
L’illusione del Pd di una destra “decaimanizzata”
Pubblicato il 5 ago 2013
di Dino Greco – liberazione.it – Nella parte più inquieta del Partito democratico, quella che vive con sofferenza, se non proprio con raccapriccio, la coabitazione governativa con la destra, si fa strada, dopo la fragorosa capitolazione giudiziaria di Berlusconi, il rischio di un’autofrode. Si tratta della speranza che il Pdl non soltanto debba, ma possa affrancarsi dal suo demiurgo, padre e padrone, per trasformarsi in una destra normale, “decaimanizzata”. L’illusione circa una simile metamorfosi è propalata con fervore anche da persone di indubbia caratura intellettuale come Michele Prospero il quale, su l’Unità di sabato si è impegnato in un appassionato appello che difficilmente, tuttavia, incontrerà orecchie ricettive.
L’incipit di Prospero è perentorio: “La continuità del governo – scrive – dipende in fondo dalla fisiologica adozione di una non rinviabile decisione da parte del Pdl, quella di accantonare Berlusconi (…) Se da solo egli non compie gli atti dovuti per un uomo politico sia pure molto sui generis, tocca al partito, ai gruppi parlamentari deporlo da ruoli formali e sostanziali di comando”.
Ora, l’irrealismo di questo auspicio è manifesto. E non occorreva la riprova della grottesca manifestazione di ieri a dimostrarlo. Il Pdl non è un partito, ma una rigida monarchia di impronta feudale, un groviglio di interessi che hanno nel Capo il proprio indivisibile centro di annodamento. La caduta rovinosa del potere monocratico di Berlusconi trascina inesorabilmente con sé tutto il convoglio. Né il Pdl, né Forza Italia, né qualunque altra diavoleria o escogitazione politica potranno sopravvivere se esce di scena l’uomo che l’ha forgiata a sua immagine e somiglianza, selezionando al suo interno un obbediente, decerebrato e spesso impresentabile stuolo di servitori.
Se oggi un rovello turba i pensieri di Berlusconi, questo riguarda il se, il quando, forse il come preparare una successione dinastica, una trasmissione ereditaria, e al tempo stesso patrimoniale del suo potere personale ad altro membro della famiglia.
Eppure Prospero insiste: “Il riconoscimento politico della destra che con il governo Letta è stato compiuto, dovrebbe ora spingere le nuove leve del Pdl ad adottare le risoluzioni indispensabili, le stesse che verrebbero prese in ogni altra democrazia che non tollera dei partiti intesi come succursali padronali”. Ma come fa un’aggregazione che funziona come “un comitato di guerra alle dipendenze di un’azienda e del suo proprietario” a rigenerarsi, taumaturgicamente, come soggetto politico dotato di autonomia politica e culturale? Prospero non ce lo fa capire. Egli formula un auspicio, manifesta un desiderio che cozza però contro lo stato delle cose: “L’obiettivo di una destra che si istituzionalizza e oltrepassa l’irregolare configurazione carismatico-proprietaria non può più essere rinviato”. Ma da quali retrovie dovrebbe mai venire questo impulso trasformativo, questa catarsi capace di tramutare la creatura del caimano in un partito “impersonale” della destra? E chi sarebbero i potenziali protagonisti che dovrebbero incarnare quella che Prospero indica come un’assoluta necessità? Cicchitto? Gasparri? Verdini? Brunetta? Santanché? Bondi? La Russa? Alfano? Carfagna? Gelmini? O chi altro, se gli uomini della periferia – reclutati nel sottobosco degli intrecci opachi fra politica e affari, spesso intrecciati o contigui alla malavita organizzata – sono persino peggio dei loro capataz?
Un lampo attraversa infine la riflessione di Prospero che così conclude: “Se questo cambiamento non interviene, nessuno può ragionevolmente scommettere sulla stabilità politica. Che potrebbe essere persino dannosa in compagnia di una destra che simula l’eversione”. Ma, forse, per il tramite di un ragionamento “per assurdo”, è proprio questo che Prospero tentava di dirci. O no?
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