Dai patti per la sicurezza ai patti di stabilità

Dai patti per la sicurezza ai patti di stabilità

di Stefano Galieni - redazionale

Per provare a riflettere, a mente fredda, in merito a quanto sta avvenendo in questi mesi tanto nelle periferie metropolitane quanto in alcune province, dove è ripresa, quando non si è mai interrotta, la caccia all’immigrato, è opportuno fare qualche passo indietro nel tempo. Si può partire da Roma, dove i fatti di Tor Sapienza, Corcolle, Torpignattara, Santa Palomba e Infernetto, tanto per citare i più noti, andrebbero annoverati nello scontato elenco delle “cronache di crolli annunciati”. Il primo passo porta molto lontano, all’inizio degli anni Settanta, quando la presenza a Roma di una consistente fascia sociale esclusa dai diritti elementari (casa, scuola, sanità, trasporti eccetera) riuscì a coagularsi in proposta politica.
C’era allora un Pci che, malgrado mostrasse già le prime contraddizioni, era ancora punto di raccolta di tale proposta. Divenne maggioranza politica, impose attraverso i propri amministratori, da Argan a Petroselli, un “piano casa” degno di questo nome, ponendosi come obiettivo la cancellazione dei “borghetti”, della vita nelle baracche di pasoliniana memoria. Un investimento senza precedenti, in gran parte pubblico, l’edilizia popolare considerata un valore, portarono alla realizzazione di abitazioni che se spesso non brillavano per lo stile architettonico, permisero una qualità della vita insperata per decine di migliaia di persone in gran parte giunte da pochi anni dal Meridione. Proletariato e sottoproletariato per cui si aprirono prospettive di inclusione sociale, di lavoro e di radicamento. Diminuiva l’analfabetismo, si aprivano i primi consultori, i campetti periferici di calcio, gli spazi sociali e di produzione culturale.
Fu una stagione breve ma feconda che portò Roma fuori da quella cupezza grigia e priva di prospettiva che aveva già seppellito gli anni del boom. Anche le periferie, meno estese di quelle attuali, divennero più vivibili, cresceva una devianza connessa alla diffusione dell’eroina che avrebbe poi distrutto una parte importante delle nuove generazioni, il clima non era affatto pacifico e pacificato ma ci si riprendeva spazi di vita, ci si confrontava con nuovi bisogni e aspettative, insomma sembravano potersi aprire nuove possibilità. L’abusivismo edilizio, mai cessato poi con la politica folle dei condoni, resta una macchia oscura che offusca tanto impegno. Negli anni Ottanta tutto questo comincia a vacillare.
Roma torna ad essere cupa e attraversata da un malessere che si trasforma in paura diffusa. Eroina, malavita organizzata, inizio della dissoluzione dei poli industriali come la “Tiburtina Valley”, sconfitte dei lavoratori e prima fase del distacco dalla politica in nome di una vuota parola “modernizzazione” che nascondeva la volontà dei mai sopiti poteri forti, soprattutto rappresentati dal circuito dei palazzinari. Nel frattempo la città cresceva, passava per amministrazioni banditesche, si espandeva con colate di cubature di cemento di edilizia residenziale anche al di là del raccordo anulare creando nuove periferie oltre quelle cresciute nei decenni precedenti. Col risultato che la capitale è divenuta un coacervo di periferie, alcune ormai ascrivibili dal punto di vista urbanistico ad un più esteso centro storico ma su cui mancavano interventi sostanziali.
L’arrivo negli anni di nuovi cittadini provenienti da numerosi Paesi del mondo (circa 161 diverse nazionalità) portava intanto Roma a dover assumere una condizione a cui in gran parte si è trovata impreparata, quella di metropoli pluriculturale. Un elemento che probabilmente avrebbe definito minori attriti se assieme non si fossero delineate le forme di sfruttamento tipiche e legata all’arrivo di nuova manodopera con meno diritti e più ricattabile. Le leggi proibizioniste, fallimentari come la Bossi –Fini, che di fatto pretendeva in maniera astrusa di regolare il mercato del lavoro, giungevano a confermare e ad istituzionalizzare una ondata repressiva che individuava il nemico in colui che era tout court irregolarmente presente, nel rom, nel povero non autoctono. In pochi anni i penitenziari, un tempo destinati soprattutto al sottoproletariato urbano nativo, si riempivano di queste nuove figure. Microcriminalità, espedienti più o meno legali per vivere, lavoro nero, la semplice vendita di prodotti contraffatti o l’accattonaggio, divenivano nicchie economiche coperte da nuove figure sociali.
La risposta a questi nuovi malesseri sociali è stata da una parte lo sviluppo di una imprenditoria politica fondata sulla paura e dall’altra, di conseguenza, la nascita di un sistema di ordinanze, azioni repressive, rastrellamenti realizzate col solo scopo di tranquillizzare una popolazione spaventata e contemporaneamente di fare cassa. Eppure in quegli anni dominavano giunte di centro sinistra, quasi sempre con la presenza del Prc a fare da bilancino, a tentare di strappare concessioni e riduzioni del danno, ma senza capire affatto la portata della modificazione antropologica, prima che politica, che si andava producendo.
Da segnalare che malgrado ciò, decine di migliaia di cittadini migranti riuscivano a superare gli ostacoli frapposti e si affrancavano da una condizione di subalternità sostanziale. Seppur privi di diritti politici entravano nel mondo del lavoro, costruivano nuclei familiari o li ricongiungevano, i loro figli andavano nelle scuole e spesso superavano i muri invisibili frapposti più dagli adulti che dai coetanei. Non bastava però. L’insorgere di una crisi economica senza precedenti sul piano globale contemporaneamente portava a modificare anche la tipologia delle persone che si avvicinano alla città.
Una crisi che ha imbarbarito le relazioni sociali, reso più aspri conflitti mai sedati fra ultimi e penultimi, costruito barriere di emarginazione e di auto esclusione. Oggi ci si stupisce di fronte a fasce di proletariato e di ceto medio impoverito, cresciute in quartieri dormitorio che sfogano la propria rabbia e assenza di prospettiva contro profughi e rom. Dovrebbe scandalizzarci lo stupore, più dello sciacallaggio dei mestatori di professione, dei fascisti vecchi e nuovi, di amministrazioni totalmente incapaci di affrontare questioni sociali. Ormai sei o sette anni fa si inauguravano a Roma i “patti per la sicurezza”, ovvero milioni di euro spesi per sgomberare persone prive di alloggio, nuclei familiari di autoctoni, apolidi e rifugiati.
Scendeva in strada l’esercito in parate grottesche, si lanciava la caccia al lavavetri, al venditore abusivo, durante la notte nei quartieri calavano pattuglioni di agenti in divisa alla caccia di persone senza documenti. Pugno di ferro e risultati zero. In una città in cui il tasso di criminalità è fra i più bassi del pianeta, esegeti della stampa dell’urlo si esercitavano a dipingere periferie oscure e omicide, dove il nemico aveva sempre il volto, le caratteristiche somatiche, l’accento, dell’ospite non più desiderato. Milioni e milioni di euro gettati al vento che potevano essere utilizzati per la riqualificazione delle periferie, per garantire servizi pubblici, welfare, case per chi ne ha bisogno indipendentemente dal colore della pelle.
Oggi i patti di sicurezza sono stati sostituiti dal Patto di Stabilità. Una religione ancora più dogmatica in cui la coercizione si esercita togliendo diritti a tutti, riducendo i servizi sanitari, le scuole, uccidendo la già moribonda edilizia popolare, creando eserciti di inoccupati, precari, condannati alla sussistenza e all’abbandono. I quartieri periferici delle metropoli, alcune province dal glorioso passato industriale pagano in maniera ancora più deleteria tale politica neoliberista, prevale il degrado e l’abbandono, la frustrazione, la rabbia, il senso di impotenza.
Nel frattempo, in quegli stessi territori arrivano uomini, donne e minori ancora più poveri e vulnerabili. Persone parcheggiate in centri che spesso ben poco hanno a che fare con l’accoglienza e molto con la speculazione degli enti gestori. Persone che vorrebbero andarsene ma sono bloccate dalle leggi italiane ed europee, che raramente riescono a relazionarsi col mondo circostante, molto più di frequente, camminano in balia di un presente infinito. Qualcuno delinque? Forse. Qualcuno di loro si ubriaca, si arrangia con il piccolo spaccio o con altre attività illecite? Certamente. Molti continuano a vivere come fossero ancora nel deserto attraversato e da cui non sono mai potuti uscire, si lasciano andare come barche alla deriva, cercando di sopravvivere. Chi specula su queste vicende è capace di veicolare un pericolosissimo contagio di razzismo popolare ma, sia chiaro, quale sinistra è stata capace in questi anni di frapporsi a questo crollo? Nessuna. Non certo quella ormai priva anche di qualsiasi vocazione socialdemocratica, che ha lasciato il campo aperto al mercato, neanche quella radicale e di alternativa, che ha giocato finora solo sulla difensiva.
La soluzione unica non esiste. Esiste però la capacità di elaborare progetti a breve e medio termine per poter lanciare una propria proposta. Evitare le grandi concentrazioni di gruppi di profughi, (al solo Selam Palace nella periferia Sud di Roma vivono circa 2200 richiedenti asilo abbandonati a se stessi) ma gli organismi del Ministero dell’Interno continuano a smistare persone nei luoghi più complessi della penisola. Non si tratta di una invasione, molti se ne vorrebbero andare subito, ma di una questione sociale affrontabile senza dover ricorrere a strumenti di emergenza, come la requisizione di scuole e alberghi o stabili disabitati ma definendo un piano programmatico di vera accoglienza con un controllo pubblico e degli enti di prossimità in merito all’utilizzo delle risorse. Si deve richiedere con urgenza l’abrogazione del Regolamento di Dublino che obbliga i richiedenti asilo a restare in Italia e si debbono rendere più adeguate le norme di esame delle domande di protezione internazionale. Si debbono rompere i patti di stabilità e applicare le norme contenute nella Costituzione che consentono l’utilizzo sociale della proprietà privata. Città come Roma sono piene di stabili in cui potrebbero avere una vita dignitosa e non nei ghetti, autoctoni e migranti. Si possono chiudere i campi rom, pensando ad una politica residenziale condivisa.
Si deve insomma colpire la rendita ancora alta derivante dal patrimonio immobiliare per creare condizioni di eguaglianza diffusa nei diritti, per rompere la competizione “noi” “loro” con cui si alimentano le pulsioni peggiori del Paese. Ma ci vorrebbe il coraggio di disturbare il manovratore e di tornare a parlare in quei quartieri popolari abbandonati dove sopravvive un ceto medio impoverito e impaurito facile preda del peggior razzismo. Sporcarsi le mani prima insomma e non dopo le aggressioni, fare militanza sociale e ricostruire mutualismo diffuso, come avveniva in passato e in taluni casi avviene ancora nelle Case del Popolo.
Sporcarsi le mani anche avendo il coraggio di denunciare pubblicamente laddove violenze e abusi sono commessi da cittadini stranieri, questo non è né razzismo né tantomeno elogio di una formale legalità ma tentativo di ricreare comunità capaci di individuare chi è e cosa cerca di ottenere il vero nemico.
Essere insomma capaci di superare un approccio di ordine “etico” all’antirazzismo ma in grado di dare vita a legami meticci che abbiano anche il sano sapore della solidarietà di classe. Più che concentrarsi sulla attrazione che stanno esercitando in questi quartieri i gruppuscoli neofascisti, bisogna avere la forza di ribaltare il paradigma dominante, individuando i reali responsabili del degrado, non solo delle periferie ma della vita di ognuno e attaccare questi di poteri reali.
Più che accusare il sottoproletariato di razzismo plebeo dovremmo tornare ad interpretare le esigenze di una moltitudine meticcia i cui bisogni non sono e non debbono divenire contrapposti ma asse comune. Non dovremmo dimenticare che, tornando a città come Roma, tanti anni di amministrazione hanno visto convivere allegramente speculatori immobiliari e giunte di centro sinistra, in un progetto unico di cessione al privato di ogni tipo di bisogno sociale. Potrebbero essere anche queste le coordinate per fermare lo strapotere dei due Mattei, liberista ed europeista il primo (Renzi), liberista e nazionalista il secondo (Salvini). Non è una equiparazione ma si tratta di due facce della stessa medaglia.

STEFANO GALIENI

redazionale


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