Un intervento inedito di Guido Picelli al Comintern

Un intervento inedito di Guido Picelli al Comintern

Guido Picelli, il protagonista delle Barricate di Parma del 1922, dopo aver aderito al Partito Comunista d’Italia (PCI) subisce le persecuzioni del fascismo. Liberato dal confino, grazie al sostegno del Soccorso Rosso Internazionale (MOPR) e su richiesta del Comitato centrale del Partito[i], lascia clandestinamente l’Italia. Dopo aver svolto azioni di propaganda politica in Francia e in Belgio, arriva a Mosca alla fine dell’agosto del 1932. Inizialmente, come molti altri emigrati politici italiani, comunisti e non, va a lavorare, come operaio, alla fabbrica di cuscinetti a sfera Kaganovic[ii]. Nello stesso periodo però compie dei viaggi in Svizzera e in Belgio per svolgere comizi e conferenze organizzate dai locali partiti comunisti e rivolte agli emigrati italiani, numerosi in quei due paesi. I suoi interventi sono contrassegnati dalla polemica anti-socialista, che accentua la critica ai “riformisti” già presente al tempo delle Barricate di Parma, ma resa ancora più aspra dalla influenza della linea del Comintern che in quegli anni è caratterizzata dalla strategia, fortemente settaria, della “classe contro classe” e dalla denuncia del “socialfascismo” quale pericolo principale[iii].

Nell’estate del 1933, anche su sollecitazione di Luigi Longo, diventa insegnante alla Scuola Leninista Internazionale, il principale strumento destinato alla la formazione di quadri politici che poi dovranno, tornati in Italia, costituire l’ossatura dell’iniziativa clandestina del partito. Sulla base delle sue esperienze e del suo interesse primario si occupa di “strategia e tattica militare”. Manterrà questo incarico fino all’ottobre del 1934, per poi svolgere altre attività di collaborazione con il Comintern[iv].

In proposito abbiamo la testimonianza di Luigi Leris che ha ricordato come “alla fine del corso normale ci fu presentato Picelli quale insegnante di un breve corso sulla strategia e tattica militare (…). Il nostro gruppo era composto da una ventina di giovani provenienti da diverse regioni d’Italia. Il corso iniziò con la conoscenza delle armi. Quell’inizio fu per Picelli una grande delusione in quanto nessuno di noi ne sapeva in merito. Dopo alcune indicazioni sulla strategia e tattica militare che poco ci interessavano, si passò all’arte partigiana, che portò fra noi un maggiore interesse. (…) Questi insegnamenti che amorevolmente ci trasmetteva furono molto utili.”[v]

E’ nella funzione di insegnante della Scuola Leninista Internazionale[vi], oltre che per la sua storia di combattente sempre in prima fila nella lotta contro il fascismo, che il 10 e 11 giugno del 1934 partecipa alla riunione della “Commissione italiana” del Comintern[vii]. Di questo incontro esiste un verbale redatto in francese, anche se Picelli, come molti altri oratori, interviene usando la lingua italiana. Il suo intervento è probabilmente sfuggito finora (almeno a nostra conoscenza) perché il dirigente comunista parmigiano viene indicato come “Ferro”. “Carlo Ferro” è lo pseudonimo che adotta dal momento in cui va a lavorare nella fabbrica Kaganovic[viii]. Anche gli altri dirigenti del partito che intervengono nella riunione utilizzano pseudonimi. Così Giuseppe Dozza (futuro sindaco di Bologna) figura come Furini, Mario Montagnana come Roncoli, Egidio Gennari come Maggi, Giuseppe Berti come Jacopo. Oltre alle figure più note si possono identificare anche alcuni degli studenti partecipanti: Amerigo Clocchiatti come Geschi (in realtà Ceschi), Giuseppe Gaddi indicato come Cendrinelli ma in realtà Sandrinelli,  Gaetano Invernizzi come Nardo e, presumibilmente, la sua compagna Wanda che compare senza pseudonimo, Alessandro Lucarelli come Cappa, Flor come Charron, Giacomo Pellegrini come Porro, Renato Cantarelli riportato come Baco ma in realtà Bacco, Giuseppe Ossola come Marin, Rosa moglie di Secondino Pessi come Barbieri[ix].

L’incontro vede l’attiva partecipazione di alcuni dirigenti del Comintern, in particolare il potentissimo Manuil’skij, che rappresenta il partito russo e che ne è di fatto il numero due, dopo il bulgaro Dimitrov che lo guida formalmente. Presiede la riunione il bulgaro Stepanov che poi verrà inviato come consigliere in Spagna durante la guerra civile e al suo ritorno a Mosca sarà uno stretto collaboratore di Dimitrov[x].

La riunione della Commissione italiana serve soprattutto a coinvolgere gli studenti della Scuola Leninista Internazionale nell’acquisizione della nuova politica, indicata dal Comintern e fatta propria dal Partito, che punta sull’azione dei comunisti all’interno delle organizzazioni di massa del fascismo.

Il clima politico nel quale si svolge l’incontro ci viene illustrato da Paolo Spriano alla fine del secondo volume del sua “Storia del PCI”. Dopo aver dato conto delle critiche rivolte al Partito Comunista da parte russa, nella riunione della Commissione italiana del Comintern che si era tenuta nel novembre del 1933, scrive lo storico comunista: “Ma ben più secca e demolitoria è la critica che un dirigente dell’autorità di Manuil’skij – e con la sua tradizionale aggressività – rivolge al PCI nel maggio del 1934, in sede di segretariato politico ristretto dell’Internazionale Comunista.

                La responsabilità del PCI di fronte alla situazione internazionale – dice Manuil’skij – è molto grande. Dopo 12 anni di fascismo la nostra sezione italiana dovrebbe essere in grado di darci una esperienza esemplare nel campo della lotta antifascista per tutta l’Internazionale; i compagni italiani questa esperienza non ce l’hanno data. Il PCI non ha saputo esercitare la sua funzione che la situazione nazionale e internazionale gli assegnavano: è rimasto indietro. Abbiamo moltissimi documenti sul lavoro del PCI, ma nei fatti siamo allo stesso punto”.

L’elemento centrale della critica di Manuil’skij è che i comunisti italiani non avrebbero capito che in una “situazione come quella italiana la lotta di classe si realizza all’interno stesso delle organizzazioni fasciste (non statali). I compagni italiani devono costruire le loro organizzazioni nelle organizzazioni di massa del fascismo”. Viene anche criticato il cosiddetto “carbonarismo”, una definizione già utilizzata dallo stesso Manuil’skij diversi anni prima. Questo consisterebbe nel vivere come si fosse emigrati anche quando ci si trova ad operare in Italia: “bisogna trovare il modo di parlare alle masse ogni giorno e sugli aspetti specifici che assumono le varie questioni”.

Commentando queste critiche, Spriano ricorda che siamo nel maggio del 1934, “il momento cioè in cui Stalin dà mano alla nuova svolta, che non può non contenere una critica agli indirizzi precedenti, e soprattutto non riflettere – da parte di dirigenti che li avevano tanto perentoriamente adottati come costoro – lo sconcerto provocato dalla sconfitta in Germania.” [xi] In sostanza siamo nella fase di passaggio tra il momento di maggior settarismo nella politica del Comintern e quello che porta alla stagione di tutt’altro segno dei Fronti Popolari. D’altra parte i primi mutamenti in tal senso si sono già avviati in Francia, sulla base di una spinta dal basso verso l’unità tra i partiti di sinistra per impedire che anche questo Paese, dopo la Germania, possa cadere nelle mani del fascismo.

La riunione della Commissione Italiana alla quale partecipa Picelli è aperta da una relazione di Furini (Giuseppe Dozza) nella quale si sviluppano quei temi di fondo già evidenziati dalle critiche di Manuil’skij. Dal punto di vista dell’analisi si sottolinea che il fascismo non può essere compreso solo come terrore ed esercizio della violenza fisica che pure c’è stata e resta un elemento condizionante, ma bisogna cogliere anche l’elemento ideologico attraverso il quale il fascismo cerca di costruire un consenso di massa. A tal fine assume grande importanza la formazione di un’ampia rete di organizzazioni che inquadrano le masse stesse. L’attenzione si concentra soprattutto sul Dopolavoro, la cui funzione sarà oggetto di un ulteriore approfondimento nelle note “Lezioni sul fascismo” che Togliatti terrà agli studenti italiani a Mosca nei primi mesi del 1935[xii].

La discussione ruota soprattutto sul tema dell’azione delle cellule di fabbrica e del loro rapporto con i sindacati ufficiali fascisti e con le organizzazioni del Dopolavoro. Si riscontra un acceso dibattito tra chi ritiene che queste debbano continuare ad operare autonomamente, ovviamente in condizioni di clandestinità, e chi ritiene invece (ed è la linea dell’Internazionale) debbano immergersi maggiormente nelle organizzazioni esistenti, al fine di potersi collegare a tutte le possibili, anche embrionali, forme di dissenso che emergono tra i lavoratori e nel Paese. In questa sede l’intervento di Manuil’skij non assume i toni, richiamati da Spriano, che lo caratterizzano in altre occasioni. Al contrario ci tiene a dimostrare l’apprezzamento sia per la relazione di Furini (Dozza), sia per gli interventi degli studenti della Scuola e in generale il sostegno dell’Internazionale alla direzione del PCI, pur non mancando di sviluppare poi diversi aspetti critici. Il nemico principale in questo momento, spiega Manuil’skij è il “settarismo”. Più che la critica alla socialdemocrazia, è importante guardare ai problemi quotidiani della classe operaia. Si tratta di un indubbio mutamento di prospettiva rispetto a quanto veniva detto solo uno o due anni prima.

Picelli (“Ferro”) interviene in questo contesto generale e in questo dibattito specifico. Il testo integrale è in appendice a questo articolo, ma mi pare di poter evidenziare questi punti. Innanzitutto l’adesione alla prospettiva indicata dal partito di lavorare attivamente nelle organizzazioni da massa del fascismo. Non ci sono le condizioni oggi – dice Picelli riprendendo un tema della relazione – per un attacco frontale al fascismo e quindi bisogna adattare l’azione politica alle condizioni concrete, così come si fece ad un certo punto della “guerra civile”. E si può vedere qui un riferimento alla sua esperienza, quando ci si rese conto che l’aspetto militare (che pure fu così importante nelle vicende parmigiane del ’22) non poteva essere riproposto in un contesto in cui andavano cambiando i rapporti di forza.

Nel suo intervento l’esponente comunista rileva come esisterebbe in Italia un forte sentimento di odio nei confronti del fascismo, una valutazione che aveva già espresso nelle relazione scritta nel marzo del 1932 dopo la fuoriuscita dall’Italia, basandosi sulla sua esperienza diretta di alcuni mesi vissuti a Milano[xiii]. Un quadro che almeno in sede storiografica non è quello prevalente, dato che, sulle orme dello storico e biografo di Mussolini Renzo De Felice, questi vengono considerati “gli anni del consenso” al regime.

Questo intervento di Picelli alla Commissione italiana del Comintern presenta un certo interesse, non solo per il suo contenuto, che conferma l’adesione dell’ex deputato comunista alla linea politica del suo partito pur con alcuni accenti che rimandano alla sua specifica esperienza, ma anche perché, come rilevato da William Gambetta[xiv], non sono molti gli interventi pubblici riscontrati nei suoi anni sovietici che termineranno nell’agosto del 1936.

Nell’ottobre del 1934 esce su Lo Stato Operaio, la rivista ufficiale del Partito Comunista pubblicata dal centro estero a Parigi, un suo lungo articolo di rievocazione della “rivolta di Parma”. Lo aveva inviato già nel novembre del 1932, quindi pochi mesi dopo il suo arrivo a Mosca, su richiesta della stessa rivista, ma venne pubblicato solo due anni dopo. Forse, come è stato ipotizzato[xv] perché più utilizzabile nel contesto di una politica impostata sulla prospettiva del “fronte unito” e non più della contrapposizione frontale con le altre forze antifasciste.

La voce di Picelli si ascolterà nuovamente nel 1936, prima della sua uscita dall’Unione Sovietica e del suo arrivo in Spagna, preceduto da un breve passaggio in Francia, in sole due occasioni (al meno alla stato delle conoscenze attuali).  La prima è la sua sottoscrizione, messa in particolare evidenza, dell’appello intitolato “per la salvezza dell’Italia e la riconciliazione del popolo italiano”, spesso ricordato (anche in funzione polemica) per il riferimento ai “fratelli in camicia nera” oltre che per altre formulazioni, come il richiamo favorevole al primo programma fascista del 1919 quale base di un possibile riavvicinamento tra italiani al di là della divisione tra fascisti e antifascisti. Questo documento si colloca in un momento di grande difficoltà nell’azione del partito all’interno del paese e in un quadro segnato dall’apparente “successo” fascista nell’invasione dell’Etiopia che aveva portato alla proclamazione dell’Impero[xvi].

Quasi negli stessi giorni dell’approvazione dell’appello per la riconciliazione (10 agosto 1936), Picelli risponde ad una lettera ricevuta dagli operai parmensi emigrati in Francia, esprimendo il desiderio di recarsi in quel Paese per riprendere la lotta, nelle prime file, sostenendo il “Fronte popolare contro il fascismo e contro la guerra”. Nello stesso testo richiama “l’epica lotta del Fronte Popolare spagnolo” e “gli eroi del Fronte popolare che colle armi in pugno difendono la Repubblica democratica spagnola”. L’esponente comunista ricorda di aver espresso questa volontà “parecchio tempo fa” ma che, come “militante disciplinato” è “subordinato alle disposizioni del Partito”[xvii].

I due interventi, quello collettivo e quello personale, attestano anche un momento di contraddizione presente nella politica del PCI che cerca di aprire qualche spiraglio nel consenso del regime con un linguaggio che pone l’accento sull’anticapitalismo piuttosto che sull’antifascismo, con formulazioni che riecheggiano la contestuale propaganda del PC Francese[xviii] mentre contemporaneamente in relazione al conflitto spagnolo si impone una caratterizzazione dell’azione politica e di propaganda in senso nettamente antifascista. Non sembra in dubbio che l’animo di Picelli lo ponga maggiormente in sintonia con la seconda linea di ragionamento e di propaganda.

Nel complesso si può dire che in nessun documento e presa di posizione pubblica di Picelli finora noti (e nemmeno in quelle riservate emerse fino ad oggi dagli archivi) si registri un dissenso politico col suo Partito, anche quando, come nel caso della riunione della Commissione italiana del giugno 1934, si esprimono apertamente punti di vista diversi ed esiste una certa libertà di dibattito, non essendo ancora arrivata la stretta del momento più tragico del terrore staliniano.

E’ noto che negli ultimi mesi della sua permanenza a Mosca, nel clima di sospetto generalizzato che si diffonde soprattutto nei confronti degli emigrati in Russia da altri Paesi (una vera propria ondata xenofoba, a volte alimentata dai mezzi di informazione ufficiali[xix]), nei confronti di Picelli venga adombrata l’accusa di “trotskismo”. Un sospetto che per altro non si basa su alcun atto politico e che risulta anche in netto contrasto con la sua adesione, senz’altro sincera, alla politica di difesa dei “fronti popolari” in Francia e Spagna. Mentre è altrettanto noto che questa politica era fortemente avversata da Trotsky e dai suoi seguaci perché, a differenza della strategia del “fronte unico”, si allargava alla partecipazione di formazioni politiche borghesi, come i Radicali in Francia e la Sinistra Repubblicana in Spagna.

Oltre ad essere coinvolto in dissidi fra emigrati italiani nella fabbrica Kaganovic che lo portarono all’isolamento, nonostante rifiutasse fermamente ogni accostamento all’opposizione “trotskista” (termine in quel contesto usato in modo generico per indicare qualsiasi espressione di malcontento), venne inserito in una lista di emigrati italiani sottoposti a vigilanza perché trotskisti o legati ad elementi trotskisti (e sembra che Picelli potesse risultare inserito in questa categoria per l’amicizia con un “dissidente” italiano), stilata da Moises Borisovich Chernomordik, dell’Ufficio Quadri del Comintern[xx]. L’inchiesta nei suoi confronti, se lascia qualche ombra in un meccanismo che assume dimensioni sempre più paranoiche, si conclude con la valutazione che “il compagno Ferro (Picelli, ndr) è politicamente buono, si orienta bene”, in un documento sottoscritto congiuntamente da Stella Blagoeva del Comintern e Antonio Roasio e Domenico Ciufoli del PCI e datato 10 giugno 1936. Si apre anche alla possibilità di attribuirgli la cittadinanza sovietica[xxi]. Un fatto rilevante in una fase in cui gli emigrati sono tendenzialmente considerati come potenziali spie.

Lo stesso Togliatti, che pure aveva un ruolo di primo piano nella struttura del Comintern, venne ad un certo punto escluso dall’accesso “a questioni strettamente segrete”, perché considerato, da Dimitrov e dai maggiori esponenti del Partito Comunista Spagnolo esiliati a Mosca, “un estraneo, non nostro”. Trattandosi del luglio del 1941, la morsa del terrore si era allentata e l’NKVD non era più onnipotente[xxii]

La tragica ironia della storia vuole che Chernomordik, l’accusatore di Picelli, venisse poi arrestato nel giugno del 1937 e fucilato nel settembre successivo[xxiii]. La ricostruzione che lo storico William J. Chase compie degli effetti del terrore staliniano sul Comintern dimostra come si sia sviluppato tra l’assassinio di Kirov, il primo di dicembre 1934 e la fine del 1938 un progressivo e sempre più esasperato meccanismo di “caccia alle streghe”. La repressione colpirà duramente soprattutto dalla primavera del 1937, quando i vertici del Partito sovietico danno di fatto mano libera all’NKVD, sotto la guida di Jezov, per portare agli esiti più estremi la repressione. Molti di coloro che nel corso del 1935 e poi con maggiore determinazione nel 1936, dirigono le operazioni di “vigilanza” all’interno del Comintern, quando la repressione ancora si traduce nell’allontanamento dall’apparato e non sempre all’arresto, diventeranno anch’esse vittime nel momento in cui l’azione dell’NKVD si trasforma in un’insensata operazione di vero e proprio sterminio di centinaia di migliaia di quadri e militanti comunisti, pochissimi dei quali in realtà erano veri oppositori.

Picelli ottiene, su sollecitazione di Manuil’skji, l’autorizzazione dei servizi segreti sovietici e poi il visto di Togliatti per recarsi in Francia, pur senza poter disporre di incarichi ufficiali del Comintern[xxiv]. Da qui, dopo aver preso contatti anche con il PSI massimalista di cui era segretario Elmo Simoncini (che utilizzava in Francia lo pseudonimo di Dino Mariani) e tramite questo con il POUM, parteciperà alla guerra civile spagnola nei ranghi comunisti e nelle file delle Brigate Internazionali, fino all’uccisione, colpito dalle postazioni franchiste, nel corso di un’operazione militare a Mirabueno, il 5 gennaio 1937.

Franco Ferrari

 

Commissione Italiana del Comintern, riunione del 10-11 giugno 1934.

Intervento di “Ferro” (Guido Picelli)

Nel rapporto del comp. Furini in merito alle difficoltà nel lavoro di massa in Italia, difficoltà che si incontrano nel movimento operaio, difficoltà che il partito vuole esaminare e rimediare, i passi che il partito ha fatto in Italia non sono certo dei passi da gigante, ma il partito marcia ad un certo ritmo ; quella che marcia ad un ritmo più rapido è la situazione che ci precede – non siamo allo stesso livello, ci si trova sempre ad una certa distanza. Quali sono le ragioni. Ci sono tuttavia degli elementi a nostro favore: la situazione economica, la quale, malgrado l’ideologia fascista, malgrado tutta la demagogia fascista, va sempre più aggravandosi; l’odio delle masse contro il fascismo – coloro che sono stati e che sono a contatto delle masse conoscono questa antipatia, questo odio contro il fascismo in generale.

E’ vero come ci ha detto il comp. Furini che il fascismo riesce a controllare le masse ovunque, esso riesce a controllarle in questo modo attraverso la creazione di una infinità di organismi, una infinità di Dopolavoro, questi ultimi sono degli organismi molto adatti per fare penetrare l’ideologia fascista, influenzare le masse sulla questione della guerra, ecc.

Dobbiamo opporci a questa nuova modalità di influenza del fascismo, in modo appropriato e che possa rispondervi, per strappare le masse all’influenza del fascismo e attirare queste stesse masse al nostro partito della classe operaia.

Si è riuscito, in una misura molto limitata, per chi ha passato la frontiera italiana ad avvicinarsi alle masse operaie. C’è l’influenza del fascismo, c’è il modo di pensare, l’atteggiamento delle masse verso il fascismo, tra le quali si deve sentire l’influenza del partito e contro ciò (l’influenza del fascismo, ndr) il partito deve lottare attualmente.

Se ancora non si è riuscito a fare, è perché il nostro partito non è alla testa dei movimenti di massa. Il partito deve essere ovunque. Perché? Indipendentemente, è l’insegnamento agli altri paesi; inoltre, non si è saputo definire come lottare contro il fascismo con l’aiuto dell’Internazionale (Comunista, ndr), dove sono i limiti…

C’è della resistenza ad applicare la linea del partito, per la linea giusta, c’è resistenza ad applicarla alla base del partito. C’è particolarmente una tendenza alla resistenza tra i vecchi quadri del partito. Se il nostro lavoro di organizzazione fatto fino ad oggi dalla sede centrale e la propaganda attraverso le cellule di fabbrica sono ancora insufficienti per strapparle (le masse, ndr) alle organizzazioni create dal fascismo che le corrompe attraverso la sua ideologia, questo vuol dire che l’influenza deve anche estendersi in queste organizzazioni per combattere l’attacco del nemico.

E’ il problema che si pone di fronte al partito; ovvero si aggiungono nuove forme di organizzazione ed è su queste nuove forme di organizzazione che vi sono opinioni differenti; occorre tener conto anche che questa generazione non è molto giovane – anch’io appartengo a questa categoria dei vecchi quadri. Bisogna riconoscere che il nostro apparato ha dei difetti meccanici, non risponde alle necessità del momento. Di conseguenza, le nuove forme statuali (del fascismo, ndr) e la modifica nella nostra tattica è di portare il nostro lavoro nelle organizzazioni avversarie.

Quando si tratta di apportare qualcosa di nuovo, ovvero delle nuove modalità attraverso le quali portare il nostro lavoro ovunque, non solo nelle fabbriche, dove sono le masse, si trovano sempre delle resistenze e delle opinioni diverse.

L’attacco frontale di cui Furini ha parlato, è l’attacco che certamente qualcuno desidera ma che non corrisponde alla realtà della situazione attuale. Mi ricordo che durante la guerra, si sarebbe voluto continuare certe formi superiori della realtà e della situazione e tuttavia si doveva modificare la nostra tecnica durante la guerra civile tra le due classi , quando c’è stata la lotta armata, questo si riproduce anche nella lotta delle classi. Noi dobbiamo appropriarci di nuove forme per far fronte ai nuovi attacchi del nemico.

Perché questa resistenza di una parte degli elementi più vecchi del partito e anche di alcuni che non lo sono? Perché vi è un’incomprensione e non si vede la trasformazione dialettica delle cose, questo porta ad una deviazione in primo luogo nel non vedere le nuove forme di lotta[xxv].

 



[i] Questo almeno è quanto scrive Togliatti nel necrologio pubblicato su “Lo stato operaio” in P. Togliatti, Opere, IV,1, (a cura di F. Andreucci e P. Spriano), Roma, 1979, p. 194.

[ii] G. Picelli, La mia divisa, (a cura di W. Gambetta), Ghezzano (PI), 2021, p.32.

[iii] F. Sicuri, Il guerriero della rivoluzione, Parma, 2010, p. 248.

[iv] E. Dundovich, Storia di ieri: Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, Parma, s.d., p. 2.

[v] F. Sicuri (a cura di), Guido Picelli, Parma, 1987, p. 103, cit in F. Sicuri, Il guerriero della rivoluzione, Parma, 2010, p. 187.

[vi] Sugli italiani alla Scuola Leninista Internazionale si veda F. Lussana In Russia prima del Gulag. Emigrati italiani a scuola di comunismo, Roma, 2007.

[vii] Il testo è presente negli archivi del Comintern, in parte digitalizzati in http://sovdoc.rusarchives.ru/sections/organizations/ ed è consultabile anche in un blog italiano, in formato PDF, a questo indirizzo web http://gramsci.giustizia.org/bundles/jushome/js/tinymce/filemanager/source/495_32_140.pdf

[viii] G. Picelli, La mia divisa, (a cura di W. Gambetta), Ghezzano (PI), 2021, p.32.

[ix] F. Lussana, In Russia prima del Gulag. Emigrati italiani a scuola di comunismo, Roma, 2007, pag. 113

[x] Il vero nome è Stepan Minev, cfr. P. Broué, Histoire de l’International Communiste 1919-1943, Paris, 1997, p. 1051. Secondo Victor Serge, Stepanov aveva fatto parte della Commissione internazionale del Centro dell’Opposizione a Mosca per poi allinearsi a Stalin, V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, Roma, 1999 (ma pubblicazione originale 1951), p. 243.

[xi] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol II, Gli anni della clandestinità, Torino, 1978 (prima pubblicazione 1969), pp. 408-409.

[xii] P. Togliatti, Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo, (a cura di Francesco M. Biscione), Torino, 2010.

[xiii] Ora in G. Picelli, La mia divisa, (a cura di W. Gambetta), Ghezzano (PI), 2021, p. 125.

[xiv] Op. cit., p. 25.

[xv] Op.cit., p. 25.

[xvi] Sull’appello si vedano: P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. III I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, 1978 (prima pubblicazione 1971), pp. 95-112 e G. Amendola, Storia del Partito Comunista Italiano 1921-1943, Roma, 1978, pp. 257-267.

[xvii] G. Picelli, La mia divisa, (a cura di W. Gambetta), Ghezzano (PI), 2021, p. 125.

[xviii] P. Togliatti, Opere, IV,1, (a cura di F. Andreucci e P. Spriano), Roma, 1979,, p. XLVII-XLVIII.

[xix] W. J. Chase, Enemies Within the Gates? The Comintern and the Stalinist Repression, 1934-1939, New Haven and London, 2001, p. 301.

[xx] E. Dundovich, Tra esilio e castigo. Il Komintern, il PCI e la repressione degli antifascisti italiani in URSS (1936-1938), Roma, 1998, p. 169 (cit in F. Sicuri, Il guerriero della rivoluzione, Parma, 2010, p. 251).

[xxi] E. Dundovich, Storia di ieri: Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, Parma, s.d., p. 5.

[xxii] G. Dimitrov, The Diary of Georgi Dimitrov 1933-1949, (a cura di Ivo Banac), New Haven and London, 2003, p. 182 (p. 333 nell’edizione italiana cit. da G. Fiocco, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, Roma, 2018. P.156).

[xxiii] W. J. Chase, Enemies Within the Gates? The Comintern and the Stalinist Repression, 1934-1939, New Haven and London, 2001, p. 477.

[xxiv] E. Dundovich, Storia di ieri: Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, Parma, s.d., p. 5.

[xxv] Si ricordi che si tratta della trascrizione di un intervento orale e per di più tradotto dall’italiano al francese, per cui alcune formulazioni presentano una forma ortograficamente poco corretta. Nella traduzione si è voluto salvaguardare questa caratteristica.

Su Guido Picelli leggere anche: ‘Unità e riscossa proletaria’: la bussola di Guido Picelli


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