Letta non ci aggancia al treno della ripresa

Letta non ci aggancia al treno della ripresa

di Roberto Romano – il manifesto

L’analisi. Nel decennio 2003-2013 l’area euro è cresciuta del 10%, mentre l’Italia ha perso un punto. La soluzione? Un bilancio autonomo del 3-5% del Pil Ue, finanziato dall’Iva e dalla web tax

La fine dell’anno si chiude con l’amarezza dell’ennesima occa­sione man­cata. L’uscita dal tun­nel della crisi non si vede. È rima­sto solo il povero Letta a pro­no­sti­care mira­bo­lanti cre­scite eco­no­mi­che del 2% a par­tire dal 2015. Forse comin­cia a matu­rare un qual­che pudore. L’Europa non rie­sce a diven­tare il sog­getto isti­tu­zio­nale e poli­tico capace di ri-assumere i prin­cìpi costi­tu­tivi che l’hanno ispi­rata: Spi­nelli, De Gasperi e, più recen­te­mente, Delors. Si va avanti con accordi che arri­vano sem­pre troppo tardi, oppure che elu­dono il noc­ciolo del pro­blema. Vedremo alle pros­sime ele­zioni euro­pee se i par­titi social­de­mo­cra­tici e di sini­stra (ita­liani) sapranno sug­ge­rire l’unica cosa seria per la soprav­vi­venza della stessa Europa: un bilan­cio pub­blico auto­nomo di almeno il 3–5% del Pil Ue, finan­ziato da una impo­sta euro­pea su di un’ampia base impo­ni­bile (Iva e web tax), ten­tando di asse­gnare alla Bce un ruolo e un com­pito pari a quello della Fed.

La fine dell’anno ci con­se­gna l’ennesima fidu­cia alla legge di sta­bi­lità (inu­tile). Mille rivoli di spesa, di entrata, sot­ter­fugi, qua­dro macroe­co­no­mico com­ple­ta­mente sbal­lato. Imma­gi­nare la cre­scita con degli avanzi pri­mari dell’ordine di 4 punti di Pil, cioè ridu­zione della domanda aggre­gata, è un eser­ci­zio corag­gioso quanto quello di Icaro di avvi­ci­narsi al sole.

Tutti, ma pro­prio tutti, hanno chie­sto al governo di sce­gliere poche cose da fare, e su di esse inve­stire il Paese e il Par­la­mento. In qual­che misura si aveva con­sa­pe­vo­lezza della dif­fi­coltà della situa­zione e, pur all’interno delle strette maglie dei vin­coli euro­pei, si chie­deva solo del sano prag­ma­ti­smo. Appena eletto, il governo di lar­ghe intese, poi di intesa, molti gior­na­li­sti si sono spinti a vedere la demo­cra­zia cri­stiana. Forse, ma Letta non avrebbe mai fatto parte della sini­stra DC di Donat-Cattin, Mar­ti­naz­zoli. Le sue policy , l’incapacità di sce­gliere, dire tutto e il con­tra­rio di tutto, lo avvi­cina molto di più alla demo­cra­zia cri­stiana dorotea.

Sen­tire Con­fin­du­stria soste­nere che l’Italia è stata inve­stita da una guerra non è strano. Fa cla­more che non l’abbia detto prima. I sin­da­cati erano arri­vati prima, in par­ti­co­lare la Cgil con l’istituzione di un forum di eco­no­mi­sti di oltre 200 per­sone che ha rea­liz­zato il libro bianco per il lavoro. Avendo con­corso alla ste­sura del libro bianco, posso ben dire che l’idea di cosa fare c’è. La poli­tica pensa ad altro: leo­polde, web demo­cracy , glo­cale ed altre stupidate.

Pochi lo ricor­dano, ma l’Italia ha accu­mu­lato un gap di cre­scita eco­no­mica rispetto all’Europa impres­sio­nante. Non sto par­lando della crisi inter­ve­nuta nel 2007 che ha bru­ciato 8 punti di Pil, ma del fatto che il nostro Paese cre­sce strut­tu­ral­mente meno dell’Europa. Que­sto è il punto cen­trale della crisi. Per dare conto della pro­fon­dità dell’arretratezza dell’Italia rispetto all’Europa, basta ricor­dare che tra il 2003 e il 2013 l’area euro è cre­scita del 10%, men­tre l’Italia ha con­tratto il pro­prio Pil di un punto.

Con­fin­du­stria ini­zia la sua ana­lisi dal 2007 per evi­denti inte­ressi, ma il ritardo dell’Italia affonda nella despe­cia­liz­za­zione della strut­tura pro­dut­tiva, costrin­gendo il paese ai mar­gini del capi­tale euro­peo. Diver­sa­mente non sarebbe spie­ga­bile il gap di pro­du­zione indu­striale dalla Ger­ma­nia di ben oltre 20 punti, che diventa ancor più grave se con­si­de­riamo i beni stru­men­tali, che sfiora il 30%. In altre parole, l’industria ita­liana è stata inve­stita dalla crisi ben prima della crisi eco­no­mica internazionale.

L’effetto è quello di un pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento a cui poco ha potuto il bilan­cio pub­blico. La ridu­zione del Pil pro­ca­pite dell’Italia tra il 2001 e il 2012 è pari al 16,8%, con­tro una media euro­pea del 3,6%. La Gre­cia, con tutto quello che è capi­tato, ha visto ridurre il suo Pil pro­ca­pite del 13,8%. Quindi l’Italia è seduta sulle mace­rie di una crisi di strut­tura che non ha pari tra i paesi euro­pei. Sicu­ra­mente si poteva fare molto di più con la fisca­lità gene­rale, ma alla fine non più di tanto: se il paese non cre­sce, non c’è red­dito da tas­sare e distri­buire. Il pareg­gio di bilan­cio riven­di­cato come un «grande obbiet­tivo» da Letta è bef­fardo, per­ché nasconde la matrice della crisi: l’economia ita­liana da troppo tempo non è più una eco­no­mia euro­pea. Per un po’, via pri­va­tiz­za­zioni, ha bene­fi­ciato delle ren­dite, ma con le ren­dite non si accu­mula reddito.

L’effetto è deva­stante: un tasso di disoc­cu­pa­zione reale del 22%, cioè 6 milioni di per­sone in cerca di lavoro. A que­ste con­di­zioni è «comico» il dibat­tito sulla disoc­cu­pa­zione gio­va­nile. Al netto della «stu­pi­dità» della riforma For­nero su pre­vi­denza e mer­cato del lavoro, il dramma dei gio­vani ita­liani è per­sino più serio degli effetti della legge For­nero: la domanda di lavoro delle imprese ita­liane è qua­li­ta­ti­va­mente troppo bassa rispetto alla for­ma­zione dei nostri ragazzi. Se impor­tiamo tutta la tec­no­lo­gia, cosa ne fac­ciamo dei gio­vani che for­miamo? Nulla.

Per que­sto sarebbe di grande uti­lità com­bi­nare poli­tica eco­no­mica (indu­striale) e sociale (riforma dello stato sociale), ma è una sfida che neces­sita di un punto fermo. Mi per­metto di ripren­dere un appunto sui libe­ri­sti del mio mae­stro S. Fer­rari, alunno di Ric­cardo Lom­bardi e già vice diret­tore dell’Enea: dob­biamo rico­no­scere che la società in cui viviamo, rap­pre­senta un risul­tato della vostra pre­mi­nenza plu­ri­de­cen­nale sul piano delle poli­ti­che eco­no­mi­che, cul­tu­rali e sociali; avete ampliato l’appartenenza al ceto pro­le­ta­rio di quelli che una volta erano il così detto ceto medio, nel senso che viveva secondo modelli imi­ta­tivi del ceto abbiente.

Men­tre nei decenni pre­ce­denti una cul­tura pro­gres­si­sta era riu­scita a por­tare la classe ope­raia a rag­giun­gere livelli di vita con­fron­ta­bili con quelli della classe media, ora abbiamo con­se­guito un risul­tato oppo­sto. Non solo sul piano eco­no­mico, ma anche in mate­ria di dignità e diritti. Non abbiamo la pre­tesa di avere la verità in tasca; sap­piamo anche che sul fronte pro­gres­si­sta sono stati com­piuti molti errori. Molti di noi stanno riflet­tendo per evi­tare di ripe­terli, ela­bo­rando per­corsi coe­renti con i valori di giu­sti­zia, libertà ed egua­glianza che ci uniscono.

A que­sto punto, assi­cu­ran­dovi la mas­sima com­pren­sione e il pieno rispetto umano, sen­tiamo tut­ta­via l’obbligo di chie­dere una vostra dispo­ni­bi­lità a riti­rarvi in rifles­sione e lasciare, almeno per ora, il campo delle respon­sa­bi­lità poli­ti­che. Se in que­sta nuova fun­zione rite­nete di avere biso­gno di sup­porti, di scambi e di con­fronti, siamo ovvia­mente pie­na­mente dispo­ni­bili.
Un modo per dire che il pro­blema non è solo nostro.


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