Il riformismo è il ‘pellegrino del nulla’

Il riformismo è il ‘pellegrino del nulla’

A proposito del centenario dell’assassinio di Matteotti.

L’approssimarsi del centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) ha giustamente dato luogo a cerimonie di commemorazioni ufficiali, pubblicazioni di libri ed opuscoli che ricostruiscono la vita e l’opera del deputato socialista. Insieme a queste iniziative sono apparsi, e a dir la verità non se ne sentiva la mancanza, numerosi articoli su carta e online, che più che servire a fare luce e a valorizzare la figura e il valore dell’antifascismo intransigente del dirigente riformista, sembrano tutti preoccupati, facendosi scudo della la figura del deputato di Fratta Polesine, di non lasciarsi sfuggire l’occasione per sferrare un nuovo attacco a Gramsci e all’azione dispiegata dal Partito comunista durante la crisi dell’Aventino, successivamente all’assassinio di Matteotti per mano della banda guidata da Amerigo Dumini.

Basta passare rapidamente in rassegna i testi pubblicati per rilevare che la grande maggioranza di essi, già nel sommario, riporta in modo strumentale l’espressione “pellegrino del nulla” che Gramsci utilizzò nell’articolo intitolato “Il destino di Matteotti” uscito su “Stato Operaio” rivista settimanale del PCd’I. Dal sito internet del PSI a “Il Foglio”, dall’”Avvenire” al “HuffPost Italia”, da “Il Giornale” al “Resto del Carlino” e “la Repubblica” è tutto un fiorire di commenti nei quali immancabilmente compare la locuzione prima ricordata, accompagnata quasi sempre dai riferimenti alle parole di Gramsci e dei comunisti definite di volta in volta “ciniche”, “impietose”, “ dure”. Appare evidente che non solo le parole di Gramsci sono utilizzate del tutto fuori dal loro contesto storico-politico, ma che in realtà la quasi totalità degli autori degli articoli in questione non si sia nemmeno preoccupata di leggere l’articolo dello “Stato Operaio”, limitandosi a operazioni di copia-incolla di quanto era stato già scritto da altri.

Ne “ Il destino di Matteotti” il dirigente comunista prende in prestito l’espressione “pellegrino del nulla” da Karl Radek che, in una riunione dell’ Esecutivo del Comintern del 1923, l’aveva usata per commemorare “un militante del nazionalismo tedesco fucilato nella Ruhr dai nazionalisti francesi”. Radek lo descrive come un “combattente sfortunato, ma tenace fino al sacrificio di sé, di una idea la quale non può condurre i suoi credenti e militanti ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza via di uscita”.
L’intento di Gramsci, come risulta manifesto a chiunque abbia avuto la bontà di accostarsi al testo, senza la preoccupazione di affaticarsi troppo, è quello di rimproverare polemicamente ai riformisti l’incapacità di portare “Il risveglio degli operai e dei contadini d’Italia iniziatosi, sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni” “a creare […] la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino”, e come “A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere”.

Quella che Gramsci muove ai dirigenti del PSU, ai Turati, Modigliani, Treves, è una critica che prende di mira il venir meno al compito storico di “coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato” per dare la “sola possibile soluzione della crisi italiana”. I capi riformisti, per Gramsci, avevano creato le “premesse di una rivoluzione” senza creare un movimento rivoluzionario, avevano scosso “le basi uno Stato” credendo “di poter eludere il problema della creazione di uno Stato nuovo.” Nelle parole del rivoluzionario sardo era così concentrata la critica radicale alla strategia e alla tattica dei riformisti, a quelle scelte che avevano reso impotenti le opposizioni aventiniane che continuavano, immobili, ad attendere l’intervento del re per ristabilire l’ordine costituzionale dello Statuto albertino, rifiutando le proposte comuniste di fare dell’Aventino un “Antiparlamento”, e di chiamare le masse popolari allo sciopero generale: “L’azione loro – scrive Gramsci – […] Parlava da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria.”
Non vi è nell’articolo dello “Stato Operaio”, alcun cinismo, né vengono adoperate, come si cerca di far credere, “parole dure” o “impietose: al contrario si parla del “sacrificio eroico di Giacomo Matteotti”, alla cui sepoltura “volgevano le menti, da tutte le terre d’Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano a frotte per essere in persona presenti”. Ma, concludeva Gramsci, il solo modo degno per celebrare il sacrificio di Matteotti era rafforzare il partito e l’Internazionale Comunista per essere pronti per le lotte future, il solo modo per cessare “di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio” e “mandare in pezzi questo vecchio mondo che ci opprime”.

Era una critica tutta politica, dunque, quella che Gramsci avanzava, che non mirava alla persona di Matteotti ma al cieco legalitarismo dei riformisti che, nell’invocare il rispetto dell’”ordine costituzionale”, non vedevano le manifeste protezioni e complicità che la monarchia e tutto l’apparato statale offrivano alle squadracce di Mussolini e non erano quindi in grado di rispondere alla domanda su come mai l’evidente illegalismo dell’azione squadristica non fosse represso dai poteri costituiti dello Stato; era una critica volta ad indicare le forme, i modi e le vie per uscire dalla crisi della società italiana di cui la violenza e il terrore fascista contro il proletariato e le sue organizzazioni erano le prove tangibili.

Ma, come già accaduto molte altre volte nel passato, gli attacchi a Gramsci sono stati per alcuni il pretesto per rinnovare le accuse alla politica dei comunisti. Così, come in un revival, si rispolverano le pluridecennali accuse di settarismo e di aver favorito l’avanzata del fascismo. Se la ricerca storica ha da tempo portato alla luce gli errori della direzione bordighista del Pcd’I nella politica condotta nei primi anni di vita del partito e quelli della stessa Internazionale Comunista fino alla svolta dei Fronti popolari, che certamente furono di ostacolo al formarsi di un saldo fronte antifascista, all’opposto, questi attacchi sembrano perseguire gli stessi obiettivi di sempre: occultare o attenuare le responsabilità di buona parte dei dirigenti dei partiti aventiniani che, come una vasta serie di studi e ricerche ha dimostrato, in molti casi finirono per favorire, fino ad arrivare, in molti casi, a collaborare con il regime: parliamo non soltanto dei ministri popolari, demosociali, demoliberali e liberali che entrarono a far parte del primo gabinetto Mussolini e dei dirigenti degli stessi partiti che dopo le leggi eccezionali del ’26 si ritirarono a vita privata o accettarono la protezione offerta dalle mura del Vaticano, ma anche dei numerosi esponenti del partito riformista e della Confederazione Generale del Lavoro che cessarono ogni attività di opposizione, quando non passarono armi e bagagli nelle fila del fascismo.

Sarebbe troppo lungo elencare uomini e fatti che segnarono la debacle dell’antifascismo liberaldemocratico e riformista: basti qui ricordare il «Patto di pacificazione tra socialisti e fascisti»; lo scioglimento della Confederazione Generale del Lavoro, deliberata dal gruppo di Rinaldo Rigola, Giovanni Battista Maglione, Ettore Reina, Carlo Azimonti, Lodovico D’Aragona il 4 gennaio 1927; l’adesione al corporativismo di Emilio Caldara e della rivista «I Problemi del lavoro», che dalla Confederazione Generale del Lavoro passarono all’appoggio al regime, per non parlare degli interventi e dichiarazioni di Turati, D’Aragona, Rigola e Baldesi tutti accomunati dagli appelli a “non rispondere alle provocazioni e agli assalti squadristi” sino alla disponibilità a collaborare con Mussolini e con il fascismo.

Quanto, infine, all’accusa ai comunisti di aver favorito l’ascesa del fascismo – fatto di cui evidentemente non erano stati avvisati i vari Cristini, D’Alessandro, Griffini, Tringali-Casanuova, etc., membri del Tribunale speciale, i quali dal 1926 al 1943 continuarono imperterriti a redigere sentenze e a comminare condanne, comprese quelle alla pena capitale (la prima sentenza di condanna a morte fu emanata nei confronti del comunista Michele Della Maggiora nel 1928) – sono sufficienti questi dati sul funzionamento del «Tribunale Speciale per la difesa dello Stato» per smentire questa ricorrente fandonia della vulgata anticomunista: nei 17 anni di vita del tribunale (che fu regolarmente prorogato, ogni cinque anni, nel 1931, nel 1936 e infine nel 1941) furono 15.806 gli antifascisti deferiti alla procura e 5.619 quelli processati, 77 le condanne a morte comminate, di cui 62 eseguite Dei 5.619 processati, i comunisti condannati furono 4.030 per 23.000 anni di carcere e 5 le condanne a morte eseguite.

Luigi Saragnese


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