Comuni italiani impigliati nei titoli tossici?

Comuni italiani impigliati nei titoli tossici?

di Chiara Filoni – il manifesto -

Per chi si fosse tranquillizzato con le buone novelle provenienti da governo e istituti ufficiali sullo stato dell’economia e delle finanze del nostro Bel Paese, cattive notizie anche quest’estate sotto l’ombrellone. Un esempio è l’ultimo comunicato di Banca d’Italia, datato maggio 2013 e sottotitolato «Rilevazione sui prodotti derivati over-the-counter a fine dicembre 2012», in cui entusiasticamente si annuncia che, nel secondo semestre 2012, il valore dell’acquisto dei soli Cds (credit default swap, i più comuni derivati da credito), da parte di sei tra le maggiori banche italiane (Mediobanca Spa, Unicredit, Intesa San Paolo, Mps, Banco Popolare, Ubi Banca) è diminuito del 12 per cento. Le stesse banche hanno visto poi calare la vendita di questi prodotti nello stesso periodo del 15 per cento. Un breve inciso: queste operazioni finanziarie nei mercati Otc, quindi al fuori dei mercati borsistici regolamentati, rappresentano circa il 90 per cento del totale dei derivati, i quali includono anche i derivati finanziari (sui tassi di cambio, di interesse, sugli indici azionari e le commodities, per un totale di 10.000 miliardi di dollari per le sole 6 banche prese in considerazione).
Saranno forse state le inchieste della magistratura, tra le quali quella della Procura di Trani (che attualmente indaga sulla vendita di questi cosiddetti “titoli tossici” da parte di Mps, Bnl, Unicredit, Intesa San Paolo e Credem a numerose aziende del Nord barese e al comune di Molfetta tra il 2008 e il 2010 ), a destare in loro qualche remora? Fatto sta che il cambiamento di rotta in realtà non si registra. Stando alle stime di Banca d’Italia, a fronte di questa riduzione, i dati assoluti sembrano tutt’altro che rassicuranti, dal momento che si parla, per il dicembre scorso, di una compravendita totale di 628 miliardi di dollari di contratti derivati (a fronte dei 724,4 miliardi del giugno dello stesso anno).
Il pensiero corre subito agli indebitati comuni italiani e ai circa 200 miliardi di euro (calcolo approssimativo visto che si tratta di stime non ufficiali) di derivati contratti da svariate amministrazioni locali, le quali, per esigenze elettoralistiche e/o perché truffati dagli istituti di credito, a partire dagli anni ’90 hanno intrapreso la fatale via del credito tossico (decisione motivata anche dall’aumento dei tassi di interesse sui prestiti di Cassa Depositi e Prestiti a partire dal 2003). Questi titoli hanno permesso agli amministratori locali di avere nei primi mesi liquidità a breve termine e a tassi di interesse inferiori ai quelli di mercato. Un buon affare per un sindaco magari a fine mandato che non ha avuto bisogno di aumentare le tasse ai propri cittadini per implementare nuovi servizi per la collettività o che magari è stato solo semplicemente truffato dalla banca creditrice, ma che poi ha visto il proprio comune imbrigliato da debiti che continuano a tutt’oggi ad aumentare in maniera esponenziale.
A ciò si aggiunge il fatto che molti dei debiti contratti dai comuni italiani vengono pattuiti con banche estere (il caso del comune di Milano con la condanna ai nove dirigenti dei quattro istituti Deutsche Bank, Depfa, JP Morgan e Ubs), e sono costituiti da derivati, in prevalenza Cds, che non cessano, a livello mondiale, di aumentare (solo nel 2010 si ha un +26%). Quindi mentre si aspetta una vera regolamentazione internazionale, che probabilmente non arriverà, su questi prodotti suicidi (aldilà della ridicola tassazione decisa a livello europeo), ai sindaci di buona volontà, così come a noi cittadini, non resta che rimboccarsi le maniche e seguire l’esempio di Milano e Trani.

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