
Intervista a Oggionni: “Rifondazione deve riscoprire una cultura dell’egemonia contro i rischi del minoritarismo”
Pubblicato il 14 ott 2013
di Vittorio Bonanni – liberazione.it – Simone Oggionni, portavoce nazionale dei Giovani comunisti, chiede un ricambio radicale del gruppo dirigente e la riscoperta di una politica che guardi senza reticenze a tutto ciò che si muove nella società e nei partiti.
Simone Oggionni è il portavoce nazionale dei Giovani comunisti, oltre che essere membro del Cpn e della Direzione nazionale di Rifondazione comunista. Lo abbiamo intervistato dopo un comitato politico nazionale un po’ burrascoso per capire qual è lo stato delle cose nel partito, innanzitutto sui temi dirimenti che lui e altri compagni (trasversalmente alle tradizionali componenti) hanno posto attraverso la presentazione di due emendamenti al documento di maggioranza: il rinnovo di chi guida il partito ed una linea politica diversa, che metta fine ad un arroccamento che rischia di relegare definitivamente il partito in un angolo. «Dopo l’ultima sconfitta elettorale – dice Oggionni – abbiamo ritenuto giusto e necessario chiedere e segnalare un cambio di passo. Le dimissioni del gruppo dirigente, a partire dal Segretario, ci sembravano un atto dovuto, normale e coerente con la gravità della condizione che si era determinata. Purtroppo le reazioni che abbiamo registrato in questi mesi ci hanno sorpreso: questa chiusura a riccio ci è parsa stonata, anche perché ha tradito una grande presunzione e una scarsissima fiducia nelle capacità di autorigenerazione del partito. Nell’ultimo Cpn gli emendamenti hanno puntualizzato le due questioni intorno a cui è possibile concretizzare questa svolta. Ai compagni che sostengono che siamo interessati ad una resa dei conti e che agitiamo capri espiatori, rispondiamo che si sbagliano. Basta leggere i due emendamenti. Proprio in quanto chiediamo una svolta politica proponiamo un nuovo gruppo dirigente in grado di interpretarla».
Sul ricambio del gruppo dirigente il discorso è chiaro. Invece diciamo due parole sulla linea politica. Le cose che dicono Ferrero e Grassi non sembrano, forse ad un primo sguardo superficiale, così diverse. Né riguardo alle alleanze, difficili da realizzarsi per chiunque, né riguardo all’Europa e al fatto che dobbiamo guardare con interesse e spirito di emulazione a quanto succede nella sinistra d’alternativa degli altri Paesi europei. E quand’anche ci fossero delle differenze, dovrebbe essere un po’ obbligatorio arrivare ad una sintesi. Viceversa, non oso pensare a nuove scissioni meritevoli di attenzione da parte dei fisici questa volta piuttosto che degli analisti politici.
Io penso che vi siano tre diversi problemi. Il primo riguarda l’atteggiamento complessivo e ha a che fare, per molti versi, con le nostre diverse culture politiche. Noi proponiamo di rifuggire qualsiasi tentazione minoritaria, qualsiasi atteggiamento che si limiti a rivendicare rivendichi la propria testimonianza e assuma come un mantra la semplice denuncia dei limiti e degli errori altrui. Dobbiamo viceversa ambire a costruire un consenso, inseguire un progetto di egemonia, dobbiamo costruire e scavare dentro le contraddizioni, dentro le incrinature, avendo sempre come obiettivo la costruzione di un soggetto che abbia una massa critica e un consenso significativi. Il secondo problema riguarda la coerenza tra quello che si dice e ciò che si fa. In questi anni abbiamo sofferto questo problema, patendo la discrepanza tra quello che si diceva (i grandi appelli all’unità, la disponibilità, l’autocritica in tutte le sedi) e ciò che si faceva immediatamente dopo. Come si fa a chiedere “unità” e poi, subito dopo, chiudere le porte, lanciandosi in giudizi definitivi sui soggetti con cui quell’unità andrebbe costruita che non lasciano spazio ad alcuna mediazione, ad alcuna sintesi? Con chi si ritiene subalterno ad un Pd subalterno alle banche, come si fa a costruire una lista elettorale comune? E come si fa a fare alleanze politiche anche in importanti Regioni con partiti e coalizioni che nazionalmente si considerano amici dei padroni e responsabili delle peggiori nefandezze? Mi riferisco precisamente al rapporto con Sel, al rapporto con la Cgil – un grande sindacato che andrebbe sollecitato e non deriso – e addirittura al rapporto con la Fiom. Per noi queste realtà sono interlocutori essenziali, come essenziale è ricostruire un riferimento unitario per quel popolo della sinistra che oggi abita diverse case o, sempre più spesso, non ne abita più alcuna. Il terzo ordine di questioni riguarda la disponibilità, reale, a mettere Rifondazione Comunista a disposizione di un processo unitario. Calibro le parole: mettere il partito a disposizione di un processo del quale, come è evidente, non siamo né possiamo essere gli unici protagonisti. Io temo che in una parte del partito sopravvivano riflessi condizionati all’autoconservazione e penso che questi siano molto dannosi. Dovremmo invece dire con coraggio che vogliamo fare esattamente come in tutto il resto d’Europa, dove i partiti comunisti e le forze della sinistra d’alternativa hanno mantenuto il proprio consenso e in molte occasioni lo hanno incrementato proprio perché si sono messe a disposizione, con grande umiltà, scendendo dai propri pulpiti. E all’obiezione che ci viene fatta secondo la quale nessuno in Italia sarebbe disponibile, io rispondo così: in primo luogo dipende da chi avanza la proposta (per una ragione complessiva di credibilità, che in politica è fondamentale), e in secondo luogo dico che dobbiamo investire senza riserve o reticenze su di uno spazio ed un progetto. E anche su bisogni oggettivi che vivono nella società italiana e che oggi non hanno rappresentanza. Vorrei sapere se tutti siamo d’accordo, oppure no, sul fatto che in Italia sia indispensabile ricostruire, qui ed ora, una soggettività politica che risponda esattamente alla domanda di rappresentanza che la Fiom-Cgil in questi mesi ha drammaticamente messo sotto gli occhi di tutti, parlando – io credo – a nome di diversi milioni di lavoratori. E che serva una soggettività politica che rappresenti il lavoro, perché la lotta di classe in questo Paese le classi dominanti la continuano a fare e le nostre organizzazioni, nessuna esclusa, non sono minimamente attrezzate a rispondervi. Io non credo che su questo siamo tutti, sino in fondo, d’accordo, altrimenti lo avremmo già fatto o avremmo quanto meno in questi mesi ed anni provato a lavorare in quella direzione.
Speri tuttavia che si possa arrivare ad una sintesi l’8 dicembre a Perugia? Io la ritengo necessaria e doverosa.
Certamente. Però la sintesi la vogliamo fare riconciliandoci con territori che hanno in questi anni subito passivamente troppe scelte e troppe alchimie di vertice. Con il partito, non con pezzi di questo vertice, i cui risultati sono plasticamente rappresentati dai numeri. E non parlo soltanto degli ultimi cinque anni, seppure questi siano stati particolarmente dolorosi. Parlo complessivamente di un bilancio che bisogna iniziare a fare degli errori e dei fallimenti degli ultimi vent’anni, durante i quali si è dilapidato un patrimonio enorme, distruggendo pezzo dopo pezzo il più grande partito comunista d’Occidente. Quando parliamo di rinnovamento diciamo anche questo: che bisogna riprendere un cammino, ridare protagonismo al nostro popolo – in particolare ai nostri iscritti e militanti – e che per farlo bisogna introdurre cesure, elementi di discontinuità. Per esempio che non ci interessano i capri espiatori e neppure contrapporre ad essi nuovi capi, più o meno carismatici. Crediamo invece che sia urgente investire collettivamente in un nuovo gruppo dirigente, che può essere formato dai molti che in questi anni hanno diretto il partito nei territori, sovente malgrado il partito nazionale.
Dopo la riuscita della manifestazione del 12 ottobre che cosa succederà? Maurizio Landini continuerà a fare appelli che rischiano il più delle volte di cadere nel vuoto? C’è bisogno, e lo dico riferendomi al segretario della Fiom, di un suo maggiore impegno politico, oppure dobbiamo noi raccogliere le sue sollecitazioni sperando di coinvolgere uno schieramento di forze sempre più ampio ma che per il momento non c’è?
Noi vogliamo stare dentro un processo che non dipende solo da noi. La piazza del 12 ottobre, bella, grande, festosa e combattiva, segnala e definisce uno spazio che è esattamente quello che dovremmo riempire. Maurizio Landini è il segretario generale della Fiom ed è giusto che non lo si tiri per la giacca. Va apprezzato il suo impegno, non scontato, nell’aprire questo campo, nel porre un problema di prima grandezza che – lo ripeto – per me è la questione cruciale di questa fase nel nostro Paese. Assunto questo spazio come luogo strategico della propria iniziativa, ognuno poi dovrà decidere cosa fare. Non dobbiamo aspettare sempre il papa straniero. Mettiamoci noi in cammino. Sono convinto che quello che faremo nelle prossime settimane potrà stimolare anche altri soggetti, i quali – è chiaro – hanno le loro precise responsabilità. Ma dipende anche da noi: per esempio, se Sinistra Ecologia e Libertà non sarà davvero, sinceramente e credibilmente, sfidata sul terreno unitario, temo non abbandonerà mai la linea politica assunta in questi anni. E anche nel Pd è tempo che le voci di chi non vuole morire nelle larghe intese o nella prospettiva neo-democristiana di Renzi si facciano sentire più coraggiose. Con intelligenza, potremmo lavorare anche lì, non per farci risucchiare in quel vortice, ma per provare noi a disarticolare, a sollecitare, a trovare momenti di confronto.
Che cosa pensi di “Rossa”, una componente che pur ponendo dei problemi sacrosanti sembra essere ancora più lontano dal contesto che tu hai descritto?
Sono risorse anche quelle. È chiaro che bisogna poi guardare al consenso e anche alle ambizioni di ogni soggetto. Lo spazio che va costruito deve essere di massa, di popolo. Deve poter credibilmente rappresentare la pluralità e l’estensione del conflitto tra lavoro e capitale. A me interessano meno le avanguardie che si autoproclamano tali e che, per natura, hanno il bisogno di salire in cattedra. Interessano invece molto di più i corpi sociali che si mettono in cammino dentro progetti politici che hanno, o possono avere, una massa critica significativa. Per questo motivo, tornando a noi, vorrei che finalmente Rifondazione spezzasse questo isolamento. E non in nome di un’altra identità, di altri simboli. Anzi: proprio soltanto nella misura in cui si è forti e anche orgogliosi della propria identità ci si può mettere a disposizione di un processo politico di vero rinnovamento e di vera apertura. È proprio il contrario di quel che talvolta ci viene imputato. Proprio perché siamo comunisti e abbiamo le radici ben piantate nella nostra storia, non abbiamo paura di metterci in gioco. E proprio nella misura in cui riconosciamo un grande debito di riconoscenza nei confronti della Storia che ci sta alle spalle, possiamo con credibilità proporre di proseguirla, di guardare avanti. E la spinta naturale all’innovazione è nelle pagine più belle della nostra Storia. A quelle guardiamo.
Simone, qualora non si arrivasse ad una mediazione e vincesse Ferrero che succederà?
Non possiedo il dono della preveggenza ma so, per quel che riguarda me e i compagni che conosco, che questo è il momento di battersi per invertire una tendenza al disimpegno che ha assunto in questi anni e in questi ultimi mesi proporzioni significative. È il momento di salvare il partito dalla consunzione e su questo concentriamo tutta la nostra attenzione. Facciamo un congresso per dire che soltanto se si cambia Rifondazione comunista può rimettersi in cammino. Chi volesse riproporre soluzioni già sperimentate deve sapere, semplicemente, che precluderebbe questa possibilità.
Tra l’altro nessuno scenario è immutabile…
Nessuno scenario è immutabile e lo è ancora meno se si forza l’elemento soggettivo, scegliendo di cambiare. Ma anche fotografandolo nei suoi tratti oggettivi e di fondo, io penso che esso non assuma meccanicamente i tratti della sconfitta. Perché altrimenti non si spiegherebbe come in Grecia, per fare solo un esempio, diversi partiti e associazioni mediamente piccole, se non piccolissime, decidono di fare prima una coalizione che li unisce, di promuovere un gruppo dirigente nuovo e credibile, di presentarsi alle elezioni con un programma chiaro e con una grande ambizione a sfidare i socialisti sul terreno del governo e poi di fare un partito unico e questo partito diventa la seconda forza politica del Paese e, forse, alle prossime elezioni, addirittura la prima. Con un programma che è – lo voglio dire – molto simile al nostro. E se vogliamo parlare di contenuti e anche un po’ di Europa, un tema che aleggia sottotraccia nelle nostre discussioni, bene: invito a leggere i documenti politici di Syriza e le frequenti dichiarazioni di Alexis Tzipras sull’Europa. C’è in essi una radicale opposizione ai trattati e al loro carattere neo-liberista e, insieme, un forte impianto europeista che rifiuta la parola d’ordine dell’uscita unilaterale dall’Ue o del ritorno unilaterale alle monete nazionali. Quello greco è un caso di scuola. Ma potremmo parlare anche della Spagna, del Portogallo e finanche di Francia e Germania.
Non mi sembra però che Ferrero abbia mai detto di uscire dall’euro, posizione che non condivido ma che non demonizzo….
Ci mancherebbe altro! Ma si continuano ad inseguire suggestioni catastrofiste e a fare corrispondere ad esse proposte vaghe, oppure poco credibili. Quanto più siamo piccoli, tanto più rafforziamo la retorica delle nostre parole d’ordine. Cos’è la disobbedienza unilaterale dai trattati? Non sarebbe più serio proporre, come fa la stragrande maggioranza delle forze della Sinistra Europea, una strategia di accumulazione di forze che consenta di modificare i trattati, di eliminare – su scala europea – i vincoli odiosi imposti dal monetarismo? O davvero pensiamo che questi trattati siano caduti dal cielo e non rispecchino invece precisi rapporti di forza e interessi di classe che dobbiamo, con la politica, provare a rovesciare? E perché, ancora, l’Europa non dovrebbe essere più il terreno su cui porre la sfida di una nuova Sinistra, di una costruzione politica alternativa, che faccia perno su una nuova pianificazione economica, su una nuova Costituzione europea votata dai popoli? Davvero la crisi ci ha ridotti a guardare alle nostre piccole patrie? A pensare che ci si può, anzi: ci si deve, salvare da soli?
Per finire, ho visto dopo la sconfitta e per le ragioni che tu hai ben descritto un clima non sereno in viale del Policlinico. Riuscirete ad andare oltre?
Sì, sono certo che riusciremo ad andare oltre.
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