Da un Paese sfiduciato un messaggio per l’Europa

Da un Paese sfiduciato un messaggio per l’Europa

di Alfonso Gianni

Crisi della rappresentanza più che crisi della politica: una lista di cittadinanza per le elezioni europee, fondata su un programma anti-austerity, può essere un buon antidoto

L’indagine di Demos sul rap­porto fra gli ita­liani e lo Stato, com­men­tata da Ilvo Dia­manti qual­che giorno fa su Repub­blica, ha giu­sta­mente atti­rato l’attenzione, non solo degli addetti ai lavori. Ne emerge in modo piut­to­sto mar­cato un qua­dro di pesante demo­ra­liz­za­zione, anche tra coloro che, come chi scrive, hanno fatto dell’impegno poli­tico uno degli assi prin­ci­pali su cui fare scor­rere la pro­pria vita.

A guar­dare bene i dati che l’indagine ci for­ni­sce, un simile pes­si­mi­smo non appare però del tutto giu­sti­fi­cato. Anche per­ché alcuni di que­sti dati si pre­stano a più inter­pre­ta­zioni, anche rispetto a quelle molto auto­re­voli dello stesso Dia­manti. Certo, se si guarda il rias­sunto delle rispo­ste for­nite, emerge il qua­dro di una società che sem­bra a un passo dall’intraprendere, addi­rit­tura con ampio con­senso, avven­ture di tipo mar­ca­ta­mente auto­ri­ta­rio. Cosa peral­tro non nuova nel nostro paese e la sto­ria, come si sa, non inse­gna altro che a rico­no­scere ex post che si sono fatti gli stessi errori di un tempo, ma non a evi­tarli. Spinge verso un’interpretazione di que­sta natura la cre­scita di con­sensi verso le forze dell’ordine che bal­zano, con il 70,1% dei gra­di­menti, di gran lunga in testa alla clas­si­fica dei pre­fe­riti. Un dato da leg­gere assieme al fatto che tre inter­vi­stati su quat­tro si pro­nun­ciano per l’elezione diretta del capo dello Stato. È fin troppo evi­dente il biso­gno di sicu­rezza comun­que sia che emerge da que­sti elementi.

Ma non si può leg­gere nello stesso modo la cre­scita di dieci punti in un anno della fidu­cia nella Chiesa. Non siamo di fronte a un oriz­zonte con­cor­da­ta­rio o da colpo di stato con la bene­di­zione divina. Tutt’altro. La cre­scita di con­sensi verso la Chiesa è indub­bia­mente segnata da due fatti straor­di­nari. Le dimis­sioni di Bene­detto XVI, con la con­se­guente uma­niz­za­zione della figura papale, e il suc­cesso della figura di papa Fran­ce­sco, con­fer­mata per ora dai suoi primi signi­fi­ca­tivi atti. Ne emerge un’immagine inno­va­tiva della Chiesa, basata sulla sua capa­cità e rapi­dità di cam­bia­mento, con­trap­po­sta, a torto o a ragione, nell’immaginario col­let­tivo alla para­lisi della poli­tica e delle isti­tu­zioni lai­che sta­tuali e una sua nuova vici­nanza con i pro­blemi sociali e umani che la poli­tica pare avere defi­ni­ti­va­mente abban­do­nato. Emble­ma­tico in que­sto senso è stata la visita di papa Fran­ce­sco a Lam­pe­dusa. Quando Renzi ha voluto fare cosa astuta non ha potuto altro che imi­tarlo in seconda bat­tuta, ovvia­mente con molta meno effi­ca­cia. La Chiesa appare dun­que il con­tral­tare — scu­sate il bistic­cio seman­tico — delle isti­tu­zioni lai­che, ma in modo anche posi­tivo, soprat­tutto per colpa di que­ste ultime. In sostanza esprime nei suoi com­por­ta­menti una socia­lità e una vici­nanza alle per­sone, che le seconde, pri­gio­niere delle astratte poli­ti­che di rigore e alla nor­ma­liz­za­zione della cor­ru­zione, hanno smesso da tempo di esercitare.

Dia­manti insi­ste molto sul fatto che l’alternativa fra miglio­rare i ser­vizi per i cit­ta­dini e ridurre le tasse abbia com­ple­ta­mente cam­biato di segno. In effetti nel 2005 il 54% degli inter­vi­stati soste­neva che il com­pito prio­ri­ta­rio era quello di poten­ziare i ser­vizi, men­tre il 46% pun­tava sulla ridu­zione delle tasse. Nel 2013 il qua­dro è più che rove­sciato: il 70% vuole ridurre le tasse lasciando solo al 30% la pre­oc­cu­pa­zione di miglio­rare i ser­vizi. Ma mi par­rebbe ridut­tiva una let­tura che veda in que­sto ele­mento solo il ten­den­ziale crollo dello stato sociale. Basta tenere conto che tra il 2005 e oggi si è inse­rita la più grande crisi eco­no­mica che il capi­ta­li­smo euro­peo abbia cono­sciuto, la cui fine è tut­tora del tutto impre­ve­di­bile. Da allora, a causa anche delle scelte sba­gliate di poli­tica eco­no­mica attuate nella Ue e nel nostro paese, da un lato si sono ridotte quan­tità e qua­lità dei ser­vizi pub­blici offerti e dall’altra è pre­ci­pi­tato il red­dito della stra­grande mag­gio­ranza degli ita­liani, come mostrano anche le ultime cifre sull’incremento della povertà. Avendo meno o affatto liqui­dità in tasca è del tutto com­pren­si­bile che gli inter­vi­stati si pre­oc­cu­pino in primo luogo di ridurre la pres­sione fiscale, più che miglio­rare la qua­lità dello stato sociale. Non si può pre­ten­dere dai comuni cit­ta­dini quella lun­gi­mi­ranza che è del tutto assente nelle classi diri­genti eco­no­mi­che e politiche.

La fidu­cia nell’Unione euro­pea è scesa di ben dieci punti nel giro di un anno. Anche qui la mera­vi­glia sarebbe fuor di luogo. Gli inter­vi­stati hanno ben colto le respon­sa­bi­lità delle poli­ti­che di auste­rity euro­pee sul peg­gio­ra­mento delle pro­prie con­di­zioni di vita. Nel con­tempo, però, l’atteggiamento verso le isti­tu­zioni euro­pee è sem­pre più posi­tivo di quello verso quelle nazio­nali e locali. Que­sto ele­mento non è forse suf­fi­ciente a ras­si­cu­rarci del tutto sull’interesse che gli ita­liani mostre­ranno ad esem­pio alla par­te­ci­pa­zione nelle pros­sime ele­zioni euro­pee, ma è pur sem­pre una indi­ca­zione abba­stanza espli­cita, per chi la volesse rac­co­gliere, che que­ste ele­zioni non potranno essere, come nel pas­sato, sem­pli­ce­mente un brac­cio di ferro a fini interni e che invece il tema di un cam­bia­mento delle poli­ti­che eco­no­mi­che euro­pee dovrebbe essere l’argomento principale.

Ma veniamo al punto più inte­res­sante, con cui si può con­cor­dare pie­na­mente con Ilvo Dia­manti. Gli indici di par­te­ci­pa­zione alla vita sociale e poli­tica mostrano per for­tuna un anda­mento com­ple­ta­mente diver­gente da quello seguito dagli indici su cui si misura l’opinione. Dia­manti ci ricorda che 5 ita­liani su 10 dichia­rano di avere par­te­ci­pato nel 2013 a mani­fe­sta­zioni o ini­zia­tive poli­ti­che, di avere preso parte a lotte e dibat­titi, sia nelle piazze che sul web. Le mobi­li­ta­zioni in Rete hanno poi atti­rato in pre­va­lenza un pub­blico gio­va­nile, che copri­rebbe il 36% degli inter­vi­stati. Insomma ne emerge un qua­dro di un’Italia tutt’altro che ras­se­gnata, sfi­du­ciata o addi­rit­tura cinica.

Que­sto ele­mento va messo subito a con­fronto con il pre­ci­pi­tare della fidu­cia nei par­titi e nel par­la­mento, rispet­ti­va­mente il 5,1% e il 7,1%. Valori che erano già bassi l’anno pre­ce­dente — che quindi più di tanto non pote­vano scen­dere — ma che con­fer­mano la ten­denza in una sfi­du­cia nelle isti­tu­zioni della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e nelle rap­pre­sen­tanze orga­niz­zate. Si ripro­pone qui e si con­ferma ciò che in fondo ave­vamo già visto o almeno intuito. Il suc­cesso senza pre­ce­denti del refe­ren­dum sull’acqua e sul nucleare con­trap­po­sto all’astensionismo cre­scente nelle ele­zioni di ogni ordine e grado, dimo­strava già un con­flitto evi­dente e ormai radi­cato tra le forme della demo­cra­zia diretta, par­te­ci­pa­tiva e deli­be­rante e quelle della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva. Ha ragione per­ciò Dia­manti ad affer­mare che il clima «anti­po­li­tico» che attra­versa l’Italia non va inteso in modo asso­luto, ma che al con­tra­rio «evoca il vuoto della poli­tica e, al tempo stesso, una domanda di poli­tica molto estesa», quanto inevasa.

Solo che que­sta domanda non può tro­vare rispo­sta nell’attuale sistema par­ti­tico che l’ha così pale­se­mente e cla­mo­ro­sa­mente delusa. Que­sto vale anche, e a mag­gior ragione, nel campo della sini­stra d’alternativa, ove, nel nostro paese in par­ti­co­lare, qual­siasi idea di rimet­tere insieme le frat­ta­glie è già stata recen­te­mente fal­si­fi­cata dai fatti. Tutto ciò dovrebbe fare riflet­tere bene e in tempo tutti quanti in vista delle pros­sime ele­zioni euro­pee, che a sini­stra si gio­che­ranno sull’alternativa pro­gram­ma­tica incar­nata da un lato da Schultz e dall’altro da Tsi­pras. Ovvero da un lato l’Europa così com’è, inca­strata dalle poli­ti­che delle lar­ghe intese, e dall’altro l’Europa pos­si­bile, quale potrebbe nascere dalla aper­tura di un vero pro­cesso costi­tuente fon­dato sulla volontà popo­lare. Stare in mezzo non serve.

Si pos­sono anche con­si­de­rare spi­go­lose alcune affer­ma­zioni fatte di recente da Flo­res d’Arcais, inge­ne­rose soprat­tutto verso le realtà di sini­stra d’alternativa pre­senti in Europa al di fuori dei nostri con­fini. Ma non si può non con­di­vi­dere, fino alle sue pra­ti­che con­se­guenze, l’appello pro­ve­niente da più parti — di cui Bar­bara Spi­nelli è stata ed è auto­re­vole por­ta­trice — a costruire una lista di cit­ta­di­nanza, fon­data su un pro­gramma anti­au­ste­rity che pre­veda la pro­fonda modi­fica dei trat­tati e del ruolo della Bce, la can­cel­la­zione del fiscal com­pact, il rie­qui­li­brio tra i paesi del Sud e quelli del Nord, la rine­go­zia­zione e il taglio del debito, la demo­cra­tiz­za­zione dei pro­cessi deci­sio­nali delle isti­tu­zioni euro­pee, e che nasca, senza pre­clu­sioni, ma soprat­tutto attra­verso un pro­cesso par­te­ci­pa­tivo senza accordi tra micro par­titi. Non sarebbe ancora la rispo­sta al vuoto di rap­pre­sen­tanza poli­tica, per cui ci vuole un lavoro teo­rico e pra­tico di ben altra e più lunga lena, ma almeno un passo coe­rente in quella direzione.


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