
Salario minimo, se l’Europa cambia rotta
Pubblicato il 9 feb 2013
di Fausto Durante*
Merita grande attenzione la proposta di Jean-Claude Juncker, per quanto espressa in maniera ancora generica nel suo discorso di commiato dall’incarico di presidente dell’Eurogruppo, volta a definire, come risposta all’emergenza economica e sociale che attanaglia l’Europa, “un livello comune di salario minimo nell’area euro”. Un’affermazione che testimonia, a maggior ragione perché fatta da uno dei principali decisori della scena europea, una verità sin qui negata dai custodi dell’ortodossia liberista. E cioè che è fallita la ricetta che prescriveva la compressione delle dinamiche salariali, i bassi livelli retributivi per e nuove assunzioni, la riduzione forzata dei salari nei paesi oggetto delle cure della “troika”.
Anziché produrre risultati utili per la tenuta del sistema e per la ripresa dalla crisi, quella “cura” ha determinato impoverimento, caduta dei consumi, tendenza allo scivolamento verso la povertà (pur disponendo di un’occupazione), nuove divaricazioni nei luoghi di lavoro e fuori da essi quanto a reddito disponibile a fronte di equivalenti prestazioni professionali. Si capisce, quindi, l’importanza di una riflessione critica sulle scelte sin qui adottate e di una discussione su come introdurre elementi di riequilibrio e di maggiore equità. Tuttavia, la proposta di un meccanismo comune ai diversi paesi dell’euro per definire un salario minimo, se da un lato conferma l’esistenza del problema, dall’altro – se non meglio specificata – rischia di non essere utile a risolverlo o, addirittura, di aggravarlo. Provo a spiegare il perché.
Il salario minimo non è un istituto presente in modo omogeneo nell’Eurozona. Non c’è in Italia, dove il salario viene definito nei contratti nazionali (per quanto sia aperto, specie dopo la rottura sui modelli contrattuali e l’esplosione del lavoro precario, il tema dell’effettiva esigibilità e applicazione dei contratti e dei diritti retributivi lì stabiliti). Non c’è nei paesi scandinavi, dove viene visto come un pericolo per l’autonomia del potere negoziale dei soggetti che svolgono la contrattazione. Per la stessa ragione non c’è in Germania, dove però – dopo le riforme del lavoro e il pacchetto Hartz – l’introduzione dei cosiddetti minijobs ha creato un’area crescente di lavoro a basso costo e ha determinato effetti pesanti sul rapporto tra lavoro e salario, solo parzialmente mitigati dall’intervento del generoso welfare tedesco a favore dei lavoratori coinvolti.
Ma anche nei paesi in cui il salario minimo esiste, esso presenta caratteristiche di composizione e modalità di determinazione profondamente diverse. Vi sono paesi in cui il salario minimo viene definito con una trattativa condotta esclusivamente tra sindacati e datori di lavoro, come avviene in Austria, altri in cui esso viene deciso con un confronto a carattere vincolante tra il governo e le rappresentanze sociali e con un accordo, che può essere rafforzato attraverso un provvedimento legislativo, come accade in Belgio, in Lussemburgo, in Olanda, in Slovenia, in Ungheria, in Estonia (e come accadeva anche in Grecia, prima dei recenti drammatici sviluppi). Vi sono anche paesi in cui il confronto tripartito può avvenire pur non essendo obbligatorio, come la Bulgaria, la Spagna, la Lettonia, la Polonia, la Romania.
Così come in altri paesi è il governo a poter decidere il valore del salario minimo, senza essere legato a vincoli predeterminati (a cominciare dall’inflazione), né formalmente obbligato al confronto con le parti sociali: è il caso della Repubblica Ceca, della Francia, della Lituania, del Portogallo, della Slovacchia. E, infine, vi sono situazioni, come quelle della Gran Bretagna o dell’Irlanda, dove il salario minimo può essere fissato anche dai giudici o da collegi arbitrali. Come si vede, vi sono differenti modalità di stabilire il valore del salario minimo, a cui corrispondono idee diverse sulle finalità dello strumento. Nei casi virtuosi (su tutti, l’esempio del Benelux), esso è una soglia ragionevole – in rapporto alla dinamica del costo della vita e alle condizioni economiche concrete di un paese –, sotto la quale non si scende, per retribuire una qualsivoglia attività lavorativa, rappresentando in questo modo un riferimento positivo della regolazione tra prestazione professionale e salario.
Nei casi meno virtuosi, per usare un eufemismo, il salario minimo costituisce una barriera per il libero dispiegarsi dell’attività contrattuale e, pertanto, dell’autonomia delle parti trattanti, oltre che un riferimento “al ribasso” per ambiti contrattuali aziendali o di settore. Per non parlare delle situazioni in cui esso viene adoperato come vero e proprio strumento di dumping e di competizione sleale rispetto ad aree economiche vicine o concorrenti. Ecco, Juncker non ci ha detto quale idea ha del salario minimo, quale finalità avrebbe, nel suo ragionamento, un livello europeo comune di salario minimo. Né ci ha detto quale modello prenderebbe a riferimento, per determinare modalità e quantità economica di un ipotetico salario minimo europeo. Non ci ha detto se guarda ai circa 1.800 euro del suo Lussemburgo, ai 1.526 del Belgio, ai 1.451 dell’Olanda, ai 1.430 della Francia. Oppure se pensa ai 327 euro della Slovacchia, ai 485 del Portogallo o ai 642 della Spagna. Ovviamente, non è solo questione di numeri, che pure sono molto importanti, visto che stiamo parlando di salario. Né si tratta di fare confronti tra aree economiche e paesi con differenti situazioni e contesti. No, il punto è quale idea si ha delle politiche salariali, dei modelli contrattuali, del valore del lavoro, del rapporto con i sindacati. Juncker conosce bene gli orientamenti della Commissione europea al riguardo. Sono, fino a prova contraria, gli stessi che sono stati attuati finora e che hanno portato il lavoro alla sua attuale condizione di svalorizzazione e di perdita di dignità e diritti. Sono quegli stessi orientamenti che stanno portando Barroso e soci ad avviare un’iniziativa su scala europea per mettere “sotto controllo” la dinamica della formazione dei salari negli Stati membri, cancellando ogni forma di automatismo (ivi compresi gli adeguamenti dei salari all’inflazione o altre modalità automatiche contrattate, per esempio in ragione dell’anzianità di servizio o della produttività nella prestazione).
Temi che non casualmente il professor Monti e alcuni dei suoi tecnici, molto sensibili alle sollecitazioni europee, hanno sollevato anche nella discussione in casa nostra a proposito del ruolo dell’Ipca. È chiaro che se il salario minimo europeo si muove dentro questa ottica, questa cornice culturale e politica, la questione è chiusa in partenza. C’è un’altra idea? Se fosse così, credo che dovremmo discuterne, perché ciò significherebbe una discontinuità forte con le scelte europee e nazionali degli ultimi anni. In altre parole, una direzione politica ed economica in Europa di segno finalmente diverso.
* Responsabile Segretariato Europa della Cgil
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