No al Fiscal compact, si al welfare compact

No al Fiscal compact, si al welfare compact

22 anni. Se stiamo guardando l’età di una donna o un uomo, 22 anni significano fiducia e speranza nel futuro, precarietà permettendo, sulle molte scelte che ancora si possono fare, considerando che attualmente l’aspettativa di esistenza nei paesi occidentali si aggira attorno agli 80 anni di vita. Ma se stiamo guardando i dati della produzione industriale che ci dicono che oggi i volumi prodotti sono quelli di 22 anni fa, ovvero il livello registrato nel 1990, allora la percezione cambia: è la fotografia di una incapacità di risposta alle crisi e ai mutamenti globali.

Le cifre diffuse dall’Istat indicano un calo del 6,7% della produzione industriale media del 2012. E questo dato giunge al termine di una settimana dove già avevamo potuto osservare il Presidente della Corte dei Conti parlare di recessione, iniquità e corruzione, mentre l’Inps certificava l’esplosione della cassa integrazione. Proviamo allora a mettere assieme, in un unico quadro, tutti questi scenari: inasprimento fiscale sulle fasce deboli, calo dei consumi, crollo della domanda, spirale recessiva, fallimenti e chiusure di aziende, crollo della produzione, licenziamenti, nuova cassa integrazione, nuovo crollo dei consumi, nuovo inasprimento della spirale recessiva. L’ insostenibilità del quadro dipinto è palese.

E i dati dell’Istat di oggi dicono anche che la crisi, troppo spesso dipinta come un meteorite giunto casualmente a contatto atmosferico, e dunque essenzialmente frutto di mele marce che amano dilettarsi nei campi della finanza anziché arare l’economia reale, in realtà è conseguenza diretta in primo luogo della destrutturazione di una politica economica pubblica, di attacchi ai salari e alle pensioni, di aver lasciato mano libera ai capitani coraggiosi prima e al mercato tout court dopo, altro che lacci e lacciuoli. I dati presentati sono in buona sostanza una precisa accusa politica. Per dirla con i sostenitori della decrescita, se fossimo tornati ai livelli di produzione del 1990 in presenza di fattori di benessere sociale in crescita, in autosufficienza energetica da fonti alternative a quelle fossili, in una fase di riconversione di tutte le principali produzioni del Paese, il dato potrebbe significare di aver preso la strada giusta. Ma purtroppo in questo caso stiamo parlando soltanto di assenza di alternative al dato così come si presenta. E le risposte offerte ad ogni sollecitazione di intervento sono tutte frasi immancabilmente estrapolate dal vocabolario liberista, dal sostegno privilegiato alle banche che poi producono speculazione anziché credito, all’ imposizione dell’austerità, alla dismissione del patrimonio pubblico, e così via. Prima di attendere la prossima certificazione della crisi da parte di un istituto statistico, allora, sarebbe opportuno che si iniziasse seriamente a produrre politiche alternative all’esistente. Nulla di particolarmente allarmante, almeno per chi sta dentro il 99% che è sotto ricatto da parte del restante 1%, e cioè far pagare la crisi a chi la crisi l’ha generata. E’ come ipotizzare un fiscal compact che funziona al contrario. Potremmo chiamarlo welfare compact: si tolgono 45 miliardi di euro l’anno dalle politiche liberiste di speculazione, privatizzazioni e spese militari e si incrementano di 45 miliardi di euro l’anno politiche per i servizi, per l’occupazione, per i beni comuni. Il tutto per un ventennio, così come impone oggi la ratificazione del patto di bilancio europeo in tema di tempistiche per la riduzione del debito pubblico.

Da 22 anni, per non dire da molto prima, la logica che oggi ispira il fiscal compact non ha funzionato. E’ così assurdo ipotizzare altro?


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