Recensione a D. Greco, Il bivio, Roma, Bordeaux, 2004, pp. 469, €. 28
Pubblicato il 7 ago 2024
INDICE
1. Il contesto internazionale: l’anticomunismo atlantico (capace di tutto) 1
2. Il “vero problema”, storiografico e politico 1
3. Il primo fatto innegabile 2
4. Il secondo fatto innegabile 3
5. Componenti e aspetti del “vero problema” 4
6. Due potenti narrazioni tossiche convergenti e la necessità della verità storica 6
Se un libro potesse meritare il titolo di aver esaurito un argomento complesso e controverso, come la vicenda delle BR e il “caso Moro”, questo libro meriterebbe un tale titolo.
Ciò che caratterizza il lavoro di Dino Greco è anzitutto il pieno padroneggiamento del materiale, bibliografico e documentario, davvero enorme, che si è accumulato in questi anni. Ma soprattutto questo libro si basa sull’attenzione approfondita al contesto, il contesto politico italiano e specialmente il contesto internazionale.
1. Il contesto internazionale: l’anticomunismo atlantico (capace di tutto)
Sarebbe infatti la più imperdonabile delle ingenuità pensare che il massimo esponente politico, di quella che al tempo era la sesta potenza del mondo e membro cruciale della NATO, sia stato rapito, trattenuto 55 giorni e poi ucciso senza il coinvolgimento diretto o indiretto dei servizi – più o meno deviati – italiani e soprattutto di quelli stranieri (abituati da sempre a spadroneggiare in Italia come loro terra di conquista, senza arretrare di fronte a stragi e delitti). Basti vedere che ben diversa efficienza le forze dell’ordine dimostrarono quando, nel dicembre 1981, si trattò di cercare e liberare il capo delle forze NATO a Verona, l’americano James Dozier rapito dalle BR, per non dire dell’assessore dc campano Cirillo per la cui liberazione nell’aprile 1981 lo Stato trattò, eccome, e anche pagò (un miliardo e mezzo).
Esiste peraltro una testimonianza diretta della minaccia che Kissinger in persona rivolse a Moro (“Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare queste cose o la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere. Questo è un avvertimento ufficiale”), una minaccia che Moro prese molto sul serio, tanto da annunciare ai suoi collaboratori l’intenzione di ritirarsi dalla politica. E quella proibizione in effetti andava presa sul serio: con la morte di Moro finisce la politica di avvicinamento del PCI alla maggioranza e al Governo e si apre la crisi della democrazia italiana. Lo stesso Kissinger rivendicò cinicamente il golpe cileno di cui fu regista: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.”
Meno che mai gli elettori italiani potevano “essere lasciati a decidere da soli” dall’”amico americano” quando era in gioco la compattezza NATO sia rispetto all’esclusione dei comunisti dal Governo italiano sia rispetto alle politiche di guerra in Medio Oriente e nel Mediterraneo.
L’anticomunismo atlantico è dunque il tratto fondamentale del contesto politico che Greco ricostruisce, ed è un anticomunismo capace di tutto.
2. Il “vero problema”, storiografico e politico
Sono numerosi e massicci gli indizi, ma ormai anche le prove, del coinvolgimento di forze occulte nella vicenda e dunque della eterodirezione delle BR, diretta o indiretta, e perfino al di là della consapevolezza di tale eterodirezione da parte dei brigatisti, e il libro di cui parliamo cita e analizza sistematicamente i dati che la dimostrano.
Anche solo elencarli esaurirebbe lo spazio a nostra disposizione: dagli strani viaggi a Parigi presso la misteriosa Hyperion e il suo capo Corrado Simioni, all’ospitalità di cui godette un brigatista di spicco presso una sede extraterritoriale vaticana a Via Massimi; dallo scioglimento (ad opera di Cossiga, proprio un mese prima del sequestro Moro) del nucleo Antiterrorismo, diretto dall’efficientissimo Emilio Santillo, alla istituzione di un Comitato di gestione della crisi, composto per intero da iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, oltre che dall’agente americano Steve Pieczenik (il quale, in un suo libro del 2006 intitolato Abbiamo ucciso Aldo Moro, rivendicherà di aver sacrificato la vita di Moro per “ragione di Stato”); dal numero (sempre variabile: 8, 9, 12, molti di più?) dei partecipanti all’agguato di Via Fani, fra i quali uno solo (tiratore espertissimo) esplose quasi tutti i colpi (49 colpi sul totale di 91, in tre minuti) senza sbagliare nulla e senza colpire Moro, all’inverosimile trasbordo di Moro in un garage della Standa e all’ancora più inverosimile attraversamento di Roma, quel giorno totalmente blindata, da Via Fani a Via Montalcini, cioè nella parte opposta della città; dalla stranissima coincidenza di una sede delle BR in Via Gradoli proprio in uno stabile di proprietà dei servizi, alle versioni in merito all’esecuzione di Moro, certamente false anche per gli orari e i luoghi; dalla presenza in Via Fani alle 9,30 del mattino di un colonnello dei servizi che sostenne di essere lì per recarsi…a pranzo da un amico (con 4-5 ore di anticipo!) peraltro smentito dall’interessato; dal fatto che Cossiga sapeva dell’avvenuta uccisione di Moro (teste Signorile) circa due ore prima della telefonata che l’annunciò, alla presenza di sabbia nei risvolti dei calzoni di Moro, circostanza spiegata con una scusa puerile; e si potrebbe continuare a lungo (ma per un quadro esauriente, e sconvolgente, di tali fatti si legga il libro di cui parliamo).
Anzi questi fatti sono talmente provati e probanti che il problema storiografico-politico che si pone è ormai un altro, e lo definirei così: il problema non è se intervennero servizi italiani e stranieri a far uccidere Moro (cosa ormai assodata), il vero problema è perché mai una tale verità non si sia consolidata nel dibattito e nell’opinione pubblica, non sia diventata patrimonio comune e condiviso. Per fare un paragone meno bizzarro di quanto potrebbe sembrare: sarebbe come se, nel caso della strage di piazza Fontana, si discutesse ancora se la bomba fu messa da Valpreda oppure no.
Poiché l’accumulo di indizi e ipotesi e prove può, paradossalmente, finire da funzionare da censura (per intenderci: quello che avvenne per l’assassinio di Kennedy) mi limiterò a citare, fra i tanti, solo due fatti, che sono assolutamente incontrovertibili a smentire la tesi delle BR immacolate e prive di qualsiasi rapporto inquinante con lo Stato e i servizi stranieri (e che forse possono aiutarci anche a rispondere a quello che abbiamo definito il vero problema poc’anzi citato, quello che a me ora pare fondamentale).
3. Il primo fatto innegabile
Primo fatto: si tratta dell’incredibile vicenda di un memoriale scritto a due mani da Valerio Morucci e da Cossiga (nel frattempo, anche dopo il caso Moro, eletto nel 1985 Presidente della Repubblica incredibilmente, e imperdonabilmente, anche coi voti del PCI).
Morucci produsse un cosiddetto “memoriale” (di 283 pagine, con allegati 5 fascicoli) già nel 1986 e – tramite una suora legata ai servizi – lo fa pervenire al vicedirettore del quotidiano della DC “Il Popolo” Cavedon e a Cossiga. Stranamente il memoriale resta ignoto per quattro anni (del tutto esclusa la Magistratura che stava indagando sul delitto Moro). nel frattempo Cavedon e Morucci si incontrano più volte in carcere modificando il memoriale (che lo stesso Morucci riconoscerà essere come suo solo in parte), fino a che, il 13 marzo 1990, arriva alla casa privata di Cossiga. Ma non è finita qui: Cossiga trattiene il memoriale presso di sé ancora più di un mese (sempre tenendo fuori la Magistratura) e lo trasmette – si noti – non al magistrato che si occupa del caso Moro ma al Ministro dell’Interno Gava (!) solo il 26 aprile. Da questi il memoriale passa al capo della Polizia Vincenzo Parisi che finalmente, solo il 9 maggio, inoltra il memoriale alla Magistratura che indagava sulle BR e sul delitto Moro.
Digiuno di diritto, io non so dire quali e quanti reati Cossiga abbia commesso (dall’occultamento di prove al favoreggiamento, etc.) ma certo è che questo memoriale si deve definire come il memoriale Cossiga-Morucci. Le domande si affollano, e sono domande inquietanti: perché mai Morucci si rivolge proprio a Cossiga (cioè al Ministro dell’Interno del delitto Moro) e non dice le cose che ha da dire al magistrato? E soprattutto, perché mai Cossiga interviene sul memoriale e lo modifica (in quali punti?) prima di renderlo pubblico? Cosa si doveva far sapere e cosa si doveva nascondere? Strano e infelice Paese il nostro, in cui un Presidente della Repubblica concorda con un terrorista alle spalle della Magistratura una versione di comodo relativa ad un delitto di Stato gravissimo. Il memoriale, sottoscritto anche da Adriana Faranda, viene in un primo momento smentito, ma poi condiviso anche da Mario Moretti.
È la ricostruzione della verità dicibile, una “verità” elaborata insieme, ripulita e condivisa dal massimo rappresentante dello Stato e dai brigatisti. Non basta da sola questa incredibile vicenda a smentire chi ritiene ancora le BR limpidamente rivoluzionarie e prive di rapporti indicibili con lo Stato e le sue parti peggiori, cioè con i servizi rappresentati da Cossiga? Inevitabile concludere che ai brigatisti sia stato chiesto non di parlare ma di tacere, premiandoli per questo.
La Commissione parlamentare di inchiesta dirà: “Il memoriale Morucci presenta le caratteristiche formali e compositive di un memoriale interno agli apparati di sicurezza, che dunque non possono essere ritenuti a priori estranei alla composizione del testo.” Dunque si tratta ufficialmente di bugie costruite a tavolino con l’apporto dei servizi cosiddetti “deviati”. Eppure questo drastico e definitivo giudizio della Commissione parlamentare non ha impedito che proprio questo memoriale falso, e concordato, sia stato posto alla base delle ricostruzioni offerte al grande pubblico, ad esempio delle ricostruzioni veicolate dalla Rai in occasione dell’anniversario dell’assassinio di Moro (si noti: dopo il pronunciamento della Commissione parlamentare in merito alla falsità del memoriale Cossiga-Morucci che abbiamo appena citato).
4. Il secondo fatto innegabile
Il secondo fatto su cui richiamo l’attenzione è ancora più grave e ancora più innegabile del primo: le BR non hanno mai reso pubblico tutto il materiale che hanno tratto da Moro durante la prigionia. Perché mai?
Nonostante la promessa pubblica di svelare “al popolo” tutti dati emersi dagli interrogatori a cui Moro fu sottoposto, mancano gli originali, i manoscritti, le registrazioni audio, bobine e perfino videocassette e filmati (che qualcuno vide, ma non furono trasmessi ai magistrati), i verbali integrali, le borse che Moro aveva con sé al momento del sequestro, di cui una “importantissima”, probabilmente anche alcune lettere di Moro.
Solo una parte di questi materiali furono trovati in via Monte Nevoso nell’ottobre 1990 (secondo ritrovamento: il primo dell’ottobre 1978), e anche in quel caso i carabinieri ne presero possesso e li asportarono prima che la Magistratura potesse visionarli, inventariarli e descriverli.
Eppure lo stesso Moro aveva scritto in una delle sue lettere (del 29 marzo) che aveva cose decisive da dire e che minacciava di dirle: “Io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le informazioni e le sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni.” E le BR scrissero che “l’interrogatorio” proseguiva “con la piena collaborazione del prigioniero”, e che “le sue illuminanti rivelazioni [...] verranno rese note al popolo e al movimento rivoluzionario”.
Fu dopo questa lettera di Moro che Cossiga chiese, e ottenne, la collaborazione dell’agente americano Steve Pieczenik (dell’Ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato istituito da Kissinger e al tempo diretto da Brzezinski). Pieczenik dirà più tardi che il suo compito era “garantire che il sequestro terminasse con l’uccisione di Moro, recuperare le bobine degli interrogatori e ottenere il silenzio dei terroristi” (p.289), e che tutti e tre gli obiettivi furono da lui ottenuti. Ma le BR? In che modo, e perché, contribuirono a che si realizzassero gli obiettivi dell’americano?
Certamente Moro parlò della strategia della tensione, di piazza Fontana e dei tentativi di golpe del ’64 e del ’70, certamente chiamò in causa, con Andreotti e Taviani, anche la dipendenza della DC da alcuni servizi stranieri, certamente parlò di Gladio e probabilmente anche di veri e propri segreti militari della NATO che ci sono rimasti oscuri. Tutto questo è stato tenuto segreto da una “doppia censura”, quella dello Stato ma prima di tutto quella delle BR.
Perché le BR tennero nascoste le rivelazioni fatte da Moro? Le risposte fornite a questa domanda da parte dei brigatisti sono incredibili: ad esempio Enrico Fenzi (il cognato di Senzani, l’assassino a sangue freddo di Roberto Peci colpevole solo di essere fratello di un pentito) dichiarò che … non si erano resi conto dell’importanza di rivelare l’esistenza di Gladio. Un’offesa all’intelligenza prima ancora che alla verità. La verità è che su questo scellerato patto di silenzio si fondò l’alleanza di fatto fra brigatisti e Stato, la medesima alleanza che abbiamo visto all’opera nel caso del primo fatto innegabile, cioè il memoriale Cossiga-Morucci..
E di nuovo: come spiegano questo secondo, clamoroso e innegabile fatto i sostenitori della purezza rivoluzionaria delle BR?
5. Componenti e aspetti del “vero problema”
Siamo dunque venuti a discutere quello che abbiamo definito “il vero problema”, cioè come mai la verità in merito alla eterodirezione delle BR non si sia consolidata nel dibattito e nell’opinione pubblica, non sia diventata patrimonio comune e condiviso.
Io credo che ci siano almeno due versanti politici che hanno impedito che ciò accadesse.
Il primo, naturalmente, è quello di chi alle BR partecipò. Il problema è reso ulteriormente complesso dal fatto che esistono almeno due fasi diverse e distinte della vita di quella organizzazione, una prima fino all’arresto di Curcio e Franceschini (e si noti: non di Moretti!) nell’ottobre 1974, e una seconda, assai diversa, dopo di allora, quando i vertici dell’organizzazione diventano sempre più occulti, sconosciuti agli stessi militanti. Non è questa la sede per passare in rassegna i sospetti crescenti che verso Moretti e poi Senzani etc. provennero dall’interno delle BR, né questo problema ci interessa più di tanto; quello che ci interessa è l’evidente cambio di passo e di comportamenti, probabilmente legato anche a forme di reclutamento meno rigorose in settori sociali più inquinati o inquinabili. Come ha scritto un dirigente della resistenza palestinese vicino ad Arafat: “Non mi fido più delle BR, perché quelli veri ormai sono in galera, e fra quelli che stanno fuori ci sono degli infiltrati, non tutti, ma una parte della loro leadership lavorava con gli americani.” (p.309). Bassam Abu Sharif così si espresse davanti alla Commissione parlamentare Moro 2: “Parlano di Brigate Rosse e così via, ma personalmente ritengo che dopo l’arresto dei capi delle Brigate Rosse, in Italia la maggior parte delle Br fosse infiltrata dagli agenti americani o di Gladio della Nato, a eccezione di alcune persone che erano ingenue e convinte di essere Br.” (p.309).
Certo è tuttavia che la storia delle BR è stata una storia di tragedie anche personali, non solo di vite distrutte, dalla clandestinità e dall’aver versato sangue innocente, ma anche di uccisioni subite o di esecuzioni a freddo (come quello di Mara Cagol o quelli di via Fracchia a Genova), e certamente è assai difficile per chi si è trovato a distruggere la vita propria e di quella di chi gli era vicino ammettere che simili tragedie sono state inquinate alla radice, cioè non sono state una lotta per il socialismo (per quanto discutibile e sbagliatissima nei modi e nei tempi) ma semplicemente l’obbedienza, per giunta inconsapevole!, a una eterodirezione atlantica e imperialista. Credo che il peso psicologico di una tale ammissione sia davvero insopportabile.
Vale molto meno una simile comprensione da parte nostra per altri membri delle BR che fanno della propria vicenda materia per narcisistiche esibizioni televisive, presentando sé stessi come splendidi eroi sfortunati, senza il minimo cenno di autocritica e nemmeno di consapevolezza storico-politica. Peggio ancora coloro che si proposero come mediatori fra BR e Stato (nella fattispecie il PSI), criticando naturalmente da sinistra il PCI e che sono poi finiti disinvoltamente nel gorgo di Berlusconi, dei suoi giornali, delle sue Tv del suo livello etico-politico.
Sullo sfondo di questo primo versante giustificazionista c’è purtroppo una personalità da tutti stimata come Rossana Rossanda, co-autrice di un libro-intervista nel 1994 che ha avuto effetti gravi nel disorientare l’opinione pubblica di sinistra. Si tratta di un libro tardivo, perché le analisi del “Manifesto” scritte a ridosso del fenomeno BR da Pintor, Notarianni e dalla stessa Rossanda erano assai più meditate e critiche (se ne veda una rassegna alle pp.242-251), e anzi talvolta francamente eccessive: “Sotto la denominazione di Brigate Rosse si nasconde una delle tante bande di fascisti che da anni sono impegnate nella provocazione ai danni della classe operaia, nella strategia della tensione” (scriveva Rossanda nel dicembre 1973, cit. a p. 243). Poi la formula giornalistica rossandiana delle BR come “album di famiglia” del PCI ebbe molto successo, ma non fece davvero giustizia della storia del PCI a cui la stessa Rossanda aveva partecipato, come precisa Aldo Tortorella alle pp. 250-251 di questo libro. Dirò di più: la condanna per l’uso arbitrario e compiaciuto delle armi (una condanna non solo morale e politica ma direi perfino antropologica) fu costante nei nostri partigiani comunisti, e può testimoniarlo chiunque abbia avuto il privilegio di conoscere uno dei più eroici di questi, come Giovanni Pesce, Gap e medaglia d’oro della Resistenza.
Esiste poi, a formare e disorientare l’opinione pubblica, un secondo versante giustificazionista, quello che definirei “americano”. Smentire l’inquinamento delle BR da parte dei servizi italiani e stranieri serve naturalmente a difendere l’operato del Governo italiano e degli USA. In fondo è lo stesso accanito negazionismo che abbiamo visto all’opera a proposito delle bombe e delle stragi e che domina i mass media, i giornali e le Tv che fanno parte integrante del regime, dunque del dominio atlantico sul nostro Paese. Qui l’elenco di chi giustifica le BR rivendicandone la purezza sarebbe davvero troppo lungo: si va da tutta la stampa di destra a quella liberal-massonica, così indegna del proprio dignitoso passato e probabilmente più coinvolta con i servizi di quanto noi potessimo sospettare. Il coro è davvero unanime.
Così, a proposito di “americani”, mi limiterò a citare un nome che forse sorprenderà qualcuno (ma che proprio per questo ci aiuta a capire): Giorgio Napolitano. Questi va negli Stati Uniti proprio nei giorni del rapimento di Moro (una pura coincidenza?) nonostante che fino a quel momento l’ingresso nella “patria della libertà” fosse vietato per legge agli iscritti al PCI, un divieto che valse per Napolitano ancora nel 1975 ma che ora veniva superato. Invitato da Vance e da Brzezinski (il superiore diretto di Steve Pieczenik, che già abbiamo incontrato in questa storia), Napolitano riceve una vera e propria investitura. E lui è pari alle attese, garantisce che “la ‘solidarietà nazionale’ non danneggia in alcun modo gli interessi degli Stati Uniti” e fornisce un’interpretazione del caso Moro certo gradita alle orecchie statunitensi, affermando di: “non seguire la troppo facile strada della riduzione del fenomeno a complotto reazionario – le Brigate Rosse come marionette, opportunamente travestite, della reazione – e che occorresse fare invece i conti con le degenerazioni fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista.” (p. 301). Il piatto è servito: con le BR i servizi segreti e la CIA non c’entrano affatto, è tutta colpa “dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista.” Chi volesse verificare la narrazione del “partito americano” nella forma più oltranzista, è rinviato a un memorabile duetto che si svolse a Radio Radicale fra l’ex brigatista Paolo Persichetti (il più attrezzato e colto degli apologeti delle BR) e il conduttore Massimo Bordin: abbiamo appreso in quella sede non solo che chi mette in dubbio la purezza rivoluzionaria delle BR è un paranoico cospirazionista ma anche che il PCI di Berlinguer odiava Aldo Moro e non vedeva l’ora di liberarsene.
Così il cerchio si chiude:se l’anticomunismo è all’origine della morte di Moro esso è anche alla base delle narrazioni tossiche in merito a quella vicenda.
6. Due potenti narrazioni tossiche convergenti e la necessità della verità storica
Forse ora è più chiaro perché mai nell’opinione pubblica il carattere eterodiretto delle BR non sia ancora unanimemente condiviso, nonostante le evidenze. Sono all’opera, e la loro convergenza è potentissima, due narrazioni pervasive e tossiche: da una parte gli orientamenti delle BR dei loro reduci e dei loro indiretti sostenitori e dall’altra quelli, ben più potenti e pervasivi, del “partito americano”.
Questo sarebbe un banale problema storiografico se non fosse che la vicenda BR-Moro ha cambiato in modo determinante la storia politica italiana e soprattutto se il giudizio sulla più rilevante esperienza di lotta armata non riguardasse l’orientamento dei nostri giovani, anche in merito a esperienze analoghe che, considerando il perdurare e l’aggravarsi della crisi, potrebbero ripresentarsi in futuro, e potrebbe operare il “fascino” maledetto di un’esperienza disastrosa presentata però come radicale e limpida pur nella sconfitta,
Queste generazioni non hanno fatto esperienza del terrorismo di sinistra e, in verità, nemmeno della politica, quella vera agìta in prima persona, né esse conoscono la storia del Paese essendosi interrotta la trasmissione di esperienze, di giudizi e di narrazioni che era garantita dalle organizzazioni politiche di massa, nel frattempo soppresse. Dunque le attuali generazioni di giovani sono esposte più di altre alla disinformazione, mentre la conoscenza della storia è da sempre l’unico vaccino efficace a impedire il ripetersi dei più tragici errori.
Per questo la diffusione, la lettura, lo studio del libro di Dino Greco rappresentano un’occasione preziosa e – direi – una necessità politica.
Raul Mordenti
Sostieni il Partito con una
Appuntamenti