Il Mediterraneo è la tomba dell’Europa

Il Mediterraneo è la tomba dell’Europa

Stefano Galieni*
 

“L’Europa nasce o muore nel Mediterraneo”. Aveva ragione Alex Langer e non ha avuto il tempo per capire quanto la sua affermazione fosse orrendamente profetica. E ogni volta che si ha notizia di un naufragio – ma è più corretto chiamarla strage premeditata – , ogni volta che riaffiorano dal mare o su qualche spiaggia, corpi, volti, documenti, resti di uno scafo, quello che rimane del continente opulento in cui viviamo, affonda, si disgrega, si macchia di ulteriore sangue innocente. La guerra che silenziosa e pervasiva si combatte davanti alla fortezza Europa non nasce ieri, i suoi carnefici fanno parte della storia delle istituzioni UE, hanno contribuito con i loro provvedimenti legislativi, con le risorse impiegate per salvaguardare i sacri confini, con i soldi donati a dittatori di ogni risma per subappaltare il lavoro sporco, con il cinismo razzista e colonialista, funzionale ad ottenere consenso, a far divenire il Mediterraneo la tomba dell’Europa e dei suoi antichi ideali progressisti. E ci si guardi in faccia, chi può proclamarsi innocente? Parliamo ancora di democrazia che ci distingue dal resto del mondo? Beh attraverso questa democrazia della presunta conservazione di privilegi, in tante e tanti, hanno votato quelle forze politiche, quei parlamentari, nazionali ed europei, che hanno reso e rendono possibile le carneficine che non hanno bisogno né di bombe né di missili, è sufficiente disobbedire alle primordiali leggi del mare e lasciare affogare chi forza le frontiere, chi pretende di godere dei benefici occidentali senza averne diritto. Oggi si punta il dito, giustamente, sulla Guardia costiera greca, che ha, molto probabilmente lasciato affondare un barcone di 30 metri in panne eludendo 19 richieste di aiuto. A detta dell’Unhcr, l’Adriana, questo il nome dell’imbarcazione, potrebbe essersi capovolta mentre una nave greca tentava con una cima, di trascinarla fuori dalle acque di competenza ellenica, per lasciare ad altri il dovere di soccorrere. Del resto il primo ministro da poco confermato, Mitsotakis, di Nea Demokratia, era stato chiaro “basta soccorsi in mare”. Gli hanno obbedito. Poche le vittime recuperate, 78, a 47 miglia dall’isola di Pylos, nel Peloponneso, 104 i sopravvissuti, di cui si sono viste le immagini, chiusi in gabbia, come se già non bastasse, una cifra indefinita quelli di cui si è persa ogni speranza e che giacciono sul fondo del mare, nella stiva in cui, soprattutto i bambini avevano trovato riparo. 500, 650? Ha senso parlare di numeri o, se un senso è possibile recuperarlo, è più necessario ridare un nome a chi è sparito? Ci sta provando, non da sola, una delle poche persone a poter parlare a testa alta da tanti anni. Nawal Soufi, cittadina marocchina, cresciuta a Catania, che da oltre 10 anni ha fatto del sostegno a chi fugge la propria ragione di vita. Anche stavolta hanno chiamato lei per chiedere aiuto, anche stavolta ha dovuto assistere all’ennesimo crimine. Un post che ha pubblicato sul suo profilo dice più di mille convegni: “Cara Nawal. Mio papà è tra le persone che c’erano di quel viaggio. Ci ha contattati da un numero greco e si trova in un ospedale in Grecia. Mamma Nawal non dimenticheremo questa tragedia. La ragazza che era in contatto con te aveva 20 anni ed era di Daraa ed amica mia. Non dimenticherò la tua e la sua voce. Il nodo in gola è troppo grande e il dolore è inenarrabile. La ragazza si trovava nella stiva con la sua famiglia ed erano rinchiusi. Hanno già pubblicato un necrologio per la ragazza e suo fratello che Dio sia clemente con loro. La tua voce è nella mia testa da due giorni e non la dimentico. Se riesci a leggere questo messaggio ricordati di quante persone avevano le speranze appese alla tua voce. Che Dio possa compensarti lo sforzo e tutti i tentativi che hai fatto che è già tanto”. Ricevere, come Nawal ha ricevuto, un messaggio simile, toglierebbe il sonno a chiunque, eppure lei non si ferma, come non si ferma Giorgia Linardi, di Sea Watch, che, intervistata da una tv britannica, dice senza tema di essere smentita: “oltre all’Agenzia Frontex” altri tre Stati europei sapevano di quella nave in difficoltà”, uno era certamente la Grecia, gli altri? L’Europa tace.

L’Europa tace da molto tempo. Ha taciuto quando nel Natale del 1996, 283 persone affogarono al largo di Porto Palo, quando, il venerdì santo del 1997, la Kater I Rades, venne speronata, da una motovedetta italiana sullo Jonio, militarizzato in seguito al blocco navale voluto da Prodi, un centinaio i morti. Lo stillicidio è continuato negli anni e spesso neanche faceva più notizia se non per i parenti di chi non arrivava, per il mondo delle e dei solidali, delle poche voci che si levavano con indignazione. Ma il problema era fermare gli arrivi, bloccare le partenze, “rendere più rischiosi i viaggi”, affermava un’informativa del Sisde nel 2006. L’imperativo era già non affrontare le cause che portavano a cercare la fuga – guerre, persecuzioni, assenza di futuro, disastri ambientali – pagare dittatori come Gheddafi per impedire di imbarcarsi, dando a lui e ad altri, ma gli errori non insegnano, un potere di ricatto potentissimo. Poi due eventi inimmaginabili, anche per il cinismo dei privilegiati, come la strage a Lampedusa del 3 ottobre 2013, (368 morti) e, pochi giorni dopo, l’11 ottobre, quella detta “dei bambini”, consumatasi fra Malta e Lampedusa, con 286 vittime di cui almeno 60 bambini. Cinque richieste di soccorso all’Italia rimaste senza risposta. Una motovedetta, la Libra era a 20 miglia, ma ricevette l’ordine di attendere l’intervento maltese che non giunse mai. L’ordine venne eseguito.

Le due vicende scossero l’opinione pubblica  e costrinsero l’allora governo italiano a far partire un’operazione finora mai realizzata, la Mare Nostrum, con cui in un anno vennero salvate oltre 130 mila persone. Ma vinse l’ira delle destre italiane, che parlarono di soldi regalati ai clandestini e dell’UE stessa, perché il nostro era paese di transito per raggiungere parenti e amici in altri paesi UE e quindi l’operazione si chiuse. Ripresero le stragi. Nella notte fra il 18 e il 19 aprile, nel Canale di Sicilia, fra Libia e Lampedusa, si rovesciò un’imbarcazione alta 23 metri e piena di persone stipate su tre livelli. Il numero dei “dispersi”, oscilla fra i 700 e i 900. Era già in atto una campagna attraverso cui si tentava di trovare, come unici responsabili i trafficanti, sovente confusi con gli “scafisti”, quelli a cui veniva dato, da chi gestiva realmente il traffico, il comando al timone, spesso richiedenti asilo come gli altri ma con qualche esperienza di mare.

Venne allora il tempo degli accordi con la Turchia, per fermare i profughi siriani, dell’osceno Memorandum fra Italia e Libia, con cui si finanziarono e si finanziano ancora le milizie e la sedicente Guardia costiera, anche in questo caso per effettuare il lavoro sporco e per detenere, sovente con violenze e torture, chi tentava di attraversare il mare. Venne il tempo in cui ci si rese conto che tutte le strategie utilizzate finora per fermare gli arrivi, le risorse impiegate per garantire l’inviolabilità dei confini, la stessa agenzia Frontex, ad ogni anno potenziata nei mezzi, erano fallimentari. Certo, con la divisione del Mediterraneo in “zone SAR” (ricerca e salvataggio), e con provvedimenti presi dai governi italiani di diverso orientamento, si è incrementato l’utilizzo di droni, aerei e sistemi di controllo e si è alimentata l’industria della “defence and security”, ritenuta un volano “per creare sviluppo industriale nel sistema-paese” in accordo con la EU Global Strategy della “StrongerEurope (2016) che ha garantito a pochissimi partners ‘eletti’, ad esempio la  Leonardo e Cantiere Navale Vittoria S.p.A, appalti milionari finanziati con fondi comunitari. In questo modo si è riusciti a rimandare in Libia quasi 100 mila persone in sei anni. Non conta che fine abbiano fatto, l’importante è che non siano qui. Sempre nel 2016 un nuovo attore era entrato in campo, quello che gli “statisti nostrani” hanno definito “taxi del mare”. Organizzazioni non governative, navi umanitarie che, senza sostegno di alcuno Stato, hanno salvato persone anche rischiando di essere raggiunti dai colpi di fucile dei militari libici, le hanno condotte in un POS (Place Of Safety), un porto sicuro quale non è la Libia. Hanno soccorso poco più di un decimo delle persone che partivano. Un crimine ovviamente per gli zelanti sostenitori della fortezza Europa. E quindi per loro un “codice di condotta” che ne limitava l’operatività, per loro la criminalizzazione, il fango, l’odio degli imprenditori della paura salviniani e di chi, autodefinendosi progressista, dichiarava di voler garantire, (con i respingimenti?) la tenuta democratica del Paese. Navi bloccate, con il loro carico di sofferenza a bordo, equipaggi e capitani – spesso capitane – messi sotto processo, per aver obbedito alle leggi del mare, ancora oggi perseguitati che continuano a tentare di impedire alle leggi degli uomini, non al mare cattivo, di potare via ulteriori vite. Con le novità introdotte dai nuovi governanti ora anche la beffa di costringere chi salva vite a raggiungere porti italiani che richiedono ulteriori 3 o 4 giorni di navigazione. Col cinismo si giustifica tutto.

Ma sin dal 2020, sotto pandemia, l’UE progettava nuovi strumenti di respingimento. Il New pact on migration and asylum, della Commissione europea, è rimasto in stand by per tre anni e ora, alla vigilia delle elezioni, viene rilanciato, come è avvenuto alla riunione del Consiglio europeo dei Ministri dell’Interno dell’8 giugno scorso. In quel testo, su cui si è raggiunto un fragile accordo fra i 27 ma senza il voto del gruppo Visegrad, pesa più ciò che non è scritto di quello che è trapelato. Aumenteranno i rimpatri, i trattenimenti dei richiedenti asilo che potrebbero voler fuggire, diminuiranno le garanzie per l’ottenimento di protezione che, nei fatti, da diritto soggettivo rischia di trasformarsi in concessione limitata alla provenienza da alcuni paesi che, secondo il nostro insindacabile giudizio di arbitri occidentali, saranno considerati insicuri. Gli altri via, verso i loro paesi o verso quelli in cui sono transitati, che spetti a questi ultimi risolversi i problemi. Paesi di transito che, indipendentemente da quanto garantiranno il rispetto dei diritti fondamentali, andranno sostenuti economicamente, altrimenti, si guarderanno bene dal riprendersi fuggitivi. Un disegno di pura propaganda, utile a raggranellare qualche voto alle prossime elezioni e nient’altro. Sarà il prossimo parlamento, in cui la presenza delle destre xenofobe sarà determinante per ogni decisione, ad attuare gli accordi raggiunti. E intanto? La strage di Steccato di Cutro (26 febbraio) e quella di Pylos con cui abbiamo iniziato, quelle meno note al largo della Libia e della Tunisia, ci dicono qual è il vero accordo raggiunto. Meno impegno nei soccorsi, lasciare che sia la sorte a decidere se una nave potrà o meno arrivare in Europa. Non avendo il coraggio di sparare – come chiedevano leghisti e fascistume vario – vinca Ponzio Pilato e ci si volti dall’altra parte ad ogni richiesta di aiuto. Il Mediterraneo (sia centrale che orientale) è divenuto un deserto. Un tempo era battuto dalle missioni Frontex, dalle motovedette dei singoli paesi, un tempo almeno le Guardie costiere rispondevano molto spesso agli SOS. Altri salvataggi ci saranno, per salvare la faccia, ma il messaggio verso chi parte è chiaro ed è di minaccia. “Se morirete la colpa sarà vostra che avete deciso di rischiare. Restatevene a crepare nei vostri paesi”. Minacce misere destinate a cadere nel vuoto o nel fondo del mare, l’accentuarsi di alcune crisi come in Tunisia, quanto sta accedendo nella Cirenaica del generale Haftar, che pretende risorse per fermare i profughi che ormai partono dai porti da lui controllati come Tobruk, – da cui è salpata la Adriana – facendo concorrenza ai governanti della Tripolitania, l’acuirsi dei tanti conflitti dimenticati, i 110 milioni di persone in movimento perché le terre in cui sono nate sono oramai devastate dai cambiamenti climatici, non lasciano scampo. Morire o rischiare di morire, è questa la sola scelta che resta e allora perché accettare un destino imposto dalle leggi del neoliberismo globale? Ci aspetta un’estate calda non solo dal punto di vista delle temperature. In Italia, per parlare di noi, il connubio fra lo stato di emergenza dichiarato dal governo, le deroghe per la gestione dell’accoglienza, che faranno rifiorire gli speculatori del settore, la necessità governativa di mostrare il pugno di ferro, fanno temere il peggio. Vale per noi, per i paesi europei del Mediterraneo, per quelli del centro e nord Europa che, in nome del bisogno di non favorire le destre, favoriranno in tutto e per tutto le pulsioni e le azioni di impronta unicamente repressiva e proibizionista. E forse per converso e come in uno specchio rovesciato, è un messaggio anche per chi in Europa ha il solo privilegio di essere formalmente cittadino e sembra condannato al destino dei “piccoli uomini”, ovvero di coloro che, in una società in declino, credono di poter aspirare ad una presunta posizione di superiorità fondata sul risentimento e la disconoscenza dei fondamentali diritti umani e democratici posti a fondamento della stessa casa politica comune. Piccoli uomini ormai abituati a questa barbarie, che paiono, non più capaci di mobilitarsi politicamente per tali valori perché pericolosamente deumanizzati. Compressi tra l’affarismo, i cambiamenti globali e la destra incalzante, entità in realtà colonizzatrice di una cittadinanza che essa ambisce a governare in maniera totalizzante

E riprendendo in conclusione Langer, a meno di una ripresa di azione profonda di quanto resta delle sinistre e del mondo realmente democratico, l’Europa sta decretando la propria morte. Sembra una nemesi ma la democrazia ateniese che, dovrebbe rappresentare, con le condizioni odierne, il punto di partenza per un continente di diritti, proprio dalla Grecia sembra spegnersi contaminando tutto il Mediterraneo. Non ci si può, non ci si deve arrendere. Come fanno Nawal, Giorgia, tante e tanti altri, si deve invertire la rotta per salvare il vascello su cui tutte/i noi navighiamo. Serve agire ed è necessaria la politica

Con la preziosa collaborazione di Elena Coniglio

*da Transform Italia


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