in atto”. Ma in Italia no, perché quella italiana è stata sì una rivoluzione democratica e antifascista, il fascismo è crollato sotto i colpi di una grande sollevazione popolare, ma non ha gettato le basi di un ordinamento nuovo. La guerra combattuta contro il fascismo è stata sì anche una guerra di classe, combattuta con straordinaria forza dalle classi lavoratrici. Ed è questa fortissima presenza che oggi ci permette di porre la questione del potere a questo livello. Ma “le basi della nuova società devono essere ancora costruite”: il vecchio edificio, le vecchie strutture devono essere trasformate in qualcosa di profondamente diverso. Solo così sarà possibile coniugare libertà, democrazia, uguaglianza.

Togliatti passa poi ad indicare le linee di questo processo:

Il piano economico (nel senso che lo Stato deve coordinare ed indirizzare a fini sociali l’attività dei singoli;

la compresenza di diverse forme di proprietà (privata, di Stato, pubblica, comunitaria, cooperativa);

la nazionalizzazione delle fondamentali branche industriali e la nazionalizzazione di quelle imprese che per la loro rilevanza devono essere sottratte all’iniziativa privata;

la limitazione del diritto di proprietà, ove questo non si conformi all’interesse sociale.

Si tratta, precisamente, del processo di una trasformazione economica di tipo socialista, da attuarsi attraverso uno sviluppo “progressivo” della democrazia, la cui molla è nella lotta di classe. Un processo, dunque, guidato dai lavoratori che devono potere accedere a forme di controllo diretto della produzione.

In filigrana, si legge qui il tema del partito della classe operaia, come architrave insostituibile di un processo rivoluzionario in divenire, non soltanto teorizzato, ma incarnato in una forza sociale reale, quella che può – gramscianamente – disorganizzare le idee delle classi dominanti e divenire il glutine di un nuovo blocco storico.

Dunque, Togliatti vede la Costituzione non solo come “Legge delle leggi”, dotata, come pure dev’essere, di un valore prescrittivo, ma anche come strumento di lotta per la trasformazione politico-sociale del paese.

E’ triste, in ragione di questo grande passaggio della nostra storia, constatare quale gigantesca rivoluzione concettuale abbia sradicato, anche dal senso comune, la portata progressiva della Costituzione italiana.

Al punto che il capo del governo e segretario del Partito democratico, a conclusione di un devastante processo di demolizione dei diritti del lavoro, ha potuto affermare, senza incontrare che un labile contrasto, che “è inammissibile che un giudice possa intromettersi nel rapporto di lavoro fra dipendente e datore di lavoro per infliggere a quest’ultimo il sopruso di non potersi liberare di un lavoratore che non gli aggrada più”.

Insomma, nel rapporto di lavoro, il lavoratore non deve più entrare come persona, dotata di diritti e prerogative inalienabili, ma come merce che produce altre merci.

D’un sol colpo, Matteo Renzi ha solennemente sancito che l’intero impianto costituzionale, a partire dal suo articolo 1, non esiste più.

Questo è lo stato odierno del nostro paese e dell’Europa colonizzata dalla parte più reazionaria, aggressiva, e violenta del capitale finanziario.

 Sembrerebbe un solido motivo per i non rassegnati a rimettersi in cammino. Magari attingendo ad un poco della migliore storia e della migliore cultura politica che la tradizione comunista è stata capace di produrre.

 

….

L’associazione Futura Umanità ha organizzato nel 2013 un convegno su Togliatti e la Costituzione (trovate relazioni, audio e video qui)

 

 

 

 


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