Cittadinanza ma non solo: alcune proposte per il partito

Cittadinanza ma non solo: alcune proposte per il partito

di Stefano Galieni* -

Come partito abbiamo scelto di essere fra i promotori del referendum per una riforma parziale ma significativa della legge 91/1992 che regola l’accesso all’ottenimento della cittadinanza italiana e che si svolgerà – come gli altri indetti dalla Cgil sul lavoro – l’8 e 9 giugno prossimo. L’impresa di impedire che prevalga l’astensionismo (per far risultare valido il voto devono partecipare il 50% +1 degli aventi diritto) e che la riforma vada in porto è molto ardua ma non impossibile. Come comuniste/i è il caso di spiegare le ragioni per cui abbiamo accettato questa sfida.

L’Italia del 2025 è molto cambiata rispetto alla vecchia legge secondo cui è italiana/o chi ha il “diritto di sangue” ovvero ha almeno uno dei due genitori già cittadina/o. Si può altresì, secondo la vecchia legge chiedere di essere naturalizzati – diventare “italiani” – dopo 3 anni, per matrimonio, dopo 4 anni se si proviene da paese comunitario, dopo 5 se si ha lo status di rifugiata/o, dopo 10 se si proviene da altro Paese, prima per meriti sportivi o atti di alto valore civile. Ma tale processo avviene unicamente per gentile concessione dello Stato italiano, quindi agli anni suddetti – per cui deve risultare residenza legale, presenza continuativa, assenza di condanne penali e conoscenza della lingua a livello B1 – trascorrono fra i due e i cinque anni di discrezionalità burocratiche e amministrative, indagini sulla vita del/la richiedente e dei suoi familiari, verifica di un reddito stabile, almeno per gli ultimi tre anni, affinché le prefetture possano decidere se concedere o meno l’agognato documento che sottrae dai vincoli derivanti dalla Bossi Fini, (esistenza di un contratto di lavoro che permette di avere un permesso di soggiorno) o altri requisiti equipollenti. Il referendum andrebbe, cancellando alcune parole della legge in vigore, a riportare i termini necessari per la richiesta di chi non proviene dalla UE a 5 anni. Si tornerebbe alle condizioni esistenti nel 1912, quindi per entrare nel XXI secolo, si farebbe un salto all’indietro di oltre 100 anni. E a chi teme che, in caso di vittoria di coloro che promuovono il quesito, si sarebbe invasi da persone che sognano il nostro status privilegiato, va ricordato sommessamente che l’Italia non farebbe altro che adeguarsi alle stesse tempistiche esistenti in gran parte dell’UE e che non si farebbe altro che garantire ad una parte di coloro che da tanti anni risiedono in questo Paese, pagano le tasse, lavorano, fanno parte del tessuto sociale e culturale, una condizione di minore subalternità e ricattabilità. A beneficiare direttamente di tale risultato sarebbero persone che non potranno nemmeno votare per tale diritto, in quanto non cittadini. Secondo le stime sarebbero circa 1,800 mila coloro che sarebbero in condizione di fare richiesta di cittadinanza e, conseguentemente, di trasmetterla ai figli ed alle figlie di minore età. Non è la rivoluzione insomma.

Perché Rifondazione fa parte del Comitato promotore del referendum?

Il nostro partito ritiene tale proposta parte integrante della propria ragione di esistere in quanto congruente con una logica di ricomposizione di classe. Gran parte di coloro che diventeranno cittadine e cittadini lavorano, sovente con inquadramenti bassi e con salari inferiori a quelli degli autoctoni. Divenire cittadini e quindi potendo esercitare anche il diritto di voto, potendo scioperare senza dover rischiare di subire un licenziamento ingiusto che potrebbe rivelarsi l’anticamera dell’espulsione, poter rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, l’osservanza dei diritti basilari, porterebbero ad un avanzamento sociale che riguarderebbe tutte e tutti. Consideriamo poi tale quesito perfettamente connesso a quelli promossi dalla Cgil sul lavoro. Le stesse e gli stessi che chiedono di votare SI al referendum cittadinanza dichiarano, quasi sempre di essere non solo persone con un passato migratorio, che vivono, nella società italiana, in maniera amplificata, le stesse condizioni di insicurezza, precarietà, sfruttamento per cui urgono necessari cambiamenti. Si tratta solo di un primo passo: così come per chi arriva in Italia l’obiettivo deve divenire uno ius soli completo, per chi intende riportare il lavoro alle condizioni di dignità garantite dalla costituzione. La cittadinanza non deve più essere una concessione o un premio, come capita, ottenuto per meriti sportivi o per atti di eroismo, deve diventare un diritto soggettivo.

E non si tratta di un “referendum per le persone immigrate” ma di un quesito con cui ci si propone di cominciare a prendere atto di quanto la nostra società sia cambiata, sia divenuta plurale e composita, più ricca e potenzialmente con maggiori prospettive di crescita. Soprattutto le figlie e i figli delle prime e seconde generazioni, oggi cercano, anche attraverso percorsi di formazione e di valorizzazione delle proprie competenze, di conseguire titoli di studio di alto profilo e di non accettare la condizione di subalternità subita dai genitori. Dall’estensione dei diritti sociali e civili ad una parte di Paese che oggi ne è esclusa può derivare una società migliore, paritaria e più coesa.

L’impegno per questo, come per gli altri referendum, del nostro Partito dovrà essere straordinario e capillare. Il buon esito dipende anche da noi. Tra l’altro, da non rimuovere, questo governo falsamente sovranista, ha avuto anche l’ardire di provare a tranciare una modalità per l’acquisizione della cittadinanza rivolta ai discendenti di emigrati italiani nel mondo, riducendo tale diritto solo a chi ha avuto una/un nonno italiano ed è

Dopo il referendum, ripartendo da noi

Da decine di anni, mattone dopo mattone e spesso anche con la connivenza se non la complicità dei cosiddetti governi amici, si è costruito un muro, in Italia, in Europa, come in tutto il mondo ricco, un muro materiale, culturale e normativo, per escludere coloro che si muovono per cercare un futuro migliore, perché costretti a migrazioni forzate da guerre, persecuzioni, cambiamenti climatici, crisi economiche, spesso causate dal nostro predatorio modello di sviluppo. L’impianto coloniale e suprematista non si è mai dissolto, su questo si costruiscono ancora imperi finanziari e si accumulano ricchezze. Sono ammessi ad entrare, nei nostri “paradisi” quasi esclusivamente coloro che sono funzionali al mercato del lavoro, per il tempo necessario a garantire lo sfruttamento, in quasi totale assenza di diritti, regole. Parlare di migrazioni nel XXI secolo e agire di conseguenza, è profondamente diverso da quanto avveniva in passato. Non si tratta solo della società già mutato di cui si accennava, ma di affrontare una ferocia totale delle classi dominanti che trovano piena corrispondenza soprattutto nelle forze di destra che si vanno espandendo. Chi emigra oggi è manodopera da sfruttare, capro espiatorio da utilizzare per distrarre dal fallimento delle promesse politiche, sono persone da respingere ad ogni costo, anche quello di far divenire il Mediterraneo una immensa fossa comune, anche quello di riconsegnare agli stessi carnefici da cui sono sfuggite, decine di migliaia di uomini, donne e bambini, è la distruzione delle normative sul diritto d’asilo e di ogni forma di protezione, è la possibilità di trattare chi entra irregolarmente in Europa – canali per farlo legalmente sono praticamente chiusi – come pacchi da deportare, rimpatriare, rinchiudere in zone franche extra UE (si veda il progetto italiano in Albania). I piani europei, dal New pact on migration and asylum elaborato dalla Commissione Europea nel settembre 2020 e non ancora in vigore, al Regolamento rimpatri, recentemente discusso al parlamento europeo, mirano ad innalzare ancora di più le mura della “Fortezza Europa”, ad esternalizzare le frontiere, ad escludere chi non è ritenuto utile per l’economia occidentale. Un disegno articolato e profondamente xenofobo che, non solo in Italia, ha attecchito anche nelle classi popolari ha portato a sdoganare il razzismo più becero, è divenuto in parte cultura dominante a cui segue una politica conseguente. Una politica suicida – l’Europa è oramai il continente con l’età media più alta del mondo e diminuisce quotidianamente non solo la propria capacità produttiva ma persino ogni prospettiva di sviluppo i cui effetti si riversano sulle fasce più deboli della stessa popolazione europea. Cacciando chi arriva si elimina ogni residua speranza di sopravvivenza di quanto resta del nostro welfare. La guerra a chi emigra, silenziosa ma da decenni dichiarata, si traduce nel fallimento economico, sociale e politico della collettività. Due sono le narrazioni a cui non dobbiamo credere: questa non è una “guerra fra poveri ma “contro i poveri”; chi arriva non costituisce un “pericoloso esercito industriale di riserva che abbassa il potere contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici autoctoni” perché nel mondo del lavoro di quest’era siamo tutti e tutte parte dell’immenso mondo del lavoro ridotto a merce e, in quanto tali, sostituibili. A maggior ragione oggi più che mai è fondamentale considerare il tema immenso, racchiuso nella parola “immigrazione”, come un fatto sociale totale che si inserisce in ogni ambito della vita, della cultura, della lotta, che le comuniste e i comunisti devono portare avanti. Da rifiutare quindi le tesi ambigue secondo cui bisogna tornare a difendere i “lavoratori nazionali per primi”, quanto quelle che considerano chi lotta insieme alle donne e agli uomini migranti come portatori di una cultura liberale e tesa, nei fatti a cedere ad impulsi etici che si traducono in benefici per i mercati. Si aggiunga che, in Italia soprattutto negli ultimi 25 anni, è maturata una profonda coscienza di classe in settori, magari di avanguardia, con un passato migratorio, che non accettano di essere ne vittime ne oggetti della contesa politica ma rivendicano protagonismo e soggettività piena.

Il nostro partito potrebbe fare molto

Dalla sua fondazione, Rifondazione Comunista aveva, forse per prima colto le mutazioni sociali in atto, costruendo un lavoro anche profondo di crescita e di formazione attorno a tali tematiche. Col passare degli anni, tanto per responsabilità soggettive – anche di chi scrive – quanto per un oggettivo indebolimento del Partito tutto, tale importante lavoro si è, solo parzialmente, frantumato e in alcuni casi disperso. Ma non partiamo da zero. Ci sono fra noi compagne e compagni che hanno attraversato e si sono formati negli anni passati, compagne e compagni più giovani, spesso impegnati parallelamente nel mondo dell’associazionismo antirazzista, nelle Ong, negli sportelli sociali, negli interventi nei luoghi di maggiore criticità, contro i respingimenti, contro i centri di detenzione, per la costruzione di una convivenza in grado di abbattere l’altro muro che divide un generico “noi” da un altrettanto generico “loro”, e che potrebbero ritrovare uno spazio incisivo nell’azione del Partito.

Partire da una proposta concreta.

Avanzo un’idea: dopo che sarà terminata la vicenda referendaria, comunque vada, dobbiamo ricostruire una nostra rete. Un gruppo di lavoro – magari aperto anche a chi è più vicino ai nostri punti di vista – composto da compagne/i che intendano, col tempo a loro disposizione, impegnarsi e crescere, partendo dalla necessità di una riconnessione programmatica condivisa. Giungerà a breve una circolare, a mia firma, alle segretarie e ai segretari di federazione e regionali, di tutto il Paese, con la richiesta di segnalare compagne/i interessati a costruire questo spazio. Organizzeremo, insieme, momenti tematici di confronto, cercheremo, insieme di elaborare proposte concrete, da contrapporre all’orrore del governo nazionale e della Commissione Europea, ci avvarremo di consulenti capaci di renderci maggiormente consapevoli delle problematiche da affrontare, costruiremo insieme un ambito di lavoro meno “bianco” e meno “maschile”, per attuare concretamente l’approccio intersezionale che deve essere nostro patrimonio. Un lavoro enorme e ambizioso, che miri anche ad avvicinare o riavvicinare a noi coloro che in questo campo operano già ma non sono politicamente rappresentate/i, o che scelgono il confronto. Un lavoro lungo che presuppone la volontà di scegliere il dialogo con le realtà esterne al nostro partito, accettando tanto il conflitto quanto le convergenze, ma partendo da punti, da definire insieme, come non negoziabili. Un progetto di rigenerazione reale e compiuta in cui nessuna e nessuno si senta escluso ma che permetta la crescita di nuove soggettività e la condivisione di saperi, concetto preminente per la definizione di un intellettuale collettivo.

Per chi è riuscita/o a giungere alla fine di questo lungo e ancora parziale tentativo di ragionamento ed è interessato già ad avvicinarsi a tale lavoro, è sufficiente scrivere a stefano.galieni@rifondazione.it

Conto però soprattutto nelle segretarie e nei segretari di federazione e regionali perché inducano chi è iscritta/o e simpatizzante,

a far convergere energie che riguardano il partito tutto, informando di questo percorso iscritte/i e simpatizzanti.

*Responsabile nazionale immigrazione PRC-S.E.

migranti28


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