“Ecco perché il welfare è una risorsa per la ripresa economica”. Intervista ad Angelo Marano

“Ecco perché il welfare è una risorsa per la ripresa economica”. Intervista ad Angelo Marano

controlacrisi.org - 

Welfare e diritti. La crisi economica potrebbe rappresentare un occasione di valorizzazione, mentre invece la logica dei tagli sta producendo dei veri e propri paradossi….
Mi ha colpito che il ministro Cancellieri dica facciamo il piano carceri privilegiando l’affidamento ai servizi sociali. O ancora, che il rafforzamento ventilato della Social card, affiderebbe ai servizi sociali il compito di seguire costantemente e dare priorità alle famiglie assistite. Si tratta di elementi apparentemente positivi (alternativa alla detenzione, possibilità, per esempio, di ridurre la dispersione scolastica legata alle difficoltà famigliari), ma a me sembra che si stiano scaricando sui servizi sociali prestazioni aggiuntive senza dar loro le risorse per farlo realmente, né in termini finanziari né in termini di risorse umane. Tutto questo va a puntare sul fatto che abbiamo un sistema di welfare, soprattutto per quanto riguarda i servizi sociali, assolutamente non sviluppato. Non siamo riusciti a capire che tale sistema non è un settore residuale ma parte costitutiva della nostra società e dei relativi diritti. Anche per quanto riguarda la sfera economica, la visione che continuiamo ad avere, ma ormai siamo fra i pochi al mondo, è quello di un sistema di welfare che non serve all’economia. Ma così non è, peraltro l’aveva detto fin dal 2000 l’Unione europea a proposito del modello sociale europeo che genera, non ostacola la crescita. Da questo punto di vista ci sono almeno tre aspetti da evidenziare.

Quali sono questi tre aspetti?
Il caso più banale è quello degli asili nido attraverso i quali, di fatto, viene aumenta la flessibilità del mercato del lavoro e la dotazione di risorse umane incidendo sul tasso di attività e il tasso disoccupazione. Se una mamma può disporre di un asilo nido è chiaro che rientra al lavoro prima.

E poi…
Dopo di che ci sono altri aspetti che mettono in evidenza addirittura la funzionalità diretta del welfare nella crescita economica. Il welfare ti permette di avere un atterraggio morbido dopo aver affrontato un rischio. In un mondo in cui tutti dicono che bisogna osare e investire in progetti innovativi e che bisogna buttarsi ad avere una istruzione adeguata ti dà la rete di protezione. Quanto più ce l’hai, tanto più sei sicuro che non andrai completamente a picco se le cose non vanno come sperato, tanto più permetti l’innovazione e il rischio che sono alla base della crescita economica. Tutta la tendenza del nostro welfare è invece a trasferire i rischi dalla collettività al singolo individuo che è il contrario di quanto la teoria economica dice di fare. Perché l’economia insegna che la condivisione dei rischi, l’assicurazione sociale, evitando che chi cade sia perso, migliora l’efficienza economica e permette di evitare la disgregazione della comunità e la perdita del capitale, innanzitutto umano. Quando, invece, l’impresa collega i salari al risultato dell’impresa, o pretende licenziamenti legati al loro andamento, sta scaricando il rischio imprenditoriale sui singoli lavoratori e sulle famiglie; idem, quando l’operatore pubblico lega l’ammontare delle pensioni all’andamento demografico, dei tassi di interesse e del Pil. Il terzo punto che voglio evidenziare è che il settore dei servizi sociali in questo momento sta svolgendo un ruolo in parte di sostituzione del pubblico in parte di fornitura pubblica esternalizzata, occupando un numero elevatissimo di persone con cifre che, considerando anche le cosiddette “badanti” (i 2/3 del totale) è largamente superiore al milione. Questo settore è un settore assolutamente dimenticato quando si parla di economia. Non è un settore tutelato perché tipicamente i servizi sociali vengono serviti in chiave privata o appaltati dai comuni e svolta da società private e coop sociali. Tipicamente sono lavori poco tutelati con scarsa capacità di far valere le elevatissime capacità che pure ci sono.

Questo quadro non è stato nemmeno preso in considerazione dai vari governi…
I tagli ai trasferimenti ai comuni e alle regioni che si sono verificati negli ultimi anni, sia quelli generali che quelli ai fondi sociali, costringono i comuni a ridurre drasticamente i servizi sociali offerti. Chiaramente i comuni non possono licenziare la struttura amministrativa e quindi i tagli si scaricano interamente sugli appalti e sui servizi all’utenza. La struttura amministrativa non si può tagliare e quindi si interviene sui servizi. Questo con il risultato che tu hai un settore che occupa parecchie persone, rilevante ma poco riconosciuto e protetto, dove domina la precarietà e dal quale appena possono gli addetti fuggono, con la conseguente perdita per l’intero sistema economico del capitale umano e delle professionalità acquisite.

Nel concreto cosa sta accadendo?
I fondi per le politiche sociali si stanno riducendo drasticamente. Qualche miglioramento nell’anno c’è ma non nella programmazione. Il risultato di tutto questo è che non si riesce a garantire il principio costituzionale definendo i livelli essenziali in ambito sociale, come previsto dall’articolo 117 Costituzione e dalla legge 328. Siccome i livelli essenziali costituirebbero diritti esigibili che devono essere finanziati, con le risorse disponibili non si sono voluti individuare. In assenza dei livelli essenziali, ogni sistema di welfare regionale e comunale è andato per conto proprio, a seconda delle proprie sensibilità e possibilità. In Calabria c’è praticamente solo il sostegno alle case di riposo, in Emilia l’intervento è ben più sviluppato e articolato. Con il federalismo si sarebbe dovuto fare un passo avanti. Il problema è che di nuovo se non metti risorse aggiuntive nel welfare, al massimo tutto si traduce in ricentralizzazione (se imponi a tutte le amministrazioni obiettivi di servizio omogenei) non nello sviluppo del sistema. Le risorse messe dal Governo sono poche e non si riesce a invertire il trend di riduzione fortissima che c’è stato negli ultimi anni, dal 2008 con il governo Berlusconi. Soprattutto non mi sembra che ci sia la sensibilità sul fatto che bisogna dare certezza alle risorse. Tutti i fondi per le politiche sociali vengono rifinanziati anno per anno. Non si riesce a far capire che ci deve essere continuità e certezza nelle risorse disponibili. La sensazione è che appena la pressione dei cittadini cala arrivano i tagli perché quelle risorse vengono considerate come sottrazione di risorse che andrebbero destinate a fini sempre “ben più importanti” delle prestazioni sociali.

A livello europeo cosa si muove?
La tendenza a livello europeo non è univoca. Da una parte, con il raggiungimento da parte della Carta europea dei diritti fondamentali addirittura di uno status simile ai trattati, si aprirebbe ad un riconoscimento non generico dei diritti sociali, che potrebbe riempirsi di contenuti specifici; da questo punto di vista lo status dei diritti sociali è cresciuto enormemente. D’altra parte in Europa finora ha prevalso brutalmente la visione dei ministri delle finanze nell’Ecofin e della relativa direzione generale della Commissione europea, Ecfin. Sono quelli che hanno imposto da Maastricht al patto di stabilità al six pack, alle norme sul pareggio di bilancio. Domina una visione fortemente iperliberista del sistema economico e una visione completamente negativa dell’intervento pubblico e del welfare. E’ una idea peraltro minoritaria in ambito economico quella che dice che se tagli il welfare l’economia fa boom. Si considera il ruolo pubblico completamente passivo e si ritiene che se un paese è forte nel risanamento, allora migliorano le aspettative, guadagni in credibilità e si investe di più. Ma alla fine se non ci sono più le condizioni per le prospettive di sviluppo la credibilità da sola non serve a niente e non bastano a risollevarla i tagli in bilancio. Dunque se in Europa c’è una certa dialettica, le posizioni dominanti però dicono che dobbiamo concentrare tutto sulle prospettive di crescita di breve periodo, che considerano le spese per il welfare non funzionali alla crescita e dunque da tagliare il più possibile; al limite vengono fatte concessione per la lotta alla povertà, che non a caso rimane fra gli obiettivi prioritari europei.

Se da una parte viene professato questo, dall’altra però il welfare privatizzato fa gola a molti
C’è una situazione ancora ambigua. Le pressioni sono fortissime, ma d’altra parte la situazione italiana è tale da costituire ancora una certa protezione degli istituti del welfare pubblico di cui disponiamo, la scuola, le pensioni, la sanità. La scuola pubblica, per quanto in grossissima difficoltà, ancora mantiene un livello qualitativo elevato, anche per l’eroismo di studenti e professori, laddove spesso l’istruzione privata non è altrettanto buona. Per quanto riguarda le pensioni c’è stata una fortissima lobby in favore della privatizzazione ma di fatto sono venute a mancare le risorse e i lavoratori, che hanno ben capito i rischi e che rischiavano il proprio tfr, si sono dimostrati cauti e in molti hanno detto no grazie. Del resto, Keynes ha evidenziato chiaramente che la peggiore politica economica, quando l’economia va male, è costringere la gente a risparmiare di più, laddove dovresti aumentare la domanda. Nella sanità c’è stata una fortissima lobby nei decenni scorsi per cercare di trasformare la sanità in business peraltro finanziata dal pubblico, una politica esplicitamente perseguita, prima degli altri, nella Lombardia di Formigoni, con l’equiparazione di strutture pubbliche e private. Di fronte ai tagli della spesa sanitaria però, oggi non è che il privato sia messo così bene, e le strutture private in difficoltà sono parecchie. Sta peggiorando il pubblico ma anche il privato. Certo, qualcuno che punta a far saltare il sistema sanitario pubblico c’è, ma tale posizione è largamente minoritaria. Piuttosto, si punta a sistemi integrati pubblico privato, si cerca di rivitalizzare le vecchi mutue. Si punta ad un modello di assistenza pubblica tendenzialmente di basso livello e per il resto privatizzato. Ma anche qui le resistenze sono tante, a partire da quelle di molti operatori nel settore sanitario pubblico, che difendono la qualità del loro lavoro. Nei servizi sociali, infine, da un lato prevale la fornitura privata di servizi su committenza pubblica, dall’altro iIl caso delle badanti è il tipico caso di fornitura privata per un servizio che andrebbe garantito, almeno per una percentuale elevata, dal pubblico. Invece, essendo il sistema basato sulla fornitura privata, si è dovuto prevedere a finanziarla con una prestazione in denaro quale l’indennità di accompagnamento, che nel 2009 valeva da sola 12 miliardi di spesa pubblica, quattro volte la spesa per le pensioni di invalidità civile.


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