
Il volto oscuro della Resistenza
Pubblicato il 17 gen 2015
di Lidia Menapace – redazionale
Torna frequente e non cancellabile nel ricordo della Resistenza, quel grumo doloroso e preoccupante della violenza, soprattutto quella individuale o esecutiva di “sentenze” capitali che non avevano nè una grande legittimità formale, nè un adeguato sostegno giuridico.
Per quanto debole, penso che la giustificazione dello “stato di guerra” che fu usata negli anni immediatamente seguenti, nella vita repubblicana democratica, sia giusta, ma certo copre episodi assai diversi .
Mi provo a dipanare un po’ questa intricata e sofferta matassa.
Lascio da parte (la storiografia se ne è occupata molto e con esiti significativi) i fatti come le foibe e simili, la Risiera , Fossoli.
Mi fermo invece su episodi come quelli che riguardano Pesce e Gemisto, anche rappresentativi ,forse, di simili meno noti.
Dichiaro che certamente non sarei mai stata capace di eseguire una condanna capitale, sono da sempre contraria alla pena di morte. So che essa esiste ancora in vari ordinamenti giuridici e dunque chi la esegue in quei contesti non è giudicabile.
Poichè è noto che sia Pesce che Gemisto non si sono mai gloriati delle sentenze eseguite o di fatti simili e che hanno sempre dichiarato che quelli furono anche per loro tra gli episodi più duri e insopportabil della Resistenza, mi fermo a questa loro forte e convincente giustificazione e quindi chiedo che si metta fine a qualsiasi speculazione, volta a introdurre forme di revisionismo storico.
Ma soggiungo che bisogna respingere qualsiasi interpretazione che tenda a introdurre organicamente l’uso della violenza nella lotta politica, anche la più estrema e dura.
Mi è capitato qualche mese fa di essere interpellata dopo un dibattito da un signore che con aria complice mi chiese “Lei ha parlato della violenza sulle donne: tra noi, a Lei che ha fatto la Resistenza, non piacerebbe che si potesse ammazzare chi la pratica?” “Sono contraria di principio alla pena di morte” ho subito risposto e il signore : “lo so, mi riferivo a qualche esecuzione clandestina” e allora l’ho respinto di brutto e gli avrei dato volentieri uno sberlone in faccia come segno del mio schifato disprezzo.
Per evitare che attecchiscano memorie di questo tipo, che per di più cerchino nella Resistenza giustificazione alla violenza vendicativa individuale, invito a raccontare sempre gli episodi di lotta nonviolenta e chi li eseguì efficacemente come Nelson Mandela, oppure i Norvegesi ecc. ecc.
E a predisporre un discorso ampio e articolato sulla negatività e inefficacia e arretramento etico politico e culturale che l’uso della violenza porta con sè. A Novara, appena finita la guerra , proprio per evitare vendette private, che ci potevano essere e ci furono, istituimmo un regolare Tribunale del popolo, lo facemmo presiedere da un comandante partigiano del Lago Maggiore e Scalfaro ne fu il pubblico ministero, legittimandolo di fatto come agistrato. Egli chiese 14 condanne a morte per i peggiori delinquenti della squadraccia della Questura fascista di Novara e inoltrò subito domanda di grazia a Parri che si era già dichiarato favorevole a concederla, sicchè i 14 condannati ebbero poi ergastoli o condanne a 20, 30 anni. Vennero a farsi giudicare da noi anche da città vicine.
LIDIA MENAPACE
redazionale
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