Come le istituzioni parlavano con la classe operaia

Pietro Ingrao*

Sono lieto di portare qui, alla classe operaia della Terni, a voi che siete qui presenti, alle vostre famiglie, alla grande tradizione di lavoro, di capacità tecnica, di lotta e di dignità umana che si è espressa nel corso di tanti decenni, qui in questa fabbrica, in questa città, il saluto della Camera dei Deputati che vengo a rappresentare tra di voi. (…) Io qui parlo a gente non lontana dalla carta costituzionale, non estranea, ma parlo a gente che sta alla radice delle norme solenni scritte in quella carta; parlo a “fondatori”, a “costituenti”, se è vero che la classe operaia di Terni e più in generale la classe operaia italiana è stata una delle forze decisive che ha scritto quelle parole con le lotte, con il sangue, con i morti, con le rivendicazioni, con le battaglie che non si esaurirono soltanto quando prendemmo le armi in pugno contro il fascismo, ma continuarono giorno per giorno, per anni e per decenni.
In questo legame profondo tra le parole, le norme della Costituzione e le masse operaie del nostro Paese, riconosciuto da ogni storico serio, si esprime un fatto ancora più profondo, un travaglio che c’è stato, un cammino che ha visto via via il mondo operaio, più in generale il mondo del lavoro prendere nelle proprie mani, sempre con maggiore consapevolezza e portare avanti la rivendicazione, la bandiera della libertà, dei diritti civili, dello sviluppo del regime democratico.
Non è stato un cammino facile e non tutto è stato chiaro dall’inizio; lo sappiamo e lo sapete, ma certo questo cammino è diventato il fatto fondamentale che ha improntato la storia d.’Italia e ha dato un fondamento che mai era esistito ai valori della libertà, agli ideali della democrazia, alle rivendicazioni della dignità, dei diritti dei cittadini e più in generale della persona umana.
Sappiamo che questo fatto storico, questo legame profondo intriso di sacrifici, di lotte, anche di sangue, si è venuto realizzando ed è cresciuto nell’animo non più di poche avanguardie, ma di milioni e milioni di operai ed è camminato dentro le loro famiglie ed ha cominciato a tramandarsi di padre in figlio, via via che la classe operaia imparava, vedeva che quando venivano calpestate le libertà democratiche, i diritti civili, la libertà di pensiero, di organizzazione, di dibattito e di stampa, contemporaneamente venivano colpite le organizzazioni operaie e non a caso – ve lo ricordate tutti cosa avvenne allora nel periodo più tragico della nostra storia – quando il crollo della libertà nel nostro Paese, dinanzi alle squadre fasciste si consumò immediatamente e contemporaneamente con l’attacco violento alle organizzazioni operaie e vedemmo distrutte in un solo incendio la libertà degli italiani, le bandiere dei lavoratori, le camere del lavoro e le sedi dei sindacati operai. Fu vissuta allora una sconfitta storica che non fu solo della classe operaia o di questo o di quel partito, ma travolse tutto intiero il nostro Paese e poi dilagò nell’Europa e nel mondo; pagammo perciò un prezzo che non possiamo mai dimenticare, se è vero che ancora oggi in qualche modo paghiamo, portiamo dentro la nostra vita e sulla nostra pelle le conseguenze amare, i frutti avvelenati di quel ventennio terribile e di due guerre mondiali e di come allora il mondo fu travolto, diviso, lacerato sino alle soglie di una nuova barbarie. È passando per queste prove che abbiamo visto crescere questo legame indistruttibile fra libertà, democrazia, diritti dei cittadini e conquista, lotta per l’autonomia, la dignità, il cammino della classe operaia e l’emancipazione del mondo del lavoro. Oggi siamo in un Paese e possiamo dire che questa Italia travagliata e tormentata è l’immagine forse di uno di quei paesi del mondo in cui più profondo è questo legame tra libertà e popolo; nitidamente si sente ogni giorno che la lotta, la rivendicazione per la libertà non sta nelle mani di pochi, la Costituzione prima ancora di essere scritta nelle norme che abbiamo il dovere di difendere in Parlamento, sta scritta nell’animo vostro, dentro il pensiero, la coscienza e la passione di milioni e milioni di lavoratori italiani, non più dispersi, ma organizzati nelle loro libere organizzazioni sociali e sindacali.
Qui viene però il discorso che è stato già sollevato dai compagni, dai rappresentanti vostri che hanno parlato; libertà, ma quale libertà? E subito sentiamo che parte fondamentale di questa libertà è quella di pensiero e lo sente l’operaio, proprio perché per la sua emancipazione avverte che bisogna cambiare qualcosa nella vecchia società; per questo devono camminare idee nuove e deve soffiare il vento della libertà nel nostro Paese, perché queste idee possano procedere nel loro cammino. Certo, avvertiamo che questo significa non soltanto il diritto al confronto, alla discussione, al dibattito, ma anche il modo in cui poi questa libertà deve esprimersi nelle decisioni politiche che riguardano tutti e quindi la libertà di voto, se vogliamo davvero che sovrano non sia più uno o pochi, o anche solo un governo, ma sovrano, secondo una lunga battaglia civile combattuta nel mondo, sia il popolo organizzato, capace quindi di esprimere pensieri, opinioni, programmi, di mettere a confronto grandi idee su cui misurare l’avvenire del popolo. Quando pensiamo a tutto ciò che è stato il cammino della libertà di pensiero, di voto, di organizzazione, ritroviamo subito la presenza della lotta operaia e lo dico senza negare nulla a ciò che ha rappresentato nella storia dell’umanità, anche il cammino della libertà borghese, senza togliere nulla a quello che è stato il contributo dei grandi pensatori del mondo borghese, dei filosofi, dei giuristi, di coloro che in qualche modo hanno portato l’umanità fuori dai limiti del mondo medievale, senza togliere nulla a ciò che è stata nella storia, ad esempio, la grande rivoluzione francese; non possiamo però non ricordare come ha camminato poi anche la libertà di pensiero e di voto; non possiamo dimenticare che per tanti anni quella libertà di voto sembrava fosse un diritto generale, ma non era vero, perché a votare ci andavano dapprima solo poche migliaia e poi ancora poche decine di migliaia ed ancora cinquant’anni fa metà Italia, le donne, erano escluse da questo diritto elementare. Chi alzò per primo e condusse avanti con più tenacia la battaglia per questo che adesso a noi sembra un diritto imprescrittibile? Furono gli apostoli, i pionieri che venivano dalle file vostre, i capi-operai che a volte, sfidando il potere, con il sangue e la repressione andarono nei decenni lontani e già alla fine del secolo passato ad alzare appunto la bandiera del diritto di voto per tutti, della capacità di tutto un popolo di far sentire con il voto la propria volontà.
Ma la Costituzione di cui oggi celebriamo il trentennio non parla solo di questi diritti ed è nuova proprio perché apre un altro discorso e domanda che lo Stato non tolga e non violi questi diritti, ma la Costituzione è stato un grande fatto anche ideale nella storia del nostro Paese, perché parlando della dignità del cittadino non si è arrestata a dire: ecco allora, consentiamogli certe cose e tu, Stato, gliele devi permettere, ma ha parlato di una libertà che doveva essere costruita, ha detto che per poter votare e pensare bisognava che l’operaio potesse partecipare al sapere, alla cultura, alla istruzione e la scuola fosse aperta a lui. Ha detto ancora che dignità e libertà non ci potevano essere per l’operaio affamato, disoccupato, costretto a guadagnarsi il pane; che libertà perciò significava diritto al lavoro non come elemosina, ma lavoro che permettesse al cervello alla mente dell’operaio di poter creare e intervenire; ed ha detto ancora che libertà doveva e poteva consistere nella tutela dei beni elementari della sicurezza della vita, della difesa della salute e chiedeva, quindi, non soltanto che lo Stato non vietasse, ma che intervenisse a garantire tutto questo e operasse per aprire questa strada.
Il compagno Mazzuoli ha ricordato giustamente quell’articolo fondamentale che è l’art. 3 e quelle norme celebri nelle quali parlando della libertà dei cittadini, subito si dice che perché potesse vivere questa libertà, non solo bisognava assicurare determinati diritti, ma bisognava incidere nel profondo, portare lo sguardo e l’iniziativa dello Stato non più soltanto a livello della vita politica, ma bisognava andare a portare l’occhio dentro la fabbrica per vedere come qui si esprimeva la divisione in classi e quindi l’oppressione, l’alienazione dell’operaio, la disuguaglianza sociale che faceva a volte di cittadini che dovevano essere uguali dinanzi alla legge, due cose radicalmente diverse: uno che aveva nelle mani i grandi mezzi di produzione e l’altro, il proletario, che entrava qui dentro senza avere nulla che la sua capacità di lavoro, le sue braccia, la sua mente; uno che stava da una parte, in una classe che deteneva il potere e l’altro che era ancora lontano dal potere e che da tante parti vedeva presentarsi nella sua vita ostacoli che gli rendevano difficile partecipare non solo ai diritti di libertà, ma esprimere il suo diritto fondamentale a intervenire nell’organizzazione generale dello Stato; quindi, diceva la Costituzione: sì, siano uguali di fronte alla legge tutti i cittadini, ma bisogna che l’operaio possa essere cittadino intero e quindi uguale agli altri.
Domandava perciò grandi riforme strutturali, non si fermava solo a vedere come doveva essere organizzato lo Stato ed il Parlamento e le leggi elettorali, ma voleva che lo Stato mettesse l’occhio nel modo in cui era organizzata la produzione e domandava perciò – ecco la grande novità – una programmazione, una capacità dello Stato repubblicano di saper realizzare l’uso sociale della proprietà, ma contemporaneamente domandava che questo diritto di proprietà non venisse usato contro l’interesse generale perché nessuno dimentichi che quella ricchezza che ha nelle mani deve pure rispondere a bisogni generali, della collettività se è vero che nasce da un grande, profondo lavoro collettivo di cui voi – compagni operai – siete la prima cellula.
Ecco allora che la Costituzione non si limitava a cancellare il regime dittatoriale fascista, ma parlava di democrazia politica, chiedeva una democrazia nuova che non fosse soltanto la delega data ogni cinque anni ad un governo o anche ad un ceto politico, ma domandava una democrazia diversa che consentisse continuamente a quelli scelti da voi con il voto di ascoltare e collegarsi continuamente con una rete generale democratica; non vedeva perciò solo uno Stato che si esprimeva a Roma, nella capitale, o anche nel Palazzo Montecitorio e nel Palazzo Madama, ma si diramasse nei Comuni, nelle Regioni, voleva decentrare lo Stato per permettere anche una via che consentisse ai lavoratori di partecipare alla gestione dell’azienda.
Questa è la Costituzione, ma certo, amici e compagni operai, nel momento in cui parliamo della novità che ha rappresentato, essa usciva anche da un travaglio, recava contraddizioni non risolte, per cui subito si aprì una battaglia sulla sua interpretazione, sul suo significato, perché questa Costituzione, proprio perché chiedeva una trasformazione così profonda, chiedeva una lotta, perché indicava il cammino del processo. Hanno fatto bene i compagni a ricordare gli articoli che purtroppo sono rimasti solo sulla carta e non realizzati, le contraddizioni, le distorsioni e qualche volta anche le violazioni gravi che sono state compiute nella Costituzione.
Costituzione perciò è lotta, vive nella lotta ed ha camminato anche di fronte a chi la voleva mutilare, proprio perché continuamente abbiamo cercato insieme – tutte le forze sane del Paese – di farla vivere e di farla crescere nella lotta delle masse.
Vorrei rispondere a chi si domanda: ma allora erano solo promesse, parole al vento, a che ci servivano? No, è stato importante che quelle parole fossero state scritte, ricordatevi che furono importanti anche quando non furono realizzate, anche quando venivano calpestate; ricordatevi quante volte, manifestando, scioperando, lottando nella piazza, di fronte anche a chi, a nome dello Stato, colpiva e violava il vostro diritto, non è vero che la Costituzione non fu nulla, perché consentì a voi di dire a chi faceva il sopruso: la Costituzione sta dalla mia parte, non dalla tua, siamo noi classe operaia che alziamo la bandiera della Costituzione. Ricordiamoci quanto è stato importante il potersi richiamare alla Costituzione, per tutta una serie di diritti operai e non dimentichiamo che abbiamo potuto dare vita, negli anni Sessanta, a quella carta importante rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, che ha accompagnato tante lotte vostre ed ha dato il quadro in cui lo stesso Consiglio di fabbrica poteva realizzarsi. Se abbiamo potuto votare in Parlamento quella legge così significativa, questo è stato possibile perché nessuno ha potuto dire che la Costituzione diceva il contrario e votando quella legge abbiamo potuto dire che essa era concorde con la legge fondamentale dello Stato, per cui anche quelle parole che qualcuno oggi sostiene che furono frasi al vento, avevano un loro valore, ebbero un loro significato, aprirono uno spazio e sono state la base attraverso cui voi avete fatto camminare tante conquiste umane, tante visioni nuove della dignità del cittadino, avete potuto gettare alleanze proprio perché avete potuto parlare all’uomo della piccola e media borghesia, a volte anche all’imprenditore dicendo: ma no, noi stiamo nel quadro di questa legge fondamentale e avete potuto fondare la vostra lotta richiamandola a questa bandiera.
Parlo di questo, non per velare le difficoltà e le contraddizioni, ma perché sia chiara tutta la potenzialità che sta dentro questa “carta”, pur con tutti i suoi limiti, soprattutto per affermare l’attualità profonda, più che mai oggi, di tenere viva ed alzare limpidamente questa bandiera proprio di fronte alle vicende che abbiamo sentito dagli operai, al dispiegarsi di una crisi grave, pesante che sta investendo il Paese, sia sul terreno delle libertà democratiche, dell’ordine democratico, sia sul terreno della vita difficile e travagliata della nostra economia, sia di fronte alle questioni di fondo che emergono da questa crisi.
Giorno per giorno, amici, operai della Terni, risulta chiaro che questa crisi non è un fatto congiunturale, di pochi mesi, non è una qualsiasi attenuazione del ciclo naturale di sviluppo dell’economia capitalistica, ma siamo ormai di fronte ai limiti che ha raggiunto un certo tipo di sviluppo e anche ai guasti palesi che questo tipo di sviluppo, anche con i cambiamenti che ha portato, ci sta portando a difficoltà cruciali, non solo a problemi gravi per ciò che riguarda leggi decisive della Repubblica – per esempio il bilancio dello Stato che non quadra più proprio perché questo tipo di sviluppo, invece di portare avanti uno sviluppo produttivo sano, all’altezza dei tempi, molto spesso ha fatto ricorso alle toppe messe alle ferite, ai regali dell’assistenzialismo, alle “elemosine” per tacitare i bisogni di questo o quel ceto, per cui siamo arrivati a un livello di dissesto ormai insostenibile. Così come appare chiaro – quando vediamo non più solo la piccola industria debole, ma addirittura i grandi colossi dell’industria italiana – come oramai siamo di fronte a necessità di riesami profondi, di allargare l’occhio verso nuovi orizzonti produttivi, di uscire da una situazione di provvisorietà che in troppe grandi aziende italiane ha creato situazioni di indebitamento e di precarietà e un vivere alla giornata, che oramai non sta più in piedi. Di fronte a questa crisi, lo Stato non può più continuare nella vecchia opera di mettere qualche toppa a valle, senza intervenire nei guasti che sono determinati a monte, quando ormai tutti sappiamo e vediamo che le origini del male stanno più nel profondo, nell’assetto produttivo, nella debolezza dell’economia italiana, nel tipo di sviluppo che è stato organizzato in questi anni. La Costituzione già trent’anni fa, pur nei suoi limiti, conteneva una grande intuizione, quando parlava appunto di programmazione, quando diceva che la ricchezza della società non può essere affidata alla spontaneità di uno, non può essere lasciata al gioco del mercato che non esiste più, se è vero che l’economia pura non esiste più e sempre più – dicevano i filosofi e gli economisti liberisti di un tempo – lo Stato interviene nell’economia. Non può essere lasciata, cioè, al gioco selvaggio della concorrenza o all’intervento dei monopoli, ma sempre più deve essere orientata secondo fini generali da questo nuovo organismo che è lo Stato repubblicano.
(…)
Quando voi domandate che il governo intervenga, ecco la ragione di questo nostro incontro, voi lo potete fare in nome della Costituzione e quindi è falsa e limitata la posizione dell’estremismo di sinistra che straccia queste cose, che le nega. No, tanto più forte sarà la posizione degli operai se potranno rivolgersi a chi presiede alla vita nazionale, in nome di leggi, di istituzioni che sono state rese possibili proprio dalla Costituzione repubblicana e dalle linee di diritto che ne emergono. Non è quindi un pezzo di “carta”, non è una cosa da nulla, ancora oggi è un’arma nelle vostre mani, è una forza da sapere adoperare. Gli operai regredirebbero nella loro lotta se rinunciassero non solo a parlare in nome della Costituzione, ma a intervenire ed a domandare un ruolo nuovo dello Stato repubblicano. Se dimenticassimo queste cose, non avanzerebbe la lotta operaia, ma regredirebbe gravemente.
Quando sento la seminazione del qualunquismo sulla bocca delle squadracce fasciste, la comprendo bene: tutta la loro battaglia è stata questa, di prendere lo Stato in poche mani, di lasciarne fuori la classe operaia, di impedire che la classe operaia agisse nello Stato; ma non capisco più quando vedo gruppi che si dicono di sinistra proporre che la classe operaia di tutto questo non si interessi e considerino lo Stato come qualcosa che non li riguarda. Noi rispondiamo non solo che non siamo disposti a questa rinuncia per lo Stato nato dalla Resistenza, per cui abbiamo combattuto, ma noi diciamo che il giorno che gli operai abbandonassero questo terreno non sarebbe una lotta più avanzata, ma vorrebbe dire che avete rinunciato alla lotta per trasformare il potere, per realizzare la battaglia più avanzata che c’è da compiere. La lotta nello Stato e per lo Stato non è una lotta opportunista e arretrata, anzi è il portare la lotta vostra al livello più alto e difficile; non è certo un terreno facile, ma è un terreno più avanzato che ci è necessario. D’altra parte, potete fare altrimenti, amici operai? Le piattaforme elaborate dai Consigli di fabbrica, che nacquero sulla base di uno scontro sul terreno del salario, a volte partirono dalla rivendicazione che riguardava solo la quantità del salario e poi vedeste che non vi potevate fermare solo alla quantità, perché quei soldi che vi davano, poi vi venivano ritolti dall’inflazione. E poi quei soldi vi venivano negati o tolti se l’organizzazione del lavoro dentro la fabbrica, i tempi, i ritmi, i modi con cui veniva organizzato il lavoro, vi stringevano in maniera tale che vi poteva lasciare sì qualche manciata di lire, ma come ridotti? Si trovò allora che la lotta per il salario, se voleva vivere, doveva investire l’organizzazione del lavoro e si vide presto che non era possibile separare la fabbrica, quasi fosse un mondo a sé, dalla città, dal territorio, dalla società e che se volevamo parlare della condizione operaia, non ci si poteva fermare a ciò che avveniva qui dentro, ma all’ora in cui vi alzavate, al cammino che facevate, all’organizzazione dei trasporti, ai sistemi in generale, all’assetto del territorio, alla casa che non avevate o che costava carissima, al modo in cui era organizzato il sistema di tutela di quella salute che poi vedevate consumata qui dentro. Si vide ancora che affrontare queste riforme però chiamava in causa qualcosa di più in generale, i soldi dello Stato, il modo in cui venivano adoperati e la questione del lavoro non poteva essere risolta solo guardando all’orizzonte dell’azienda, perché se era così, davvero si restava in un vicolo chiuso e quindi dalle grandi battaglie del ’60 venne fuori il bisogno dei Consigli di fabbrica di lanciare la parola d.’ordine dei Consigli di zona.
Che cosa era quella parola d’ordine se non la necessità che il Consiglio di fabbrica sentiva di collegarsi anche a chi non era dentro la fabbrica, di allargare la sua tematica e quindi di cominciare a fare i conti non solo con la società, ma con lo Stato? Ecco allora il bisogno di parlare della Costituzione, per parlare dello Stato e per parlarne genericamente. Qualche volta mi scontro con questa difficoltà; operai, lavoratori che mi domandano: ma che fate a Roma, o che mi dicono: fate, o mi domandano cose che io o altri non possiamo fare in queste condizioni. Sento quindi il bisogno di questa iniziativa e la intendo non come una giornata nella quale ci siamo riuniti e poi tutto finisce, ma un lavoro che mi permetto di proporre al Consiglio di fabbrica.
Torno al significato della Costituzione, perché non ci si limiti a capire le parole scritte in quegli articoli, ma che cosa è e come funziona lo Stato repubblicano, uno Stato moderno che è una cosa complessa e che spesso appare così misteriosa. È in opera, alla Camera di Montecitorio, dove io lavoro, una Commissione parlamentare, cioè uno degli organismi ristretti, espressione delle due Camere, che deve seguire un tema di grande interesse per tutti: la politica, la vita e lo sviluppo delle Partecipazioni Statali e quindi della “Terni”. È una Commissione che ha pochi mesi di vita e che è sorta da una legge che forse conoscete e che è quella per la riconversione industriale. È una novità che può essere di grande interesse, proprio per voi e per la vostra battaglia; può essere di grande interesse anche per le forze dirigenti di un organismo così complesso, importante e delicato quali sono le partecipazioni statali e quindi la “Terni”. La nascita di questa Commissione è connessa ad alcune questioni di orientamento costituzionale che forse qualcuno di voi potrà dire a un primo esame: che significa, o addirittura che me ne importa? Ma invece peseranno molto sulla vostra attività, perché questa Commissione è sorta in base a una discussione che riguarda l’attività del Parlamento. La domanda può sembrare semplice, ma è una grande questione controversa che si collega al tema della Costituzione. Detto in breve, cosa deve fare il Parlamento? Deve fare solo delle norme generali che poi devono essere applicate, oppure – come mi sembra giusto – il Parlamento non deve fare solo delle leggi, ma deve esprimere un indirizzo politico, deve indicare nel quadro di quelle leggi quale è la politica che poi deve essere fatta dal Governo?
Se il Parlamento deve limitarsi a fare solo delle leggi, allora vuol dire che una parte fondamentale della sua attività, l’indirizzo, verrà fatta fuori del Parlamento. Allora vuol dire che si potrà fare sì una legge sull’industria di Stato, ma l’orientamento produttivo da dare per esempio all’industria di Stato rimarrà nelle mani di altri, uscirà dalle aule del Parlamento. Ecco allora che si è potuta formare questa Commissione; proprio perché è stata una battaglia lunga che ha riguardato la Costituzione ed è venuta fuori vincente la linea che diceva: no, il Parlamento scritto nella Costituzione non può solo fare le leggi, esprime la sovranità del popolo proprio perché continuamente indirizza l’azione del governo e di tutta l’amministrazione dello Stato e solo così si realizza il ruolo sovrano del Parlamento. Avete sentito spesso parlare di centralità del Parlamento, quest’ultimo inteso come organo centrale della vita politica. Questo è di grande importanza per voi, perché se sarà il Parlamento che interviene a indirizzare, allora vuol dire che per i vostri problemi avrete un interlocutore nuovo e non sarà solo un ministro con cui voi vi troverete a trattare, ma vi potrete trovare a trattare per esempio con quella Commissione parlamentare, con un interlocutore democratico che esprime in qualche modo la volontà del popolo e che è costretto a quella che è la trasparenza delle decisioni, per cui tutto quello che viene discusso con lui e gli impegni che vengono presi non vengono affidati alla buona volontà di uno, ma possono essere sottoposti al controllo vostro.
Quante volte il Consiglio di fabbrica – ed anche il sindacato io sostengo – ha sperato che la cosa si potesse risolvere solo nell’incontro e nella trattativa con il ministro e se ha avuto nelle mani un pezzo di carta, ha dovuto poi verificare che quella volontà del ministro o non si realizzava o non concordava con altre volontà e vi siete trovati disarmati. Io dico invece che se cammina un nuovo potere centrale del Parlamento, voi avrete la possibilità prima di tutto di conoscere, di controllare e vedere come sono realizzate le conquiste. Queste sono questioni fondamentali per i temi ardui, difficili che riguardano la forza dell’industria di Stato, la forza della tecnica nuova, l’avvenire stesso della Regione: problemi che ormai richiedono un grande slancio creativo come credo sentite tutti quanti voi e anche i dirigenti di questa azienda.
Ecco allora il punto: come funzionerà questa Commissione? Ha cominciato a camminare; io ho parlato con il presidente della Commissione e ho visto subito i problemi, gli ostacoli. Quali saranno i loro poteri, con quali forme verranno esercitati? Quando noi sottolineiamo il ruolo del Parlamento per determinare un indirizzo, noi non chiediamo ai dirigenti della “Terni” – scusate il termine – di essere solo dei servi, degli esecutori o della gente che fa solo un lavoro burocratico; no, proprio per potere lavorare bene in Parlamento, noi abbiamo bisogno che ci sia l’autonomia del confronto, il contributo dell.’intelligenza, la forza creativa anche del mondo della tecnica e delle forze manageriali che sono qui dentro. Io credo che sia interesse del mondo della tecnica aprire questo discorso nuovo in Parlamento e quindi credo sia un interesse profondo del sindacato e del Consiglio di fabbrica non stare chiuso, lontano, ma avere il contatto con le istituzioni e non solo con il singolo ministro o con il sottosegretario o con il direttore generale di questa o quella amministrazione, ma con quella grande casa di vetro che devono essere i Palazzi di Montecitorio, e di Palazzo Madama, in modo che lo Stato non sia qualcosa di lontano, ma qualcosa con cui voi dialogate, perché questo è il modo con cui non solo le vostre rivendicazioni, ma anche la vostra capacità di autogoverno va avanti.
Quante volte ho sentito rivendicare l ’autonomia del sindacato, il suo bisogno di avere un suo ruolo e una sua funzione, anche diversa dal partito politico! Io credo che questa autonomia voi la potrete esercitare realmente quando dirimpettaio vostro non sarà solo un uomo o un burocrate, ma quanto più saranno le forze democratiche dentro il Parlamento che parlando con voi non possono mai dimenticare che poi devono rendere conto agli operai, cioè a voi. Ecco il valore della democrazia, ecco perché vi chiediamo un Parlamento che funzioni!
Per concludere, vengo a parlare dell’ultimo tema: quello del terrorismo, che qui è stato sollevato. Ho fatto riferimento a Perugia ad una frase che ho letto in questi giorni, raccolta da un giornalista in una fila dinanzi a un ufficio di collocamento. Il giornalista domandava a una di queste persone della fila della crisi, e registrava una risposta che deve fare riflettere tutti e su cui io voglio ragionare per un momento; il disoccupato aveva risposto: ma io cosa ho a che fare con quelli là? Che mi importa?
Ho detto a Perugia che tutti dobbiamo riflettere su questa frase, prima di tutto ciascuno di noi che ha responsabilità politiche, che vive in un centro politico, perché dietro quella frase c’è il pericolo di un distacco, vuol dire che il discorso a volte adoperato dai politici non arriva a quell’uomo della strada, non si fa capire e guai se si determinassero due linguaggi. Noi abbiamo fatto la Resistenza che stiamo qui celebrando perché sapemmo parlare un linguaggio unito, di politici alla gente del popolo e senza quel linguaggio comune non avremmo potuto vincere i tedeschi e i fascisti.
Quindi, quella frase è anche un grido d’allarme che deve dire a noi – mi permetto di dire anche ai dirigenti e ai capi del sindacato – che bisogna sapere costruire momento per momento, ma sento che se non so comunicare quella cosa giusta al lavoratore che è la forza della democrazia, che è l’alleato delle idee giuste, anche quella idea giusta non vive, resta morta, resta chiusa nella mia mente e quindi debole, incapace di passare e perciò se voglio che si affermi nella sua giustezza devo trovare il modo con cui essa arrivi fino all.’uomo semplice della strada e si incontri con la sua esperienza.
Dobbiamo imparare tutto questo, dobbiamo capirlo e dobbiamo andare a scuola dall’esperienza; ma c’è anche il rovescio, compagni operai; è vero che i politici devono saper comunicare, parlare ed intendere quello che voi dite, ma è vero anche che è stato sempre un errore grave, fatale l’illusione che ci si potesse disinteressare di quelli là. Io capisco l’amarezza di quel disoccupato quando dice: che me ne importa, la sua rabbia e la delusione, ma io dico a lui: se tu ti disinteresserai di quelli là, non diventerai più forte, ma più debole, sarai isolato, perché c’è stata sempre la debolezza della classe operaia nel rinunciare a fare i conti con lo Stato, nel non misurarsi con ciò che è lo Stato. Tutti dobbiamo capire cosa significa oggi lo Stato; questa è anche la strada per affrontare il grande problema qui sollevato del terrorismo. C’è paura, allarme, indignazione e lo ricordavano poco fa i compagni e sentiamo che la cosa turba profondamente le coscienze. Ma state attenti! Chi agisce così, sia le squadracce fasciste, sia i gruppi disperati o sciagurati che giocano la stessa carta e lo stesso tipo di lotta, quando si va a vedere, su una cosa puntano fondamentalmente? Sulla paura, sul cacciare la gente dalle piazze, sull’impoverire le manifestazioni, sull’isolare gli individui, sull’allontanarli dalla vita politica, sullo spingerli alla frantumazione e all’isolamento. Così solamente si spiega il modo con cui hanno organizzato attentati, il fatto che a volte viene colpito qualcuno che non sai neanche perché.
Perché a volte hanno colpito quello che non è né un magnate, né un miliardario, né un responsabile di chissà che, se non perché vogliono dare l’impressione che tutti possono essere colpiti e quindi fare paura e ridurre in questo modo la politica a quella che io chiamo lo scontro di squadre?
Allora la vittoria più grande che possano ottenere è che vinca questa paura di massa. Ma allora, per lottare contro il terrorismo, per affrontare la violenza, per difendere la democrazia, la risposta vera è nella lotta di massa, è nell’azione collettiva, è in una grande campagna di massa. Ed io dico a voi, classe operaia, grande forza coalizzata e organizzata, siete l’arma fondamentale sia per combattere le sciagurate imprese del terrorismo, sia per rivendicare che lo Stato faccia fino in fondo il suo dovere, come deve farlo in nome della Costituzione repubblicana.
Ricordiamoci quali sono state le armi fondamentali della vostra vittoria; ricordatevi gli anni della Resistenza, quando voi, con i compagni Farini e altri, mettevate in piedi le organizzazioni clandestine, ricordatevi quanto sforzo si faceva, anche di fronte alla polizia fascista, per non ridursi mai all’atto isolato: come abbiamo respinto, anche contro i barbari nazifascisti, l’uso dell’attentato terroristico isolato e non solo per una ragione di principio, ma perché sentivamo che dietro l’atto di uno non si esprimeva una forza vincente. Se volevamo combattere il fascismo non dovevamo ricorrere all’atto isolato che gli altri non capivano, ma all’atto comune, collettivo, consapevole che riusciva a mobilitare migliaia e migliaia di uomini. Così facevamo la lotta per tenere i congressi, le riunioni di cellula, anche sfidando la polizia, per non essere mai uno, ma tanti. Così diffondevamo i volantini, così chiamavamo a discutere e che avete fatto voi, compagni operai, qui dentro quando avete fatto il Consiglio di fabbrica e indetto le assemblee di fabbrica incentrando la discussione non solo sulle piattaforme contrattuali, ma su tutte le varie tappe della lotta? Perché in tutte quelle assemblee, avete detto: no, a queste assemblee non partecipano solo quelli che hanno la tessera della Cgil, della Cisl, della Uil, ma vi partecipa anche chi non è iscritto al sindacato, perché avete fatto questo se non per la convinzione che la forza vostra stava nella lotta di massa, nella autodisciplina e nella organizzazione di massa, se non per lo scrupolo e la volontà di chiamare anche chi non stava già nel sindacato, a partecipare e a coinvolgere? Questa è l’arma che bisogna adoperare ancora oggi: lottare insieme e voi, classe operaia, forza fondamentale, cellula decisiva della democrazia, siete l’asse, l’avanguardia di questa battaglia. Questa lotta bisogna costruirla ogni giorno e dobbiamo costruirla dinanzi alla prova che quotidianamente i fatti e la crisi dinanzi a noi ci pongono.
Andiamo verso momenti aspri e gravi, attraversiamo una crisi che ci pone di fronte a dure prove, ma dice oramai come tutto un tipo di sviluppo non regge più, non sta più in piedi e bisogna andare verso orizzonti nuovi, e chi, se non voi, operai, uomini del futuro, può aprire la strada a questo domani che non ci consente di ripetere le cose passate, forse di imitare tutto quello che già esiste, ma che domanda che noi creiamo qualcosa di nuovo. Ecco cosa sta dinanzi a noi: un grande compito creativo; ecco allora come il discorso sulla Costituzione si lega al presente, a questa grande battaglia da condurre; la Costituzione non vuole omaggi, riti, non vuole inginocchiamenti, ma vuole che sia portata avanti nella realtà dalla lotta, perché viva la grande speranza di una società nuova che è scritta in quelle pagine. Ho tenuto questa assemblea in un capannone e se la paragono, non solo fisicamente, all’assemblea cui partecipo a Montecitorio, quando sono seduto sul mio seggio, come sono diverse non solo le cose fisiche, ma l’aria, i volti e le esperienze! Forse abbiamo bisogno tutti non di mischiare queste assemblee, ma di intrecciarle; ne abbiamo bisogno noi, che stiamo là per ascoltarvi, per capire, per prendere contatto con i vostri bisogni e le vostre domande, per intendere cosa volete voi che siete presidio della democrazia, per non restare lontani isolati. Se c’è una cosa di cui sento il bisogno – e per questo vi ringrazio – è quella spesso, più che posso, di uscire da quelle sale e capire un po’ meglio e conoscere la realtà; non per vedere due cose separate, ma anche per cercare di fare meglio in quelle sale: forse abbiamo bisogno di questo e forse voi stessi ne avete bisogno. Permettetemi di dire una cosa che è anche un’osservazione. Una parte importante del lavoro che facciamo a Montecitorio non è solo quella che faccio in aula quando dirigo, ma una parte importante è il numero delle delegazioni che ricevo, che vengono a portarmi tutta una serie di problemi, che riguardano i ceti più diversi, organizzazioni, corpi dello Stato, delle forze armate, dell’economia, dell’amministrazione della giustizia e così facendo si capiscono tante cose. Io faccio sì che questi incontri non siano solo formali, ma di dialogo. Le delegazioni che non ho ancora incontrato – e sarà per colpa mia – sono state le delegazioni dei sindacati e dei Consigli di fabbrica. Se non ricordo male, è stata solo l’Alfasud che è venuta da me con una delegazione del Consiglio di fabbrica; forse io stesso potevo fare di più, ma vorrei che gli amici, i compagni dei Consigli di fabbrica e dei sindacati ci pensassero un po’ sopra. Credo che questo non tocchi minimamente l’autonomia del sindacato, ma anzi credo diventi più forte se viene a parlare di più nei corridoi un po’ ovattati di Montecitorio. Credo che dobbiamo incontrarci tutti noi e forse possiamo pensare a un altro momento in cui possiamo fare un altro passo in avanti, perché oggi parlano, compreso me, tutti quelli che stanno dietro il tavolo, non parlano gli altri che stanno di là dal tavolo.
Non voglio fare demagogia, non credo molto alla spontaneità fatta così, ma – questo, ve l’assicuro, lo dico sinceramente – almeno per quel mestiere che sto cercando d’imparare, ho bisogno di andare ancora di più a incontri e assemblee in cui parlino quelli che stanno dietro il tavolo.
È una cosa da costruire, da realizzare anche perché penso a questi incontri non come a sfoghi, proprio perché ho stima della classe operaia e domando che noi dialoghiamo, convinto che non mi verrete a portare solo la protesta, ma io penso a un dialogo in cui si possa discutere insieme di problemi gravi, difficili e complicati. Voi mi raccontate delle vostre difficoltà e dei vostri problemi e anch’io vorrei raccontarvi un po’ delle mie difficoltà e dei miei problemi, del modo in cui è difficile far funzionare in modo moderno e nuovo questo Parlamento e questo Stato.
Abbiamo detto: Costituzione repubblicana, l’abbiamo salutata, amici, compagni, lavoratori di Terni. Io sento che il destino di questa “carta”, di questa pagina della Resistenza, di questa grande eredità che ci hanno lasciato quelli che morirono e combatterono sta qui, se c’incontreremo, se parleremo, se discuteremo insieme non solo dei nostri bisogni, ma dello Stato nuovo, della democrazia nuova, per la società che vogliamo edificare, per la libertà, la vittoria e l’avanzata del popolo italiano.
 
 

*Discorso pronunciato alle Acciaierie di Terni il 10 febbraio del 1978 da Presidente della Camera dei Deputati in occasione dei trent’ anni dell’entrata in vigore della Costituzione e ora pubblicato in “La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro (1978 1996)”, a cura di Francesco Marchianò, prefazione

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