Il “Piemonte popolare” di Francesca Frediani
Stefano Galieni
Francesca Frediani, candidata a Presidente per “Piemonte Popolare”, lista di cui fa parte anche Rifondazione Comunista, è al rush finale del suo tour che l’ha portata a girare in lungo e in largo il territorio, con una particolare attenzione alle aree più disagiate in cui le differenze assumono marcatamente connotazioni di classe. Raggiunta fra un treno e l’altro per pochi minuti, l’abbiamo intervistata.
Partiamo da un bilancio di questa vostra campagna elettorale
«Io mi ritengo soddisfatta. Abbiamo tutto quello che si poteva fare, scontando tempi ristretti, scarse risorse, l’oscuramento mediatico a cui siamo stati sottoposti. Abbiamo dato tutti il massimo e non ci possiamo rimproverare nulla».
Quali sono i temi su cui ha più insistito parlando con le persone incontrate?
«Intanto, essendo una delle voci più importanti delle spese regionali, quello della sanità pubblica. A nostro avviso va totalmente riorganizzata partendo dalla necessità di garantire una seria rete territoriale che si ponga anche l’obiettivo della prevenzione. Poi, non certo in ordine di importanza, il tema della pace. A nostro avviso la regione deve monitorare le attività produttive affinché non siano orientate ad un’economia bellica. Da ultimo una particolare attenzione alle questioni giovanili. Abbiamo seguito molto le occupazioni delle università e ascoltato le loro richieste e le legittime rivendicazioni».
Come avete composto le liste?
«Intanto c’è un listino, il più giovane per età media, in cui hanno trovato posto le varie forze che compongono la lista. E, sono orgogliosa di dirlo, sarà con noi anche Nicoletta Dosio che non ha bisogno di presentazioni. Poi ci sono le liste circoscrizionali – in cui sono anche io – in cui c’è da apprezzare il fatto che le singole forze abbiano espresso persone attive nelle lotte sui territori di tutta la Regione».
L’ha aiutata avere una buona esperienza?
«Credo di si. Io vengo da una storia territoriale ne movimento No Tav. Sono stata eletta per la prima volta in Regione con il M5S e mi hanno riconfermato nel 2019. A metà mandato ho lasciato il gruppo. La scelta di una rottura deriva dalle posizioni assunte da Giuseppe Conte rispetto al Tav. Ho una cultura di sinistra e mi sono ritrovata, naturalmente nell’esperienza di Unione Popolare».
In cui convivono esperienze diverse fra loro della sinistra
«Quello delle sinistre è un mondo complesso, con diverse visioni da parte di tutti. C’è stato un buon lavoro di mediazione agevolato da quanto fatto nel 2022 con la raccolta firme come UP. Ma al di là delle diversità di vedute c’è stato un importante rispetto reciproco del lavoro di ognuno. Io vengo da un movimento apartitico e ho avuto difficoltà a confrontarmi non avendo una forte base ideologica. Ma ero già collocata a sinistra».
Ci sono stati problemi nel comporre le liste?
«Nessuno. Ogni forza ha contribuito mettendo il meglio che aveva senza neanche il bisogno di discuterne».
Divenendo almeno consigliera regionale, a quali interventi darebbe la priorità?
«Premesso che con lo sbarramento del 3% sarà dura ma ce la metteremo tutta. Il primo punto per me resta la realizzazione di un piano socio sanitario che non c’è da diverse legislature. Con la sanità è necessario programmare gli interventi per essere realmente efficaci e rispondenti ai bisogni della popolazione. Uno dei miei sogni resta poi l’idea di un testo unico per i giovani. Il covid, di cui molti sembrano essersi dimenticati, ha aumentato il disagio soprattutto mentale. Ma questo è solo uno degli elementi da cui partire. La Regione in cui vorrei vivere si deve preoccupare di prevenire ogni forma di disagio e di garantire tanto il diritto allo studio che al lavoro. Dovremmo avere con i giovani un approccio diverso e più specifico»
Parlando di disagio e conoscendo soprattutto Torino, diviene inevitabile farle una domanda in merito al suo approccio verso l’immigrazione.
«Il tema più evidente è quello del Centro Permanente per i Rimpatri di Via Brunelleschi, oggi chiuso. In molti lo vorrebbero riaprire, noi assolutamente no. Accanto a questo c’è la questione dei disperati che tentano di forzare il confine verso la Francia – non vogliono restare in Italia – e in più di un’occasione, su quelle strade impervie, perdono la vita. Ma altrettanto importante è la questione dell’integrazione che riguarda soprattutto le aree periferiche. Seguendo alcuni studi fatti da istituti di ricerca, ho fatto un viaggio sul tram numero 3, che parte da zone benestanti di Torino, attraversa la città, fino a giungere alle Vallette. Queste ricerche hanno dimostrato che ad ogni chilometri che si percorre su questo tram, l’aspettativa di vita cala di 5 mesi, passando dagli 82 delle zone ricche ai 71 delle aree più marginali. Nei luoghi più disagiati vivono gli ultimi, non solo migranti, per cui è urgente mettere in atto politiche di sostegno e integrazione. Bisogna riattivare i servizi, diminuire il divario fra centro e periferia. In queste realtà più problematiche vivono tanti giovani, in famiglie numerose, che sono figli di immigrati e che sarebbero italiani a tutti gli effetti se ci fossero leggi nazionali diverse. Noi sul diritto di cittadinanza possiamo fare ben poco ma dobbiamo promuovere e investire in politiche di integrazione. Si può fare molto lavorando su cultura, sport, lavoro, formazione. Non è vero che non possiamo cambiare le cose. E cerchiamo di farci conoscere perché le cittadine e i cittadini piemontesi comprendano come, ampliando il numero di persone che hanno accesso agli stessi diritti, è un vantaggio per tutti noi»-